giovedì 31 dicembre 2015

Un anno a tutto "rischio"

Vorrei semplicemente provare ancora a correre qualche "rischio" per il tempo da vivere che mi si presenta davanti; se la convenzione tra gli uomini ha scelto e codificato questa scansione del tempo in anni, il suo ritmo vorrei punteggiarlo di coraggio nel rischio, non inteso come avventura senza limiti, ma  al "rischio" nell'essere pienamente nelle relazioni, e come scrive Francesco Stoppa, "rischio come facoltà di scegliere, con il quid d'angoscia che comporta e la gioia che spesso riserva, ed è una prerogativa squisitamente umana".
In questo tempo e in questa cultura che modella i suoi cambiamenti epocali spesso sull'individualismo, vorrei rischiare su altro, sulla comunità e sulla provocazione che l'altro genera in me, preferisco di gran lunga combattere e magari anche arrabbiarmi sui limiti che la convivenza con altri mi pone, piuttosto che arroccarmi semplicemente nel capriccio della mia autoaffermazione, sento che in quest'ultima direzione non capirei nulla di me, svuoterei di senso la mia umanizzazione, non coglierei in assoluto nulla del volto di Dio, che mai potrebbe suonare in armonia con la nota unica di un solista.


realizzata dalle piccole sorelle di Gesù

mercoledì 23 dicembre 2015

Natale 2015

C’è una “fragilità” che non spaventa, un “consumarsi” che non è perdita; c’è un “prendersi il rischio” che non è spavalderia, un “compromettersi” che non è la scelta delle mezze misure; c’è ancora un “silenzio” che non è mutismo, e c’è un “essere presente” che non è mai ingombrante o invadente; c’è poi un “ascoltare” che non ha frenesia e non calcola il tempo che passa, c’è anche una “passione” che sa essere discreta e non rumorosa, ma semplicemente presente. C’è un “fidarsi” che non poggia su garanzie e richieste a priori, c’è un “per sempre” che si nutre della creatività nel rinnovare, che sa restare quando altri fuggono, che sa cogliere il cambiamento come evoluzione e non come rottura. C’è un “nulla” che non spaventa perché è un grembo fecondo, un vuoto che genera, uno spazio donato. C’è il coraggio “dell’abbandono”, che poggia sulla certezza che l’altro è un bene per me, il sommo bene.

C’è infine la “voce di un vento sottile” che arriva inaspettata, che non sconvolge i grandi sistemi, che non distrugge, che non spazza via, non cancella, la sua leggerezza le permette la rivoluzione più temuta: l’incontro dell’altro nel profondo dell’intimità, lì in quel luogo poco frequentato dove si impara a stare liberamente senza temere nulla, nemmeno la propria fragilità o povertà. Quando quel “vento sottile” si lascia soffiare fino al punto più nascosto di sé, ci si spaventa, si ha un brivido d’incertezza, un gesto d’irrigidimento, si percepisce un “troppo”, una porta spalancata di colpo, su un infinito da cui non sappiamo più difenderci; Allora, solo allora si coglie una libertà che tocca le nostre mani, scioglie i nostri nodi, allenta le nostre resistenze, placa le nostre paure, da energia alla nostra responsabilità.


C’è una “Parola” nel vento sottile: ho piantato la mia tenda tra di voi






domenica 20 dicembre 2015

Risuonare nel cuore di Dio

Non posso da solo raggiungere nessun obiettivo, nessun cambiamento significativo, non posso nemmeno poter cogliere la ricchezza e la profondità dell’esistenza umana se non immergessi quotidianamente la mia mia vita nelle relazioni, che non necessariamente devono essere numerose, al contrario per vivere il valore della reciprocità occorre saper curare e gustare alcune delle amicizie possibili.

Quello dell’incontro e dell’amicizia, è un dono che ho avuto la fortuna di ricevere; la costanza, la presenza mai scontata e banale di alcune persone nella mia vita, hanno suscitato in me il coraggio di “prendermi il rischio” ogni volta che mi trovavo di fronte a scelte  e bivi da imboccare.

L’incontro e il confronto con alcune realtà comunitarie monastiche hanno ulteriormente arricchito il mio percorso, facendomi assaporare il nutrimento dell’accompagnamento silenzioso, della presenza nella vita dell’altro con un profondo senso di cura e ascolto. I fratelli di Bose che sono a San Masseo ( Assisi), le sorelle Clarisse a San Benedetto del Tronto, come anche il dialogo con alcune piccole sorelle di Gesù con cui negli anni ho coltivato una fraterna amicizia, mi hanno aperto lo sguardo sulla dimensione della “presenza nel quartiere” e della condivisione del vissuto degli uomini di questo tempo; in un contesto culturale come il nostro, fatto di scontri e prepotenze, di gara al ribasso, dove tutto viene demolito per il semplice gusto di contrapporsi, ho trovato in questi uomini e donne del silenzio e dell’ascolto, un’apertura  e una capacità di essere presenti all'altro, che mette speranza oltre che buon umore, di cui tra l’altro ne abbiamo veramente tanto bisogno. Con loro ribadisco, che nulla è privato e individuale, che l’altro non mi è mai d’ostacolo, che la dimensione dell’appartenenza comunitaria è una profezia che stenta oggi ad essere compresa, ma vale la pena coltivare e vivere.



In questi giorni nella mia cappellina resta accesa una piccola luce, che rende presente questi legami, spesso silenziosi, nascosti, feriali, solo nel cuore di Dio possono avere la giusta e fragrante risonanza; la fiammella del lumicino sa racchiudere volti, persone, storie d’amicizia…è piccola e fragile ma guai non curarla per mantenerla accesa. 










