venerdì 21 dicembre 2012
La parola data
L’estate scorsa mi sono occupato di un progetto con delle
persone anziane, uno spazio d’incontro e d’ascolto per permettere loro di
raccontare la propria esperienza di vita e scoprirne il senso profondo,
un’esperienza lavorativa molto particolare, nuova per me, perché non avevo mai
organizzato qualcosa per delle persone adulte e avanti nell’età. In uno di
questi gruppi, ho incontrato un uomo di 90 anni, calmo, sereno, ironico e
soprattutto consapevole della propria storia e del proprio vissuto; non si imponeva ma se invitato, volentieri apriva squarci di vita e ci poneva di fronte a
delle letture dell’esistenza semplici e concrete. Fabbro da quando era
ragazzino, mestiere appreso con passione nelle botteghe, artista perché la
passione per il mestiere diventava espressione di sé. Quest’uomo mi ha
raccontato molto della propria vita, si era creata una certa complicità e
confidenza, non era per me il nonno da ascoltare con tenerezza, lo scambio era
fluido e immediato. Un giorno mi ha raccontato della sua fede e del rapporto
con Dio, per nulla bigotto il suo parlare, concreto e senza moralismi, così mi
sono sentito libero di raccontargli di me, della mia scelta come laico
consacrato. Visto che era capace di fare lumini ad olio, gli ho chiesto di
realizzarne uno per la cappellina. E’ passata l’estate ed è arrivato anche
l’inverno e il 19 dicembre abbiamo avuto la presentazione del libro dei loro
racconti. Con mia grande sorpresa non lo vedo presente e un po’ mi dispiace, mi
dicono che c’è una sorpresa per me, immaginavo i soliti regali di ringraziamento,
preparo la faccia di circostanza, invece…
Raccontano che Ulderico per tutto questo tempo aveva chiesto
di me, telefonava in comune quasi tutte le settimane, oppure andava di persona:
“ma quando viene Amedeo devo dargli una cosa”; non era presente perché è venuto
a mancare otto giorni prima di quest’incontro, così suo figlio ha voluto
consegnarmi il regalo di suo padre: “ voleva proprio dartelo, ci teneva”. Non
ricordavo assolutamente del lumino, spesso corro troppo, così anche gli
incontri o i momenti forti che posso vivere con una persona rischiano di durare
il tempo di un sorriso, ma Ulderico ha dato valore, spessore, significato alla
sua promessa e prima ancora ha dato
forza e riconoscimento al nostro scambio. Questo suo gesto, questa sua
attenzione, la sua costanza credo che abbia la forza dirompente della vita e di
quanto le relazioni autentiche, libere, disinteressate possono trasformare,
scuotere, provocare il nostro vivere abitudinario. Il lumino è quello che
vedete nella foto, ora è nella cappellina del mio appartamento, segno concreto
di come posso vivere in questo quartiere.
“Gli incontri di ogni giorno costituiscono i fili di cui è
intessuta l’esistenza: non posso lasciarne cadere nemmeno uno”
E. Von Broeckhoven (gesuita e prete operaio, morto in fabbrica a
soli 36 anni).
mercoledì 19 dicembre 2012
Il concorsone non lo sa
Al mattino appena sveglio sento i bambini del palazzo che scendono per andare
a scuola, si trovano tutti insieme alla fermata dello scuolabus, ci sono anche
le mamme, i più piccolo hanno necessità di essere accompagnati, si mescolano
colori, lingue, abitudini differenti, qui mi sembra che non ci sia una vera e
propria maggioranza, c’è il mondo con tutte le sue sfumature. Gli stessi
bambini li ritrovo poi a scuola quando come educatore lavoro su progetti
interculturali e sui laboratori creativi, in questo caso mi rendo conto di
quanto possiamo veramente essere capaci di creare relazioni e possibilità nuove
per questi bambini. Mi fermo spesso ad osservarli, mi lascio contagiare dalla
loro spontaneità che, attenzione, nei bambini non è sempre frutto della loro
ingenuità, non sottovalutateli mai, sanno anche essere aggressivi e prepotenti,
ma ciò che mi colpisce è la loro comunicazione; oggi ad esempio una bambina di
origine cinese, arrivata da poco, comunicava attraverso gesti, sorrisi e parole
in cinese, con un bambino nigeriano, il quale ha tenuto a comunicarmi che lei
non parlava ancora in italiano, attenzione non mi ha detto che non parlava, ma
che non usava la lingua comune, cioè l’italiano: complimenti bella sfumatura.
L’altro è anche come lo vediamo e percepiamo, l’idea o l’immagine
che ci facciamo di lui, né condizionerà inevitabilmente anche la relazione, se
per esempio per me l’altro “non parla”, equivale a dire che non è capace, ha un
handicap, ma se non parla una lingua specifica, vuol dire che al momento la
deve ancora apprendere, ma resta il
fatto che è una persona capace di parlare, di ragionare, di esprimere pensieri
e sentimenti attraverso un altro idioma, in breve si riconosce la persona nella
sua interezza, nella sue capacità, nella sua storia, non parlare in italiano è
un particolare che non lo svaluta. E’ chiaro che questa ultima riflessione il
piccolo nigeriano non l’ha prodotta, ma come tutti i bambini, l’ha vissuta.