domenica 6 dicembre 2015

Solo ma non da solo

Il nostro paesaggio interno è nutrito, irrorato da ciò che è fuori dai confini dell’io, i nostri simili, i luoghi, le esperienze che abbiamo depositato in noi. Tutto ciò è divenuto l’humus del nostro essere1. Lascio che risuonino, facciano eco ed entrino nel profondo della mia intimità queste parole che ho trovato nel libro di Francesco Stoppa; come dire, mi suonano bene, arrivano dritte a quello che sento essenziale nella mia vita, parole chiare che esprimono quello che a fatica oggi riesco a formulare chiaramente per trovarne risonanze anche in altri. Si, c’è una fatica che accompagna le mie giornate, c’è spesso un sentirmi fuori posto, un non accontentarmi che non sempre esprimo, perché scelgo di dare tempo al silenzio e all'attesa del processo di decantazione dei pensieri, delle scoperte e del sentire, soprattutto non mi piace l’atteggiamento ormai dominante di urlare, dire prima di riflettere, ed essere referente del mondo; la realtà si ascolta, si osserva, si accoglie e solo dopo si può pronunciare qualche parola su di essa, a patto che non sia l’ultima e la definitiva. Non si tratta di un atteggiamento triste e sconfortato, tutt'altro, sento una sorta di ribellione per  l’orizzonte ristretto e ripiegato su se stesso dell’individualismo ben radicato nella nostra cultura occidentale, a tutto questo  reagisco scegliendo di non dare spazio e tempo a parole, opinioni e grida scombinate, che vengono messe in circolo nel vortice dell’informazione di ogni genere, scelgo ciò che vale la pena leggere, ascolto chi sa cogliere e valorizzare il silenzio che deve starci tra una parola e l’altra, perché quel silenzio permette di distinguerle, valorizzarle e armonizzarle: chi coglie e valorizza quel silenzio minimo, conosce le parole che pronuncia, le possiede, le ha maturate, le ha ricevute e sa riconsegnarle. 

E’ un tempo questo, che mi affatica per il forte ripiegamento su se stessi, sostenuto da quella convinzione carica di onnipotenza, che da valore massimo al “farsi da sé”, no personalmente non mi basta questa logica, al contrario mi sviluppa un forte senso di isolamento. Man mano che vado avanti nella mia vita, che gli anni passano, scopro il profondo desiderio degli altri, l’esigenza di “appartenere”, nel senso di “essere parte di” e quando ci si scopre una parte, si ha la consapevolezza che non si è il tutto. La mia vita quotidiana è fortemente caratterizzata da questo “essere solo”, ma mai “essere da solo”. L’aver scelto consapevolmente, anche con un po’ d’incoscienza e rischio, l’essere solo (la scelta del celibato), mi ha in questi anni introdotto in una dimensione di profondo ascolto di ciò che realmente mi abita, ha in alcuni momenti aumentato una sorta di sensibilità che mi porta a far risuonare nell'intimità ogni esperienza, volto, incontro, situazione. 
 Nell'essere solo ci si avventura in uno spazio essenziale, un po’ nudo e spoglio,  all'inizio assomiglia ad una stanza austera e eccessivamente essenziale; poi lentamente, quando la “volontà”, la rigidità, l’ambizione, cede il passo all'abbandono fiducioso ci si ritrova in un silenzio profondo che è più vicino ad un grembo, che senza far rumore, passo dopo passo, o meglio silenzio dopo silenzio, fa spazio ad una vita. Una vita che ti consegna un piccolo ritornello, una chiave per comprenderla e svilupparla nella pienezza: mai da solo. No non mi piace questo tempo di narcisismo esasperato, di emotività che si attiva solo quando si è colpiti direttamente, per tornare con rapidità in una sorta di stato di desensibilizzazione; non mi piace nemmeno questo sentirci tutti connessi, immersi nelle relazioni non stop, impegnati in un protagonismo continuo, pena l’isolamento; in questa logica non c’è spazio per nulla e nessuno, è troppo pieno di “io”, ed il “tu” sta scomodo perché non fa rima con “io”. Può Dio trovare posto in quest’orizzonte ormai ben radicato? No, Dio e l’esperienza di Dio è “fuori luogo”; 
Adam (che in ebraico indica anche l’umano) dove sei?”…”Caino dov’è tuo fratello?”…”sono forse io il custode di mio fratello”.


1. Francesco Stoppa; "Istituire la vita, come riconsegnare le istituzioni alla comunità"; ed. Vita e Pensiero.

sabato 31 ottobre 2015

Il Calendario

Si può accogliere la propria storia non come un flusso incontrollato di eventi, che arrivano magari casualmente, ma leggere in maniera appassionata e libera il susseguirsi dei desideri che ci abitano, che determinano i nostri incontri, orientano i nostri sguardi, muovono la forza delle nostre motivazioni. Quando rileggo la mia storia personale mi accorgo che è profondamente caratterizzata da tante sfumature, che hanno coniugato fatiche e conquiste, in cui non è riconoscibile solo la mai volontà, tutt’altro,  rintraccio piacevolmente anche il tocco leggero di altre mani, gli sguardi accoglienti di persone che hanno avuto e hanno ancora un posto importante nel mio quotidiano, che rendono credibile, profonda e palpabile la parola fedeltà, il valore dell’amicizia e la rivoluzione “del prendersi a cuore l’altro”. Quando mi fermo per volgere anche con tenerezza lo sguardo su quello che ho fin qui vissuto, non mi dispiace notare che alcuni segni che si sono impressi nel ricordo sono anche ferite, vanno per questo chiamate con il loro nome, riconosciute nella loro origine e accolte nel loro senso. Quando senza nostalgia , né rimpianti di nessun genere rileggo la mia storia, mi accorgo che posso dire con profonda serenità e gratitudine, che “non nasco da solo”, al contrario riconoscere le impronte lasciate da tanti incontri e relazioni, farle risuonare nella parte più profonda della mia intimità, rende rivoluzionaria e dinamica, la mia dimensione spirituale. E’ indispensabile per me oggi, non perdere questa capacità di saper guardare e rintracciare la forza dell’esistere e del divenire, attraverso un profondo senso di appartenenza:
appartenenza ad una comunità di uomini e donne che provano a vivere il Vangelo, anche se spesso contraddittoria, incoerente, impaurita o irrigidita, come è anche la Chiesa cristiana a cui ho scelto di appartenere;
appartenenza ad una comunità di uomini e donne come quella del mio quartiere, affaticata, complessa, etichettata, determinata da logiche che spesso non producono vita, cambiamento e crescita, ma segue le logiche del mercato, guadagnare tanto, subito e a discapito di altri. Una comunità in cui altre sfumature positive faticano ad emergere, ma non per questo sono assenti;
appartenenza non in astratto ad un generico concetto di umanità, che generalizza, appiattisce, idealizza e anche anestetizza, ma appartenenza ad un umanità  che ritrovo nella concretezza di volti, nomi e storie che posso rintracciare direttamente nel contatto quotidiano.
Questi i pensieri che ieri mi hanno fatto compagnia;  sono particolarmente affezionato alla data del 30 ottobre, sono arrivato in questo quartiere esattamente tre anni fa, un passaggio e un nuovo inizio che ha in un certo senso reso possibile il mio progetto di vita come piccolo fratello in maniera ancora più incisiva; alla luce di questa realtà, la vita quotidiana che vivo in questo contesto, mi permettono di rileggere alcuni passaggi del mio “progetto di vita”, per ritrovare ancora la passione e il senso della mia scelta, e mi fanno dire “ne vale la pena”. Mi piace condividere un passaggio di questo progetto di vita con chi ha la pazienza di accogliere queste mia pagine di diario:

"Come piccolo fratello dell’abbandono, mi sento chiamato ad una particolare consacrazione che racchiude lo specifico della mia sequela al Vangelo: consacrare a Dio tutta la mia vita di relazione e di amicizia.
L’incontro aperto e quotidiano, con tutti quelli che in Dio incontrerò lungo il mio cammino, sarà per me l’unico mezzo per annunciare il Vangelo. Sull’esempio di Charles de Foucauld, cercherò di essere un fratello universale, senza escludere nessuno; attraverso l’amicizia, che sarò capace di vivere in maniera piena e autentica, cercherò di annunciare agli uomini la forza e la bellezza della fede in Dio. Per questo motivo, oltre a pronunciare un voto di povertà, d’obbedienza e di vita celibe, come piccolo fratello dell’abbandono, consacrerò la mia vita alla relazione d’amicizia con i più poveri, riconoscendo così che  una sana relazionalità diventa il luogo della contemplazione di Dio e dell’annuncio del Vangelo, allo stesso tempo nella misura in cui condividerò questo con la mia comunità d’appartenenza, sarò testimone visibile di una comunità ecclesiale che si mette in cammino, che ascolta, riconcilia e invita ogni uomo a riconoscere e ad incontrare nel suo quotidiano la presenza di Dio. Cfr 1 Cor 9,22; Gv 15
Dio, donando il suo unico Figlio, ci ha annunciato che la salvezza e la riconciliazione passano attraverso l’incontro, la condivisione, l’amicizia e l’ascolto. Charles de Foucauld scoprì tutto questo quando, messosi di fronte al mistero dell’Incarnazione, si sentì chiamato a vivere la vita di Nazaret, il tempo in cui Gesù non ammaestrò, non insegnò, ma condivise e ascoltò, nel silenzio e nel nascondimento della vita quotidiana.
Per questo desidero vivere nella gioia un’esistenza povera ed essenziale, una vita celibe per il Signore, vivere nella letizia l’abbandono alla Sua volontà e non tenere mai tutto questo nascosto o “protetto”, ma inserito nel quotidiano della gente più comune e povera: niente privilegi, niente separazioni, ma in tutto uguale agli altri, in particolare nella realtà di vita dei più emarginati.
Infine, consacrare la mia vita alla relazione  e all’amicizia e in essa annunciare i valori del Vangelo, significa credere che la riconciliazione, attesa tra i popoli, tra le religioni, tra le stesse comunità cristiane, passa inevitabilmente attraverso L’INCONTRO GRATUITO DELL’ALTRO.

Come  piccolo fratello dell’abbandono scelgo una vita contemplativa: è quindi caratterizzata da una ricerca costante d’intimità con Dio, che necessariamente rimanda alla relazione con tutti gli uomini. Le storie delle persone saranno il luogo privilegiato per la preghiera. Scelgo di essere quindi il vicino di casa, il compagno di lavoro, l’amico incontrato per strada, scelgo la dimensione dell’incontro gratuito e spontaneo, per contemplare e riconoscere il volto di Dio.

Per questo motivo sarò poco riconoscibile nella mia scelta di laico consacrato, apparirò inutile nel mio agire, ma il mio obbiettivo è quello di esser accolto dai poveri e da ogni persona, come amico e fratello; la povertà di vita e di mezzi, mi aiuteranno ad entrare in situazioni difficili per lasciarmi accogliere come quando, nel silenzio della preghiera, mi lascio accogliere da Dio.”



lunedì 19 ottobre 2015

I conti non tornano

Salgo le scale del mio palazzo dopo una giornata intensa, certo si comprende a prima vista che non abbiamo proprie le idee chiare su cosa voglia dire “cura degli spazi comuni”, la signora delle pulizie ogni volta che mi incontra, con tre sole parole d’italiano, le uniche che conosce, mi fa cenno che è sempre molto sporco e che lei può fare ben poco; suo figlio un giorno mi disse chiaramente che aveva accettato che la mamma lavorasse nel nostro condominio solo perché c’ero io, cosa intendesse dire non mi è chiaro, ma ho compreso che tutto quest’anonimato che spesso mi sembra di vivere, non è sempre vero e alla fin fine il nostro stile di vita, la modalità di stare in un ambiente, o la maniera di curare le relazioni, non passano assolutamente inosservate, sono convinto che non serva molto per raggiungere l’altro dove esso si trova, anzi occorre semplicemente “disarmare” i nostri sguardi, incominciando a fare a meno delle tante certezze con cui giudichiamo gli altri o leggiamo le realtà umane e sociali, riappropriandoci al contrario di un po’ di meraviglia e forse prima ancora, di fiducia.