Mentre osservo, condivido subito con l’insegnante la
considerazione che faccio e il nostro diventa uno scambio, non solo
professionale, ha una sfumatura particolare: loro sono nella scuola da molto
tempo, conoscono il quartiere e le famiglie, si interessano di tanti aspetti e
non solo della didattica, in questo contesto ho la possibilità di vivere l’impegno
educativo che lascia i panni del freddo intervento professionale e si fa
contaminare dalla realtà e interagendo con essa trova le migliori strategie per
promuovere il ben- essere dei bambini.
Con queste insegnanti e il personale ATA vivo un’ amicizia, mi hanno arredato la nuova
casa, hanno appoggiato da subito il mio progetto d’inserimento, sanno della mia
scelta come piccolo fratello e ne condividono i passi; devo dire che sono state
loro a farmi amare questo quartiere, mi hanno insegnato ad entrare con
delicatezza nelle situazioni più difficili, non mi hanno mai indicato le
povertà, ma i gesti che rimettono in campo la dignità. Sono a Lido3Archi per
apprendere, non per fare, per saper riconoscere il positivo, non per mostrare
la mia azione. Gesù dice agli apostoli. “Vi precedo in Galilea” e la Galilea è
la regione delle genti, delle diversità, del mescolamento, Lui è già presente,
ci abita da sempre.
venerdì 14 dicembre 2012
Quello che le donne non dicono
Mescolarmi, questa è la parola che più di ogni altra in
questo momento della mia vita, risuona nella mia mente, non ancora nel mio
cuore, in quanto passare dal pensiero razionale a quello emotivo, è necessario
che l’esperienza venga integrata, è come la goccia d’acqua, sappiamo bene che
con il tempo scalfisce e modifica la roccia, ma il risultato non è immediato;
intanto senza forzare le situazioni provo a mescolarmi.
La riflessione di oggi parte da un fatto pratico, da una
telefonata di un assistente sociale, sapeva della mia presenza nel quartiere,
del mio lavoro con i bambini immigrati a scuola, per questo mi chiedeva di intervenire in una situazione delicata. Una
donna immigrata ha un bambino che presenta una grave disabilità, l’ostacolo
della lingua non permette né a lei, nè agli operatori del servizio di poter
comunicare e interagire correttamente nella gestione della situazione. Non sono
un mediatore culturale e questo lo chiarisco subito, ma mi rendo conto che
forse la prima cosa da fare è
individuare e attivare una rete di relazioni; molto spesso accede che le realtà
sono già organizzate e le risposte sono presenti, basta osservare e
individuare, mentre la nostra mentalità interventista, ci porta a non vedere le
potenzialità esistenti per poterci percepire indispensabili. Decido quindi di
non buttarmi troppo in avanti, ma di passare per altre strade. Il pachistano
che mi ha certato l’appartamento conosce molte situazioni ed è molto attivo nel
quartiere, è veramente una risorsa per tanti immigrati, infatti scopro
immediatamente che non solo conosceva la realtà di questa donna, ma si era in
qualche modo già attivato. Nel giro di una giornata eccoci tutti insieme a
parlare con la donna e cercare insieme soluzioni possibili.
Durante l’incontro non devo fare assolutamente nulla, sono
solo una presenza rassicurante per la donna, mi conosce come educatore della
scuola e per il corso d’italiano che abbiamo fatto insieme, mi sorride e sembra
contenta della mia presenza, almeno così percepisco. Ho una grande possibilità,
quella di ascoltare ed osservare, mi accorgo che lentamente emerge in questa
donna la fatica e il peso di una situazione che in un altro contesto, quello
del paese d’origine, avrebbe condiviso con altri della propria famiglia, il
fatto poi di non comprendere la lingua non gli permette né di chiedere, né di
avere quindi informazioni precise su come comportarsi, fa come può forse per
istinto, questo lo dice e lo ammette con delicatezza. La malattia o la disabilità
di un figlio è una fatica e una ferita per tutti, ogni cultura poi sviluppa una
propria visione della malattia, dandogli un preciso significato, ma lei è qui
in un altro contesto, in un doppio isolamento: fuori dalla sua cornice
culturale e lontana dagli affetti famigliari. Mentre si parla cerco di
osservarla, e in due o tre occasioni incrociamo lo sguardo, gli faccio cenno di
non aver paura, gli faccio notare che non è sola e che stanno trovando il modo
per aiutarla. Quanti pensieri terrà chiusi in sé, quante parole non dette,
quante richieste nascoste. Mi chiedo come possa apprendere una nuova lingua,
quando la sua mente è impegnata su altri fronti, come possa tirar fuori le
risorse necessarie per integrarsi nel nuovo contesto, quando tutto rimane chiuso
dentro e non c’è nessun canale per poterlo fare emergere; quest’aspetto della
migrazione è poco visibile e poco considerato, ma per alcune donne immigrate è
una dimensione molto presente nel loro vissuto, sono sentimenti non detti.