Parola molto strana questa, “fiducia”, in un tempo culturale profondamente centrato sulla contemplazione dei propri ombelichi, misurata dal “mi piace” e dal “se ne ho voglia”, fidarsi è veramente non solo una grande sfida, è di più: è conoscere ed accogliere qualcosa di sconosciuto. La misura con cui accogliamo le relazioni o valutiamo l’importanza di un incontro, la decisione che ci spinge ad approfondire un legame e ci permette di andare più a fondo nella compromissione con l’altro, è spesso contaminata dal                             “valore di mercato” che la persona di fronte a me assume nel mio immaginario o meglio ancora, nel mio “piano finanziario” delle relazioni. In quest’ottica, che spesso sfugge completamente alla nostra presunta e orgogliosa certezza di essere liberi e consapevoli, è ben evidenziata nel libro “L’epoca delle passioni tristi” che trovo  quanto mai profetica: “ Nessuna forma di solidarietà viene percepita positivamente perché, in questa visone utilitarista del mondo ( nei passaggi precedenti si parla del primato del neoliberismo), l’umanità appare costituita da una serie di individui isolati che intrattengono tra loro innanzitutto delle relazioni contrattuali e competitive, facendo passare in secondo piano le affinità elettive, le solidarietà famigliari o di altro tipo”. E’ cosi che consapevoli o meno, ormai le nostre relazioni sono invischiate dalle dinamiche commerciali, rischiando di strutturarsi su un criterio di “utilità”, “produzione” e “profitto”. Come può risuonare la parola “fiducia” e ciò che essa promette come senso della nostra umanizzazione, in un orizzonte di valori ormai cambiato strutturalmente? E’ una vera e propria con-versione, un cambio di prospettiva e visione che non può essere assunta se non ponendo l’accento su quel “con”, ossia a partire dalla comune appartenenza, dal riprendere in considerazione che non si nasce da soli, ma si riceve l’esistenza e ci si avventura alla ricerca del suo senso, non come avventurieri solitari. La fiducia non prevede “moneta” e non assicura “guadagni”, richiede una libertà interiore che va continuamente curata e accompagnata.
Il degrado che spesso incontro in quest’ambiente, le storie difficili e disastrate che incrocio, non mi fanno assolutamente pensare che questo quartiere è “senza Dio”, è piuttosto senza fiducia, lo affermava bene e con semplicità un amico senegalese della parrocchia: ognuno diffida dell’altro e quindi ognuno cerca di stare ben protetto nelle proprie appartenenze e nelle proprie case. Il degrado, la violenza e i soprusi che spesso si vedono hanno tra le altre matrici, la ricerca del guadagno facile, smisurato ed avido, che nella nostra cultura trova terreno fertile di sviluppo. Poi d'improvviso c’è qualcuno che mi annuncia che Dio abita qui, e mi indica che ancora oggi il Nazareno ha una provocazione da mettere in atto: il mio amico albanese, vicino di casa mi intrattiene, vuole parlare, ha voglia di raccontarsi, come fa spesso quando mi invita a casa sua, mi racconta con un certo pudore e prudenza che la sua conversione non l’ha cercata, che Dio non gli interessava, era altro che voleva, “gli si è presentato”, sentirlo presente nella vita è stato un’esperienza totalmente gratuita, “gli ha fatto fiducia mentre si trovava nelle situazioni peggiori”, né catechismo né dogmi, ma solo una relazione gratuita,  non mercanteggiata.


Questo è il Vangelo che sono venuto a ricevere, l’annuncio dagli “inaspettati” che mi indicano il volto di un Dio imprevisto e sempre altrove, un Dio che ci immerge nel senso profondo dell’esistere  e ad esso ci appassiona. Questo il Vangelo che ha senso dire con la vita e le scelte non eclatanti, ma che ci gettano nel cuore della realtà concreta degli uomini di questo tempo.

lunedì 7 settembre 2015

Spazi di Fraternità 2016

Prendete carta e penna, oppure la vostra agenda e segnate le date dei prossimi incontri di Spazi di Fraternità. Dopo una giornata di confronto e verifica con quelli che hanno partecipato alla tre giorni a Fonte Avellana, abbiamo finalmente definito il tema di fondo e gli aspetti da coniugare nei quattro pomeriggi di confronto, ascolto e approfondimento, con l'apporto prezioso e competente di alcuni amici che abbiamo coinvolto. Vorrei citare un passaggio del libro "L'epoca delle passioni tristi" (M. Benasayag; G. Schmit; Feltrinelli), che credo possa dare il senso che abbiamo cercato di dare ad un iniziativa come questa: "La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animate dal desiderio, pratiche concrete che riescano ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Educare alla cultura e alla civiltà significa- e significa ancora- creare legami sociali e legami di pensiero". 
Sullo sfondo la spiritualità di Charles de Foucauld e tutta la spinta profetica che ancora oggi può suscitare, con lo sguardo legato a quello che oggi stiamo vivendo; è così che abbiamo scelto "Nutrire le radici" come tema di fondo. Saremo accompagnati nel confronto da Daniele Moretto monaco di Bose; Gianni Giacomelli monaco Camaldolese; Luca Alici filosofo; piccola sorella Paola Francesca rientrata da un anno dalla Siria. 
Gli incontri si svolgeranno presso la parrocchia San Marco alle paludi di Fermo dalle 16.00 alle 18.00. Dettagli nel volantino e per maggiori informazioni potete contattarmi all'indirizzo e-mail  amedeo.angelozzi@tiscali.it, o sulla pagina f di "spazi di Fraternità".
Partiremo a Gennaio...ma nessuno può dire che non lo sapeva in tempo.
Ringraziamo di cuore Serafino D'Emidio di Ascoli per la pazienza nel costruire con me e Francesca il volantino.



lunedì 24 agosto 2015

Ne basta un pizzico

“…sai le persone hanno paura di essere amate, per questo scappano”. Sono rientrato da poco dall’eremo di Amandola, pochi giorni ricavati tra quelli disponibili di ferie, necessari come ogni anno per fermarmi e dar spazio a quello che bolle nella testa e nel cuore e far risuonare, nel silenzio e nella solitudine, ciò che mi porto dietro da questo  mio quotidiano.


Frigo completamente vuoto, mi ha messo ancora più languore questa mattina appena svegliato, quindi primo impegno della giornata: la spesa. Buste tra le mani, chiavi di casa in bocca, tentativi rocamboleschi di chiudere l’auto senza poggiare nulla a terra, vista  la pioggia caduta in abbondanza e sul più bello il “buon giorno” di una donna sulla piazza, che conosco e che non potevo non accogliere. Sorrido dico ciao e cadono le chiavi di casa, “ esce uno di carcere” commenta con un detto che conosce, significativo per questo ambiente. Questa donna l’incontro spesso sotto casa e tutto è iniziato circa un anno fa con gli auguri di Pasqua che le ho rivolto spontaneamente, da lì, come se fosse stata una piccola porta aperta , ogni volta mi racconta qualcosa di sé e della propria storia difficile di donna e madre; mi colpisce il fatto che non c’è bisogno di molto per incontrarla, basta veramente un sorriso perché in qualche maniera ti rivolga una parola o ti racconti qualcosa. Non è una storia facile la sua, difficile da cogliere e comprendere, visto l’immagine spesso solare e sicura di sé che mostra, eppure così non è, forse mi dico è la forza che nel tempo  ha cercato in sé e solo in sé, che l’ha resa capace di mostrare altro: credo che ognuno di noi costruisca immagini  interiori ed esteriori contraddittorie, tra quello che abbiamo vissuto o viviamo e quello che mostriamo, diventano come corazze protettive per certi aspetti, necessarie alla sopravvivenza per altre, restano comunque incoerenti; mentre mi racconta e mi parla, guarda dritto negli occhi e il suo sguardo è specchio. Ci sono tanti riflessi di me in quel “guardarmi” e per questo non sempre riesco a reggere il suo sguardo, mi rendo conto che le mie poche parole e il desiderio di non dire nulla di troppo ma solo ascoltare ciò che desidera comunicarmi, agevola il suo parlare e confidare, certo siamo in strada, tutti possono vedere e sentire, ma questo non crea in lei nessun ostacolo. Ad un certo punto mi colpisce una frase, che sembra dare luce e a quello che racconta: _…le persone hanno paura di essere amate, per questo scappano. La sua storia d’abbandono la legge in quest’ottica, ed è ciò che le ha permesso di non soccombere. Tra le pieghe serrate e compatte del suo racconto, che ben nascondono la sofferenza e mitigano una fatica lunga di anni, quella chiave di lettura non mi sembra per nulla banale, come mai è banale quello che in strada ho imparato lentamente ad ascoltare ed accogliere. Certo amare è una parola ormai banalizza, svuotata di qualsiasi significato concreto, priva di conseguenze o impegni, gonfia di emotività e sensazioni di durata limitata, ma il contesto a cui si riferiva questa donna è ben altro, riguardano i legami tra le persone, quelli che la natura ti impone (legami di sangue) e quelli che ti cerchi, sono relazioni che ti danno vita perché ti identificano, ti fanno sentire “appartenente”, di questi legami abbiamo tutti bisogno e quando nasce in noi il loro desiderio non è certo a scadenza, ma lo sentiamo in un per sempre. Non mi va di aggiungere altro a questa pagina di diario, le parole ragionate desidero che lascino il posto al “movimento” profondo che il pensiero condiviso con questa donna ha provocato. 

Eremo Angela Paola-Amandola
E’ nella relazione d’amicizia gratuita e spontanea accolta nel quotidiano, che riconosco il terreno fecondo dell’incontro con Dio, con l’Assoluto che si disperde  in questa dimensione profondamente umana e ne fa opportunità per noi,  ecco che la strada diventa “il momento opportuno”, “quell’oggi” del Vangelo di Luca per superare quella paura di essere amato, per mettermi alla ricerca del senso dell’esistenza mia e degli altri e sento, oggi più forte di ieri, che Dio abita qui, e se ritrovo un pizzico di fede è solo perché questa donna mi ha insegnato ad avere meno paura della fiducia.


domenica 19 luglio 2015

Inutile opportunità

Giornate decisamente più libere, rintanato in casa nelle ore più calde, quando non sono preso dagli impegni di lavoro, ne approfitto per leggere, per dare spazio a ciò che amo profondamente, il silenzio. Da tempo ho cercato di salvaguardare un ritmo di vita non necessariamente frenetico, provando a distinguere quelli che sono gli impegni e le responsabilità della vita quotidiana, da quello che è il bisogno di sentirmi costantemente in movimento e presente ovunque, perché credo che questo secondo aspetto sia attuale nelle nostre vite  molto più di quanto si possa credere; fermarsi e chiedere anche a chi ci circonda che abbiamo bisogno di un nostro tempo, non sempre diventa facile da esplicitare, in particolare a noi stessi; fermarsi vuol dire ascoltarsi nel profondo, vuol dire anche vivere un tempo di gratuità in cui si impara a ricevere anche la parte più “scomoda” di noi. Questa gratuità ha in se una grande provocazione, fa risuonare una domanda di fondo, che per certi versi può spaventare: sei così tanto indispensabile? Sei certo di essere utile?

Le domande nette, hanno il potere di lasciare aperti più spazi interpretativi, arrivano dritte all'obiettivo di scomodarci e ci lasciano orfani di risposte certe, aprono dei vuoti, che non intendono riempire, ma custodire; in questo caso si può restare o fuggire. Nella mia professione di educatore, e nella mia scelta di piccolo fratello, il rischio dell’essere utile ed indispensabile per il bene degli altri è un pericolo costante, tanto evidente,  quanto nascosto tra le pieghe del mio agire quotidiano, nei gesti che compio, nella pretesa che le situazioni debbano evolvere nella direzione che ho intuito e immaginato come migliore. Ma si è utili anche quando si è “inutili”. In questa seconda sfumatura si ha l’occasione di ridimensionare se stessi e riposizionarsi tra gli altri, di ritrovare un’originalità che non risiede solo in quello che si fa per gli altri, ma nella capacità di lasciare lo spazio all'originalità dell’altro. Accogliere la propria “inutilità” vuol dire apprendere prima di tutto l’ascolto profondo e nutrito di meraviglia di chi ho di fronte, riconoscendone l’originalità e l’importanza, dando valore a ciò che l’altro vive, esprime e cerca. Siamo troppo condizionati da una cultura che per secoli si è sentita al centro del mondo, il fulcro di una civiltà insuperabile, superiore per antonomasia, che per quanto si voglia criticare, beh! non siamo mai così barbari come altri popoli. E’ radicato in noi questo senso di utilità che abbiamo in tutti i modi esportato e provato a seminare negli animi di altri popoli, facendone una missione di civilizzazione. Questa a mio modo di vedere è responsabilità di tutti, credenti e laicisti, perché popolazioni che si sentono così laiche non sono poi state così tenere e non violente nelle conquiste coloniali, come anche le nostre comunità religiose ed ecclesiali hanno per anni posto il proprio modello di Chiesa come l’unico a cui uniformarsi, fortunatamente oggi la vitalità, la riscoperta del Vangelo e della sua follia arriva dal Sud del mondo, dove incominciano con maggior vigore a rifiutare il nostro modello europeo e a mettere sullo stesso piano di valore il loro cammino, la loro storia, la propria spiritualità, in quest’ottica il viaggio di Francesco in America Latina ne è l’esempio più dirompente, ma i nostri mezzi informativi hanno riportato ben poco se non l’inutile osservazione sulla croce falce e martello.