C’è anche del positivo e lo individuo subito: la rete di
sostegno emerge immediatamente, è fatta di altre famiglie della stessa
nazionalità, della disponibilità del servizio a coniugare la propria risposta
con la realtà culturale della donna, fino ad arrivare al coinvolgimento delle
insegnanti che immediatamente si trasformano in compagne di viaggio di queste
donne. Mi piace sentirmi parte di questa rete, disperso tra gli altri, mi piace
soprattutto della possibilità che mi è stata data di restare in silenzio e di
essere una presenza amica; mi torna in mente un passaggio che ho scritto nel
mio progetto di vita: “per me essere testimone del Suo silenzio significa amare
alla Sua stessa maniera: abitando nel silenzio il mistero di ogni uomo”
e
l’abitare genera sempre un cambiamento.
martedì 11 dicembre 2012
I numeri che non contano
Leggere è sempre una grande possibilità che regalo alla mente e al cuore, in questi giorni mi sono imbattuto in un bel libro "Chiedi alla sabbia, sulle tracce di Charles de Foucauld" di Raffaele Luise, un testo che parla non solo di fratel Carlo, ma di una realtà di Chiesa molto sconosciuta, ma a mio parere, molto profetica, parlo appunto della comunità cristiana che si trova in Algeria. Una piccola minoranza, per nulla intimorita da questa dimensione così ridotta e fragile per molti aspetti, e sopratutto libera da qualsiasi sentimento di proselitismo o rivendicazione, ciò che traspare da questi cristiani è il desiderio di essere e riconoscersi fratelli nell'umanità, con gli altri uomini e donne di diversa tradizione religiosa. Questo mi sembra profetico, il loro non sentirsi grandi o piccoli, il loro non rivendicare, ma unica preoccupazione di questa comunità è "saper essere" testimoni del messaggio evangelico, che si traduce nella costruzione di una fraternità condivisa tra le diversità. Le voci di questi profeti sono spesso sconosciute alla maggior parte delle persone, sono anche poco comprese, del resto a cosa serve stare in un paese a maggioranza musulmana e non poter aumentare il numero dei convertiti, cosa vuol dire abitare in un paese e rinunciare alla propria visibilità? Cosa vuol dire essere una minoranza? La Chiesa d'Algeria ha dato una risposta a quest'interrogativi, attraverso uno stile comunitario e una presenza concreta, questo è ciò che mi interessa, una Chiesa non intenta ad assicurarsi un futuro, ma interessata a generare vita negli altri, perché per questo è nata (cito una frase di fr Michael David Semeraro). Mi ha sempre colpito la testimonianza di alcuni piccoli fratelli o piccole sorelle che avendo vissuto in questo territorio, raccontavano della bellezza di una Comunità, che è fortemente radicata tra la gente, molti raccontano che nei momenti più difficili degli anni novanta, quando erano frequenti gli attentati o le stragi di stranieri in Algeria, le persone comuni hanno manifestato un senso di profonda gratitudine verso i cristiani, ancora oggi uomini e donne musulmane portano fiori sulle tombe di questi religiosi uccisi, c'è un continuo pellegrinaggio, non ha chiedere miracoli, come potremmo pensare, ma a celebrare la forza dell'amicizia e della vicinanza, vissuta in un momento difficile.
Il vescovo di Orano, Padre Claverie è una di queste voci potenti, perchè con la concretezza del suo vivere, con la passione per la gente, ha intessuto come un artigiano paziente ed appassionato, relazioni significative tra musulmani e cristiani, anche lui uomo scomodo e per questo ucciso in un attentato nel '96 dopo i Trappisti di Tibhirine. Sentite cosa scriveva: " Non vi è umanità che al plurale. Quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare a nome dell'umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell'esclusione. Nessuno possiede la verità, ognuno la ricerca, ci sono sicuramente verità oggettive, ma vanno al di là di tutti noi e alle quali non si può accedere che attraverso un lungo cammino, spigolando nelle altre culture, negli altri tipi umani, in ciò che gli altri hanno acquisito, hanno cercato nel loro particolare cammino. Scoprire l'altro, vivere con l'altro, capire l'altro non significa perdere la propria identità, rigettare i propri valori, significa invece concepire e preparare un umanità al plurale".
Sento in queste parole risuonare la forza del Vangelo, quella passione di Gesù di dare vita e non la preoccupazione di stabilire leggi divine o morali, sento che queste parole aprono un cammino concreto, sono uno strumento che può orientare il mio vissuto qui nel quartiere dove le pluralità sono nei volti, nei suoni e spesso anche nei profumi delle cucine, ma sono parole che mi spingono otre, mi fanno guardare con speranza il futuro che sarà certamente plurale, perchè lo è già adesso. Ma questo sguardo non si assume immediatamente, deve passere per un lungo cammino, nulla posso dare per scontato.
Nella chiesa di nostra Signora d'Africa ad Algeri si trova questa scritta: "Nostra Signora d'Africa prega per noi e per i musulmani", nell'umanità ci ritroviamo tutti.