Anche Dio in questa logica diventa utile o inutile, oggi lo è sempre meno. Ed è interessante che questo stia avvenendo soprattutto nelle nostre società occidentali, letto come elemento di progresso ed evoluzione da una mentalità arcaica, tradizionalista e superstiziosa. Mi sento di affermare che in effetti Dio è inutile per il nostro contesto, soprattutto quando ci spinge a lasciare le logiche del potere e dell’individualismo, nel Vangelo mi sembra che Gesù non pone l’assoluto di Dio, anzi lo combatte perché genera l’assoluto della religione, ma pone  la ricerca di Dio come relazione, come incontro mai posseduto in pienezza, come gratuità e passione donata a prescindere, ci pone di fronte ad un Dio plurale, perché riflesso nella pluralità dell’umano, a partire dal più inutile ed è proprio questa la provocazione più grande a mio parere, per il nostro contesto culturale e sociale. Questa logica evangelica mi spinge ad essere “ateo”, ad aver coraggio di lasciar andare anche le idee e immagini di Dio che mi sono costruito per utilità e protezione, perché diventi disponibile nello spazio dell’inutilità, a saper accogliere e ricevere quello che Lui è, senza manipolarlo per mia utilità, riporto le parole di fratel Andrè Louf , monaco trappista, che mi hanno profondamente toccato ed entusiasmato: “Più di ogni altro credente il contemplativo diventa allora un esperto in ateismo. Crede? Forse…ma senza credere a lui sembra. Non ci capisce più niente, salvo una cosa: che il Dio al quale pensava di credere non era che un semplice idolo, più o meno inventato da lui, o forgiato da una cultura ancora vagamente impregnata di cristianesimo; e che il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo, è completamente altro e verrà altrove; e soprattutto che egli non deve più cercare di raggiungerlo con sforzi, ma che basta attenderlo senza stancarsi, e lasciarsi afferrare da Lui, nell'ora che a Lui piacerà”.


venerdì 12 giugno 2015

I gusti di Dio

Restare nel tempo “dei piccoli traguardi raggiunti” e scoprire che alla fin fine gli obiettivi e i sogni così tanto desiderati, hanno un sapore e una forma inaspettata, perché frutto d’incontri e collaborazioni, perché si è creduto fortemente all'appartenenza reciproca più che ad un triste “fai da te”; restare nel tempo dell’attesa, dove si impara che la frustrazione del non immediato, permette di andare in profondità nella propria storia e nel proprio bisogno, lasciando che il tempo rafforzi il coraggio per saper abbandonare ciò che non è strettamente necessario o semplicemente frutto di “capricci” e falsi obiettivi, inoltre non fuggire il tempo dell’attesa ho scoperto, mi permette di ridimensionare le aspettative, ridefinendo il mio quotidiano nella cornice del possibile e del reale; infine  restare poi nel tempo della crisi, il luogo in assoluto più faticoso da frequentare, spesso anche molto insidioso, perché evitato, misconosciuto e frainteso, eppure se non fuggito, il più fecondo.

In questi giorni di calma, dopo la grande abbuffata d’impegni lavorativi ed altro, scopro che queste dimensioni dell’esistere hanno ritmato l’esperienza di questi ultimi mesi. Sovente la frenesia, le responsabilità e gli impegni che non possiamo disattendere, rischiano di travolgerci e ci tolgono quella lucidità che solo potrebbe farci cogliere il bello di quello che avviene nella nostra vita; mi sono aggrappato con tenacia a quei momenti della giornata in cui in assoluta intimità con Dio, ho “staccato la presa” e “mollato il freno a mano”, non mi ha interessato la quantità, piuttosto la qualità del tempo trascorso in piena reciprocità, nell'ascolto senza pretesa e senza un obiettivo specifico, nell'assoluta gratuità e nella libertà di dire: “sono qui e mi basta”. Una relazione è reciprocità, è vita quando genere movimento, quando non anestetizza, ferma, chiude o crea semplicemente un nido ovattato, allora quel “sono qui e mi basta” rivolto all’Altro, non è il paradiso raggiunto, non è il luogo della fuga dalla tempesta e dai rischi, né l’utilizzo dell’altro per il proprio benessere, è l’esperienza di una profonda fiducia, di uno sguardo schietto su chi è presente in te e davanti a te, di un riconoscersi reciproco e continuo che genera vita e vita in abbondanza.


E’ il Vangelo che dà sapore e concretezza a questi momenti di intimità, che se ascoltato non è mai un formulario, o un codice, ma una continua apertura all'ascolto della vita, un invito ad avere “uno sguardo altro”, a crescere nella passione per un cammino di umanizzazione, il proprio e quello degli altri, come ripete spesso Enzo Bianchi, per cogliere la “soddisfazione” profonda di Dio nell'aver consegnato all'eterno quelle parole dell’origine: “ed era cosa molto buona”, pronunciate quando ritirandosi fece spazio davanti a sé all'umano, l’Adam.


Gesù ha continuato a pronunciare queste stesse parole, spingendo il piede sull'acceleratore: siamo disposti anche noi a dire e rendere visibile, tangibile, sperimentabile la nostra umanità e quella degli altri come “cosa molto buona”? 



martedì 5 maggio 2015

Solitudine disabitata

Sono diverse settimane che mi serpeggia dentro uno strano senso di solitudine, quella dal sapore amaro, dalla sensazione di mancanza, dal colere un po’ grigiastro, non mi è mai successo di sentirla così viva e di percepirla appartenente al mio quotidiano. Da quando ho scoperto e scelto la vita di Nazareth non ho mai smesso di cercare e ritagliare per me momenti di deserto, di solitudine, salvaguardando il più possibile quell’ascolto interiore che mi ha permesso di andare fino in fondo nella mia vita, di cogliere le sfumature delle scelte che di volta in volta desideravo assumere; addentrarsi nel deserto interiore non è mai troppo facile, soprattutto quando si ha poca consapevolezza di sé, e quando ci si è ritagliati addosso un immagine tutto sommato accettabile, anche se non pienamente aderente alla propria realtà, mettersi in cammino in questo deserto può sembrare un atto di coraggio, un avventura pericolosa, una sfida alla propria vulnerabilità, sicuramente è tutto questo, ma per me principalmente è sempre stata la scelta di “non barare con me stesso”, a volte e in certi passaggi della mia vita il prezzo è stato molto alto, ma ne è valsa la pena, sempre.

Camminare sulla sabbia rende il passo appesantito, avanzare richiede il doppio della forza per contrastare quello sprofondare continuo, man mano che si avanza il corpo si getta sempre più in avanti, quasi che gettando il proprio peso più in là i passi si liberano meglio dall’invischiamento dei granelli; l’esperienza del procedere sulla sabbia credo che descriva bene l’esperienza stessa del deserto interiore. Sarà anche una fatica immane, un procedere con un dispendio di energia eccessiva, potrebbe anche rallentare la conquista della meta, non importa, camminare nel proprio deserto interiore ti porta al cuore delle tue melodie intime, stonate o armoniche che siano e questo, è l’ascolto che ripaga ogni fatica.
Questi ritagli di solitudine sono stati sempre più centrali nel mio cammino, essenziali in quanto esperienza di intimità profonda, sempre possibile, come sempre possibile è stata la certezza di cogliere la mia solitudine abitata da tempo e con estrema delicatezza e forza, da Lui.
Non pretendere, ma accogliere; non forzare, ma lasciar fluire; non condizionare, ma fidarsi; non manipolare, ma abbandonarsi: un continuo cambio di prospettiva, questo ha generato il Suo abitarmi.


Perdendo di vista questo modo di abitare la storia umana ho trovato le tinte scure della solitudine disabitata…il mio io ha tolto il posto ad un Tu.








venerdì 3 aprile 2015

Il Dio che non ti inchioda

Non sei il Dio delle certezze sfacciate e prepotenti, non sei il Dio delle barricate dell’uno contro l’altro, non sei il Dio delle nazioni sante e perfette e che a Te chiedono di dettare legge, non sei nemmeno il Dio dei luoghi santi, lontani dalle contaminazioni quotidiane e messi a parte per una purezza che può spesso escludere. Non sei il Dio dei silenzi complici, purchè si mantenga il proprio potere e prestigio, non sei nemmeno il Dio che freme e ordina la morte di chi non lo riconosce, che delega ad altri il “lavoro sporco” di togliere la vita, con la promessa di essere in eterno tra i privilegiati.

Sei nel silenzio del mattino presto dopo il giorno di festa; mentre tutti dormono ancora, Tu ti fai intimo con la caparbietà di poche avventate donne che ostinatamente continuano ad infrangere convenzioni e rituali, e cercano ancora di vivere i gesti semplici della reciprocità, spaccando a terra vasetti preziosi di profumo, ne sprecano l’essenza per esprimere quanto l’incontro con Te le ha profondamente vivificate, nemmeno la morte le ha fatte rassegnare. Ti fai presenza discreta, in quel mattino, ti fai voce di un soffio di vento leggero che diventa forza di vita ostinatamente riversata su tutti: in questo sei un Dio caparbio e testardo.

Non possiamo crederti Risorto, non possiamo riconoscerti vivo, se non ci siamo lasciati  scardinare dalla tua presenza nel grido degli ultimi, dal tuo metterti all’ultimo posto; non possiamo dirti Risorto, togliendo lo sguardo e anestetizzando le nostre coscienze di fronte alle violenze di questo tempo, alle grida soffocate di uomini e donne cancellate per le loro appartenenze culturali, religiose e geografiche.
Il silenzio del mattino di Pasqua è più forte di qualunque prova inconfutabile dell’esistenza di Dio…non inchioda la nostra intelligenza, ma sfida ognuno di noi ad avventurarci oltre la misura del proprio io e incontrarlo là, nella diversità delle genti.


Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”. Mc 16, 7

Buona Pasqua a tutti


venerdì 20 marzo 2015

Minestrina riscaldata

Le giornate sono piene d’incontri, di parole ascoltate, sono ricche di situazioni che a volte mi vengono consegnate tra le mane con una certa discrezione e delicatezza, altre volte mi viene buttato tutto addosso, con un buon carico di rabbia e aggressività: è il lavoro che ho scelto di fare e sono anche le priorità che ho deciso di dare alla mia vita, che mi permettono di abitare certe esperienze d’ascolto, anche quando diventa duro mettersi di fronte alle ferite degli altri. Questi sono i mesi dell’anno decisamente più ricchi in questo senso, il lavoro intenso nelle scuole tra adolescenti, bambini, e adulti, poi l’impegno nella comunità d’accoglienza e non ultimo il quartiere in cui vivo, tutto diventa occasione per incontrare, per lasciarmi toccare, coinvolgere, interrogare e soprattutto mettermi in crisi. Molto spesso ho condiviso con gli amici più intimi, che se potessi tornare indietro, farei di nuovo tutto quello che ho sperimentato e scelto, me lo ripeto spesso anche nella preghiera: ne è valsa la pena, per questo sento il desiderio di continuare, di andare ancora più a fondo. Di fronte a tante situazione di disorientamento e di crisi che molte persone vivono, mi sembra di correre il rischio di essere a mia volta travolto, di perdere uno sguardo comunque positivo sulla da farsi, su come affrontare i tanti cambiamenti che si presentano quotidianamente e velocemente, ho come l’impressione che tutto deve scorrere con una certa frenesia per raggiungere una metà che in realtà non è chiara a nessuno. A me sembra di percepire tanta solitudine ed isolamento, mascherato dall’ansia di essere sempre connessi con il mondo intero, basta un click di mouse e tutti sanno quello che stiamo facendo, non importa se è di spessore o una semplice banalità, ciò che sembra gratificare o pacificare è che gli altri si accorgono di noi. Tutto questo è come una minestrina che non mi nutre.