Pierre Claverie |
Sento in queste parole risuonare la forza del Vangelo, quella passione di Gesù di dare vita e non la preoccupazione di stabilire leggi divine o morali, sento che queste parole aprono un cammino concreto, sono uno strumento che può orientare il mio vissuto qui nel quartiere dove le pluralità sono nei volti, nei suoni e spesso anche nei profumi delle cucine, ma sono parole che mi spingono otre, mi fanno guardare con speranza il futuro che sarà certamente plurale, perchè lo è già adesso. Ma questo sguardo non si assume immediatamente, deve passere per un lungo cammino, nulla posso dare per scontato.
Nella chiesa di nostra Signora d'Africa ad Algeri si trova questa scritta: "Nostra Signora d'Africa prega per noi e per i musulmani", nell'umanità ci ritroviamo tutti.
venerdì 7 dicembre 2012
Le dune di Lido3Archi
Charles de Foucauld aveva la possibilità di ammirare un paesaggio e vivere in un luogo decisamente disarmante dal punto di vista spirituale, parlo del deserto. Non ho ancora avuto la stessa possibilità anche se resta un desiderio profondo, quello di poter trascorrere un tempo negli stessi luoghi dove lui ha vissuto, per lasciarmi provocare da quell'esperienza di svuotamento e di infinito che il deserto appunto provoca. Ma non c'era solo questa dimensione nella sua vita, accanto al silenzio profondo, all'ambiente geografico, rude ed essenziale, fratel Carlo aveva anche la possibilità di vivere una relazione con gli altri che inevitabilmente era condizionata dall'ambiente; gli uomini e le donne con cui aveva scelto di vivere, ossia i Tuareg erano, potrei dire, "impastati" di deserto, così per entrare in relazione intima, fraterna con loro, lo stesso de Foucauld non poteva che fare la stessa esperienza: camminare nel deserto, saper vivere nel deserto. Credo profondamente che non si incontra Dio senza incontrare l'altro, non c'è un prima, né un dopo, ma una contemporaneità dell'esperienza, anche quando l'incontro con l'altro è conflittuale e duro, anche in quel caso, e senza fuggire da esso, posso fare autentica esperienza di Dio e dell'altro. Piccola sorella Magdeleine scriveva: "...Vorrei raggiungerlo nella preghiera insieme a tutte le creature, senza per questo dovermi separare da esse."
(periferia di una grande città) |
Negli anni tutte le fraternità e le persone che hanno scelto di vivere la spiritualità di Nazareth, hanno ritrovato il deserto o il paesaggio dell'Assekrem in cui visse fratel Carlo, nelle città, nei quartieri e nelle periferie dove hanno deciso di vivere; ci sono contesti sociali in cui il "deserto" in effetti, si manifesta attraverso il disorientamento, lo svuotamento, la perdita dell'orizzonte, metaforicamente parlando, ma allo stesso tempo, con molta gradualità, si apprende anche a scorgere, in queste realtà sociali ed umane, segni di speranza, gesti minimi di cambiamento. Questa prospettiva mi interessa, e più che una semplice prospettiva si tratta di stile di vita, di modalità nell' essere in relazione, di incontri e scambi che avvengono nel quotidiano,perchè sono convinto che la spiritualità non è mai distacco dal reale, ma la strada maestra che ci fa mescolare concretamente nella realtà degli altri come della nostra, e ci fa riscoprire il senso dell'appartenere alla famiglia umana.
Da 12 anni cerco di portare avanti questa scelta e questo stile, mi sento ancora all'inizio, ora con questo nuovo inserimento né riscopro la passione.
Da 12 anni cerco di portare avanti questa scelta e questo stile, mi sento ancora all'inizio, ora con questo nuovo inserimento né riscopro la passione.
"Dobbiamo mettere ben in chiaro: chi è stato rigenerato dal deserto resta con il suo carattere e la sua personalità. Il cambiamento è a livello della sua visione, della sua ottica di fede, del suo sguardo, anche se questo dovrebbe inevitabilmente avere un qualche impatto su tutta la sua personalità. Questo atteggiamento si esprime non soltanto nel contatto con le persone incontrate, ma anche nella relazione con le cose, con gli oggetti più banali del quotidiano"
martedì 4 dicembre 2012
Per capire inizio con il silenzio
"Sono qui per cercare di capirli" scriveva Charles de F. ad un amico per fargli comprendere quale era lo scopo della sua scelta e della sua presenza in una regione e in mezzo un popolo completamente isolato.
In questo momento sento importante quest'atteggiamento che fratel Carlo integrò dopo molti anni di permanenza nel deserto e dopo continui cambiamenti, importante per cercare di capire il contesto, o le persone con cui si è scelto di vivere, questo non è un dato di fatto immediato, ma prima di tutto è un processo, un lungo processo, che parte necessariamente da un azione molto semplice: " mollare la presa".
Si tratta allora di fare spazio, e non "dare" spazio, in quanto dare è sempre un atto di potere, mentre il "fare spazio" è riconoscere che ci sono spazi che appartengono ad altri; ma mollare la presa vuol dire per me, anche non determinare per forza le situazioni. La tentazione di controllare è sempre forte, ed è in genere frutto di insicurezza e di poca fiducia, per capire l'altro è necessario che io abbia fiducia e che sia chiaro in me che non lo conoscerò mai fino in fondo, liberandomi così dalla pretesa di possederlo.
Nella mia scelta di vita, quest'aspetto assume anche la dimensione dell'attesa, dell'imparare a stare senza far nulla, del rispettare i miei tempi e quello degli altri; mi sembra in effetti questa la dimensione del seme, che gettato nel solco, attende: che si amalgami con la terra, che arrivi la goccia giusta, che il sole non sia troppo forte...e soprattutto è necessario che il seme si fidi che il terreno che lo accoglie è un terreno fecondo.
Mi chiedo allora se ho lo sguardo libero per riconoscere questo terreno ( il quartiere), come terreno fecondo e non solo arido e pieno di difetti, se ho fiducia in me e negli altri per lasciarmi andare ad un meticciamento con questa realtà, e se sarò capace di tanto silenzio per saper accogliere e riconoscere i segni giusti di questa nuova tappa.
lunedì 3 dicembre 2012
Non solo il freddo era pungente
Sentirsi impotente mentre si ascolta una persona che ti comunica la sua situazione attuale, in questo momento di crisi, non è certamente semplice, l'impotenza poi si accentua quando guardandosi intorno, metaforicamente parlando, ci si scopre soli: di fronte alle difficoltà economiche, alle fatiche quotidiane, alle ingiustizie che si sperimentano, ognuno continua a vivere nel totale anonimato. Nè la società civile, nè la comunità cristiana e non so se altre comunità religiose hanno un atteggiamento differente, sono in grado di mobilitarsi per reagire, per mettere insieme le risorse necessarie, o mobilitare l'energia dirompente che si chiama solidarietà, per poter garantire concretamente a tutti la possibilità di una vita dignitosa (chiarisco che per solidarietà non intendo "elemosina", ma la mobilitazione dell'intera comunità in vista di un bene comune a partire dagli ultimi).
Probabilmente non siamo più abituati alla povertà, alla mancanza di denaro, assuefatti ormai al facile soddisfacimento di ogni bisogno, una sorta di desensibilizzazione che anch'essa è frutto di un'abitudine consolidata: "voglio, me lo compro".
Le abitudini, lo sappiamo, se non sono comunque "monitorate" diventano automatismi che ci mettono fuori dalla realtà e non favoriscono cambiamenti; mi è successo spesso in questo ultimo periodo, di parlare con persone che mi raccontavano la difficoltà di arrivare a fine mese, di rischiare di perdere il lavoro, o di averlo perso, con l'inevitabile aumento della preoccupazione, e il disorientamento per non saper affrontare la precarietà che è sempre più un dato di fatto nella propria quotidianità. Proprio questa mattina di fronte all'ufficio postale del quartiere, ho incontrato una donna, di origine polacca da molti anni in Italia, ci conosciamo da diversi anni, mi ha raccontato la sua storia, e il lavoro che ha perso, le tasse e bollette che invece arrivano puntuali e sempre con un aumento di tassazione, cosa fare per poter garantire dignità, studio e futuro per i propri figli. Non credo sia l'unica donna straniera che viva questo momento difficile, troverà nella sua stessa situazione anche diverse donne italiane.
Al di là del fatto concreto, dell'incontro personale che ho vissuto oggi, mi domando come la nostra società, i nostri politici e le nostre comunità di fede stanno reagendo a questo tempo di crisi: lasciamo che ci piombi tutto addosso, come un destino inevitabile, in balia di un tiranno nascosto che ci mette sull'orlo del precipizio e che ci toglie anche la speranza di un cambiamento? o incominciamo ad avere il coraggio di chiamare le cause di questa crisi, per nome? E' possibile che chi ha, ne avrà ancora e chi ha poco gli sarà chiesto anche quel poco, con la nobile scusa del bene comune?
Non sono esperto di economia, ne di politica e probabilmente queste domande sono luoghi comuni e discorsi di molte persone nel quotidiano, ma probabilmente proprio per questo motivo sento la necessità di chiedere, approfondire e perchè no, anche di rivendicare e indignarmi, perchè come m disse un amico prete: "indignarsi è una virtù".
Ho trovato interessante a questo proposito l'intervento del Prof. Mancini all'assemblea CVM, consultate il sito e l'articolo che è pubblicato su www.informazione.tv
Il Vangelo mi spingi a non distogliere lo sguardo da questa realtà, che tra le altre cose è anche la mia, del resto anch'io devo fare i conti con il mio piccolo salario, la spiritualità di Nazareth perde completamente di senso, diventa spiritualismo scialbo se non si lascia contaminare da questo quotidiano; questa mattina mi sono sentito impotente, probabilmente perchè ho subito pensato che la signora voleva chiedermi di cercarle lavoro
( solito problema legata alla sindrome del salvatore), quando invece lei non ha chiesto questo e al contrario, abbiamo condiviso di più i nostri vissuti, riconoscendoci e sentendoci alla pari, ho sentito che l'impotenza si è trasformata in movimento, in vicinanza, è stato allora che mi sono accorto della rete di relazioni e conoscenze comuni che possono diventare risorsa.
Probabilmente non siamo più abituati alla povertà, alla mancanza di denaro, assuefatti ormai al facile soddisfacimento di ogni bisogno, una sorta di desensibilizzazione che anch'essa è frutto di un'abitudine consolidata: "voglio, me lo compro".
Le abitudini, lo sappiamo, se non sono comunque "monitorate" diventano automatismi che ci mettono fuori dalla realtà e non favoriscono cambiamenti; mi è successo spesso in questo ultimo periodo, di parlare con persone che mi raccontavano la difficoltà di arrivare a fine mese, di rischiare di perdere il lavoro, o di averlo perso, con l'inevitabile aumento della preoccupazione, e il disorientamento per non saper affrontare la precarietà che è sempre più un dato di fatto nella propria quotidianità. Proprio questa mattina di fronte all'ufficio postale del quartiere, ho incontrato una donna, di origine polacca da molti anni in Italia, ci conosciamo da diversi anni, mi ha raccontato la sua storia, e il lavoro che ha perso, le tasse e bollette che invece arrivano puntuali e sempre con un aumento di tassazione, cosa fare per poter garantire dignità, studio e futuro per i propri figli. Non credo sia l'unica donna straniera che viva questo momento difficile, troverà nella sua stessa situazione anche diverse donne italiane.
Al di là del fatto concreto, dell'incontro personale che ho vissuto oggi, mi domando come la nostra società, i nostri politici e le nostre comunità di fede stanno reagendo a questo tempo di crisi: lasciamo che ci piombi tutto addosso, come un destino inevitabile, in balia di un tiranno nascosto che ci mette sull'orlo del precipizio e che ci toglie anche la speranza di un cambiamento? o incominciamo ad avere il coraggio di chiamare le cause di questa crisi, per nome? E' possibile che chi ha, ne avrà ancora e chi ha poco gli sarà chiesto anche quel poco, con la nobile scusa del bene comune?
Non sono esperto di economia, ne di politica e probabilmente queste domande sono luoghi comuni e discorsi di molte persone nel quotidiano, ma probabilmente proprio per questo motivo sento la necessità di chiedere, approfondire e perchè no, anche di rivendicare e indignarmi, perchè come m disse un amico prete: "indignarsi è una virtù".
Ho trovato interessante a questo proposito l'intervento del Prof. Mancini all'assemblea CVM, consultate il sito e l'articolo che è pubblicato su www.informazione.tv
Il Vangelo mi spingi a non distogliere lo sguardo da questa realtà, che tra le altre cose è anche la mia, del resto anch'io devo fare i conti con il mio piccolo salario, la spiritualità di Nazareth perde completamente di senso, diventa spiritualismo scialbo se non si lascia contaminare da questo quotidiano; questa mattina mi sono sentito impotente, probabilmente perchè ho subito pensato che la signora voleva chiedermi di cercarle lavoro
( solito problema legata alla sindrome del salvatore), quando invece lei non ha chiesto questo e al contrario, abbiamo condiviso di più i nostri vissuti, riconoscendoci e sentendoci alla pari, ho sentito che l'impotenza si è trasformata in movimento, in vicinanza, è stato allora che mi sono accorto della rete di relazioni e conoscenze comuni che possono diventare risorsa.
sabato 1 dicembre 2012
Charles de Foucauld, in costante movimento
Charles de Foucauld moriva il 1 dicembre del 1916 a
Tamanrasset in Algeria.
Questo è il giorno in cui tutte le fraternità lo ricordano,
ma per evitare di rendere tutto un po’ museale, o di dipingere il personaggio
come un eroe, o un santo da stampare in serie in formato tascabile, sarebbe
bene che ci lasciamo ancora provocare dalla sua esperienza. Una vita fatta di
continui cambiamenti, di ricerca costante del suo ideale di vita, ma
soprattutto fatta di passione per il suo “Beneamato Gesù”, come lo chiamava.
Chiaramente oggi leggendo ancora i sui scritti, che avevano il solo scopo e
obiettivo di essere appunti personali, beh! Ci fanno sorridere per la loro
forma e il loro stile linguistico, in molti passaggi risentono del devozionismo
dell’epoca, ma se si passa a leggere quella che è stata la sua esperienza e la
sua risposta al Vangelo, scoperto molto tardi nella sua vita, allora possiamo
comprendere quanto fosse fuori le righe del suo tempo. Per me lo è ancora: cosa
dice alla comunità dei cristiani oggi, quando parla di nascondimento, di lavoro
manuale, di mescolarsi nella massa, di apostolato dell’amicizia, di non essere
distinto dagli altri in nessuna maniera, “ ma essere in tutto come Gesù a
Nazareth”?
La nostra comunità cristiana e la nostra Chiesa è in
profonda crisi, e negarlo vuol dire non leggere la realtà e non saper vivere il
presente, rispondere alle sfide attuali con un ritorno in dietro nelle forme,
nelle strutture e nelle riflessioni teologiche, mi sembra una mancanza di
fiducia nel Vangelo stesso, o ancor peggio significa a mio parere, spendere
tutte le energie per imbalsamare e mummificare il Vangelo. Charles de Foucauld
dopo un lungo tempo di crisi e di vuoto, di indifferenza verso la fede e gli
uomini di fede, riscopre una presenza, che prima di tutto si incontra nella piccolezza
e nell’impotenza, e in particolare la scopre nella vicinanza all’altro.
All’inizio la sua scelta di vita religiosa lo ha spinto ad
andare nei luoghi e tra le persone che non erano evangelizzate, pur parlando di
un annuncio semplice, fatto nel silenzio e nella presenza dell’Eucaristia, era
comunque completamente immerso in quella mentalità e visione dell’annuncio, che rispondeva ad un binomio molto semplice: predicare il Vangelo e convertire. Ciò che a mio pare ha modificato e trasformato
completamente la sua visione, il suo pensiero e la sua prospettiva e per questo
ha profondamente mutato il suo relazionarsi con gli altri, è stato il lasciarsi
contaminare dalla gente.
Man mano che ha saputo abitare i luoghi, incontrare uomini e
donne di culture e religione diversa, inoltrandosi fisicamente nel cuore del
deserto verso le popolazioni più povere e isolate, la sua fede, il suo rapporto
con Dio e gli altri si è trasformato: non la conversione, ma la conoscenza dell’altro;
non l’apologia della propria fede, ma la condivisione dell’esperienza di Dio,
non più il battezzare ma l’immergersi insieme nella dimensione di Dio.
Di seguito altri testi per approfondire
lunedì 26 novembre 2012
Partecipando ad un incontro organizzato al Centro Culturale San Rocco a Fermo, ho potuto riscoprire un testimone della fede che ancora oggi ha molto da dire, un profeta che continua a provocare, a porre domande, a suscitare speranza, è padre Ernesto Balducci.
Dopo qualche giorno per posta elettronica, d.Mario mi spedisce questo documento, leggendolo mi sono convinto che quando le riflessioni sono autentiche e frutto dello sforzo di compromettersi fino in fondo con la realtà che si vive, allora le parole non restano vuote e superano il limite del tempo, restano attuali, perchè sono pronunciate da chi sa guardare nel cuore degli uomini, sono per questo parole di fede, sono parole profetiche:
DOBBIAMO VIVERE INSIEME
(Ernesto Balducci dal Secolo XIX del 26 gennaio 1992)
Il
moltiplicarsi degli episodi di «razzismo» in tutta l'area occidentale (ma
bisogna prepararsi: ne avremo presto anche nell'Est europeo, in fase rapida di
omologazione) pone uno dei problemi radicali con cui deve confrontarsi ogni
progetto politico, da quello di una semplice amministrazione civica a quello
della Comunità europea. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle simbologie e
dalle fraseologie, spesso antisemitiche, che rimandano al razzismo ideologico
hitleriano. Niente di strano che gli
automatismi del razzismo prebellico continuino a funzionare: essi forniscono
l'orizzonte immaginario di maniera a cui ricorre preferibilmente
l'incultura. Ma l'impianto della nuova
forma di razzismo, che io chiamo «fascismo etnologico», e, a mio giudizio, del
tutto diverso.
Esso ha radici nell'ancestrale paura del diverso, e trova
le sue ragioni immediate nella difesa della condizione di privilegio
minacciata dall'arrivo di nuovi ospiti, gli immigrati dal ,Sud. Essi
non sono più gli immigrati di altri tempi, destinati prima o poi all'assimilazione
dentro la cultura che li accoglieva. Quando essi arrivano, trovano già uno
spazio culturale omogeneo a quello d'origine. Il fatto nuovo è che la società
capitalistica, in forza della stessa legge di mercato che ha fatto la sua
fortuna, è costretta a ospitare vere e proprie comunità etnicamente aliene
dalla sua cultura. [...]
Io sono tra quelli che ritengono inevitabile e, alla
fine, provvidenziale un'Europa multietnica, ma mi rendo conto che questa
previsione è un lusso da intellettuale, che rischia di mettere a pié pari la
drammaticità del processo che la metamorfosi presuppone. E infatti il processo non avviene all'interno di una
cultura della solidarietà, come quella che, grazie a Dio, sta crescendo negli
ambienti cristiani; avviene dentro una cultura della competizione, giunta al
massimo della sua diffusione. I protagonisti degli atti di neorazzismo sono
infatti quasi sempre dei «balordi», che recepiscono e trasmettono a livello
istintuale una provocazione che andrebbe mediata da una cultura illuminata.
Sono i prodotti tipici della «pedagogia» televisiva, in cui dominano i forti e
i bravi; in cui, per dirla tutta (penso agli spot televisivi), il modello
d'uomo è un mammifero vorace, dai muscoli efficienti, pronto al successo quale
che sia.
Questa ideologia, svuotata di ogni lume di ragione, fa
presa con la voglia di affermazione il cui sbocco preferito appunto, l'atto
aggressivo contro il diverso. Infatti, se si spoglia l'uomo di ogni struttura
culturale resta in lui la paura dell'altro, la percezione che la propria
identità e messa in rischio dalla presenza dell’alterità.
Che siano, in molti casi, i poveri, i disoccupati, i
sottoproletari, gli emarginati di casa nostra a farsi protagonisti di gesti
deplorevoli non deve far meraviglia: sono
proprio gli incolti a subire i riflessi di insicurezza causati dalla presenza
dei diversi. Con una proiezione elementare essi riversano su chiunque
rappresenti la diversità, magari con il colore della pelle, la brutale
aggressività con cui scongiurare la paura, capovolgendola nel trionfo. La bravata li solleva subito al rango
degli uomini di successo, i veri eroi della cultura dominante.
Detto questo, mi si permetta di definire col massimo
della semplicità la questione etico-politica sollevata dalla cronaca del
neorazzismo in un momento come questo, in cui l'Europa, a dispetto dei suoi
trionfi, soffre di una drammatica assenza di progettazione del proprio futuro.
Dato per scontato che la presenza dei gruppi etnici diversi dal nostro si farà
più massiccia, si aprono due vie: quella della lenta assimilazione, di modo che
in una o due generazioni gli immigrati diventino in tutto come noi, fuori che nel
colore della pelle; o quella della convivenza tra gruppi etnicamente e
culturalmente diversi. Come ho detto, io credo che la via giusta — una via che
ci porta oltre il mondo moderno, in una postmodernità dal profilo
inafferrabile — sia quella della convivenza. Ma se questo è vero,
dobbiamo affrettarci a predisporre gli strumenti necessari — a cominciare dalla
scuola — perché questo futuro si avveri senza traumi. Sarà anche giusto
mettere in prigione i balordi dalla testa rapata, ma quel che occorre è una
rapida instaurazione della cultura della diversità. Le culture che si chiudono
su di se sono condannate a morire. La nostra non fa eccezione.
Molti mi hanno chiesto dove sono inserito ora, in quanto parlo di "quartiere" ma senza specificarlo.
che stai costruendo con la tua vita, nel dono totale agli altri e con uno
stile, per fortuna poco invasivo e corrosivo, poco forzante, molto delicato
e decisamente laicale.
Il 30 ottobre sono arrivato nel nuovo appartamento di Lido3Archi, così dopo diverse ricerche e contatti, finalmente ho incontrato la persona giusta che nel giro di una settimana ha reso possibile la mia sistemazione, è un signore pachistano, molto conosciuto nel quartiere per il suo impegno a favore degli immigrati e che da molti anni vive qui. Mi conosceva come educatore nella scuola del quartiere, quindi sono stato facilitato nella relazione e nella fiducia che subito è nata tra noi, mi ha indicato esattamente il luogo dove, a suo parere, era meglio che mi inserissi: tra le famiglie.
L'alloggio è decisamente piccolo, quindi non posso assolutamente accumulare molte cose, anzi devo essere molto essenziale, sin dai primi giorni ho respirato un area famigliare, sicuramente dovuto al fatto che da tempo desideravo abitare qui, ci sono presenze le più differenti tra loro, sia per provenienza culturale che di situazione sociale, si tratta per me di entrare in punta di piedi e con molta discrezione. Una persona mi ha scritto in un e-mail:
Come va l'inserimento nella "famosa" terra di mezzo di
Lido Tre Archi? Spero di cuore che per te sia un altro pezzo del bel puzzle che stai costruendo con la tua vita, nel dono totale agli altri e con uno
stile, per fortuna poco invasivo e corrosivo, poco forzante, molto delicato
e decisamente laicale.
Spero che la mia presenza sia veramente così caratterizzata, almeno questo è il mio desiderio, approfondendo sempre di più la spiritualità di Nazareth che Charles de Foucauld ha vissuto, pur nelle contraddizioni e nei continui cambiamenti presenti nella sua vita.
Per concludere ecco la Parola che la liturgia proponeva il giorno del mio arrivo qui a Lido:
Lc 13,18-21 "..Il Regno di Dio è come un granello di senape...è come il lievito impastato nella massa..",
è il riferimento evangelico che le diverse Fraternità utilizzano per dare senso al loro stile di presenza nel cuore delle masse, questo Vangelo letto al mio arrivo qui, è stato come una mano decisa, che appoggiata sulla schiena, senza esitazioni, né forzature, mi ha dolcemente spinto in avanti.
giovedì 22 novembre 2012
E' passato ormai un mese dal mio inserimento in questo nuovo quartiere,inizia così una nuova tappa della mia vita e della mia scelta di piccolo fratello dell'abbandono. Tornare a vivere da solo e in particolare mettere radici in un nuovo contesto, non è certamente semplice, allo stesso tempo mi accorgo come tutto questo è frutto di un lungo cammino, della mia storia personale. Desidero in particolare essere questo piccolo seme che viene gettato nel solco, dove rimane nel silenzio in attesa che la terra l'accolga, lo impasti e lo trasformi lentamente, per portare frutto. La lentezza, la fiducia, la pazienza, il silenzio, come anche l'adattamento, lo spaesamento o anche perchè no, l'aridità, sono tutte dimensioni che metaforicamente vive il seme. Questa vuole essere la mia vita qui nel quartiere.
"Risiedere da solo nel paese è cosa buona, c'è la possibilità di agire, anche senza fare molto, perchè si diventa "del posto", si è così "piccoli" e così alla portata di tutti"
Charles de Fuocauld
"Risiedere da solo nel paese è cosa buona, c'è la possibilità di agire, anche senza fare molto, perchè si diventa "del posto", si è così "piccoli" e così alla portata di tutti"
Charles de Fuocauld
martedì 20 novembre 2012
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