Quando esco da due ore di laboratorio con gli adolescenti a scuola, per un po’ di tempo mi risuonano dentro i loro vissuti, quello che con tanta fatica si trovano a vivere, spesso mi sorge anche la rabbia per quanto noi adulti siamo stati incapaci nel dare loro gli strumenti giusti per affrontare quel passaggio della vita tanto turbolento quanto vitale, energico, esplosivo; non sono le loro tensioni evolutive ad affaticarli, sono molte volte le nostre inconsistenze di adulti, scaricate sulle loro spalle, a rendere la loro adolescenza un rischio. Molte volte il laboratorio per me è un esperienza paragonabile ad una lotta, una sfida continua alla mia resistenza o meglio ancora alla mia coerenza  e autenticità: i ragazzi chiedono di non barare, non ingannare, soprattutto chiedono che tu non fugga.  Da quest’esperienza mi porto dietro gli sguardi diretti dei ragazzi, le loro questioni che lentamente emergono quando percepiscono che c’è il rispetto e la presenza rassicurante dell’adulto, ma mi porto dietro anche il non detto, le storie difficili, i vissuti a rischio e la rabbia che inevitabilmente si accumula in loro e che si mescola con la mia, anzi la nostra impotenza, perché devo dirlo, sono anche fortunato, condivido tutto questo con altri adulti appassionati del loro lavoro educativo. In queste situazioni la “minestrina riscaldata” di cui sopra, non ha proprio nessun valore se non quello di far finta di placare una fame, un vuoto nello stomaco, ma è un effetto placebo che dura poco e non fa altro che aumentare la voragine di vuoto. C’è un altro cibo di cui, a mio parere,  abbiamo perso il gusto e di cui non sappiamo più nutrirci: sono le relazioni; 

Marco, ad un certo punto,  nel Vangelo che scrive racconta che Gesù dopo aver mandato i discepoli in giro ad incontrare la gente e portare “parole” autentiche, nell’accoglierli al loro ritorno, non dà tanto spazio al loro entusiasmo o alle imprese eroiche che hanno compiuto, fa loro una proposta quasi banale,  “venite in disparte a riposarvi” (Mc 6,31); per vivere a fondo le relazioni, per scorgere e riconoscere “parole di senso”, per saper far risuonare nella vita degli altri e nella propria,  parole di senso, sento necessario scoprire questi spazi di assoluta gratuità, d’intimità profonda dove in assoluto è bandito qualsiasi tentativo di manipolare l’altro o la realtà, dove  si apprende a non possedere, ma a ricevere. Dio è capace di una proposta così essenziale e per questo così  “rischiosa”.




Spazi di Fraternità- Accoglienze

Eccoci di nuovo pronti ad aprire e dar vita con il confronto, ad un nuovo "Spazio di Fraternità": ci troveremo domenica prossima 22 MARZO dalle ore 16.00 alle ore 18.00 presso i locali della parrocchia San Marco alle Paludi (FERMO).
La parola scelta per l'incontro è "ACCOGLIENZA", a suggerire spunti e favorire il confronto Stefano Ricci e Cinzia Spataro, famiglia affidataria da anni impegnata in quest'esperienza e che molti di noi conoscono, per questo motivo siamo sicuri che non mancheranno buoni stimoli.
Vi aspettiamo.

domenica 15 febbraio 2015

Spazi di Fraternità- confini

Questa volta Filomena (piccolo sorella Jesus Caritas), ha superato se stessa, con una puntualità incredibile è riuscita a sistemare i suoi appunti, farli vedere al Prof. Alici e metterli a disposizione di tutti.
Quello di domenica 22 è stato uno "spazio di Fraternità" davvero sostanzioso e ricco di spunti, che Luigi Alici ci ha condiviso, la partecipazione di ognuno, l'ascolto profondo che si era creato e il piacere di condividere insieme i pensieri, le esperienze e le prospettive di vita personali, hanno sicuramente arricchito ognuno. Come per l'intervento di dom Gianni anche questa volta la partecipazione fisica e l'ascolto diretto hanno reso le parole più succose e capaci di una maggiore provocazione.
Ecco a disposizione in versione pdf l'intervento sulla parola CONFINI
https://www.facebook.com/groups/237749193055113/
Amedeo 

domenica 8 febbraio 2015

Il canone

E’ il giorno dopo giorno che qualifica la mia vita, non nel senso di una piatta rassegnazione, o nell’attesa di un evento speciale, ma nella consapevolezza che il quotidiano vissuto in pienezza e liberato dalla “pretesa”, mi permette di assaporare la vita in tutte le sue sfumature; ho scoperto nel tempo il valore del “deserto nella città”, quella ricerca costante non dello straordinario, ma del saper stare in pienezza in quello che avviene, che accade. Lentamente, nella fedeltà  alla propria scelta, nell’ascolto dei propri desideri, nel coraggio di non fuggire quando l’aridità diventa un po’ lacerante e ti porta all’essenziale, o ti disillude, nel sentire che è nel cuore del vivere umano che si può cogliere la scintilla della Sua presenza, allora solo allora si scopre che il deserto è un grembo che genera, è una dimensione feconda, è uno spazio infinito capace di contenere e che spinge verso altri significati, il “deserto” diventa il luogo delle relazioni. Mi ha sempre colpito in Charles de Foucauld questo suo desiderio di spingersi continuamente in profondità nel deserto del Sahara, non per allontanarsi, non per la risposta a dei bisogni del tutto personali, né per la conquista di una perfezione o eroicità che altro non produce se non un vuoto narcisismo, fratel Charles si è spinto nel deserto per incontrare, per mescolarsi, per essere nel cuore della reciprocità, per andare oltre il confine di sé e della propria appartenenza; man mano che avanzava, nel cuore del deserto ha abbandonato il “parlare inutile”, ha mollato tutto quello che lo separava, ha accolto in sé le parole dell’altro, ha smesso di “dare”, liberandosi del ruolo del benefattore per sperimentare in sé, l’efficacia del donare reciproco.

Il mio amico pachistano non ha mai accettato che pagassi un affitto troppo alto rispetto al mio appartamento, dice che anche il luogo dove abito è troppo popolare, nel senso non positivo del termine, come dire: “non vivi ai Parioli!”; in queste settimane ha fatto di tutto per farmi ottenere uno sconto, ha mediato, ci ha messo la sua parola e così ho ottenuto una riduzione del canone d’affitto. “Tu non guadagni molto e molti qui fanno fatica a pagare tutte le spese del quotidiano” con queste e  altre osservazioni ha giustificato il suo interesse per me. E’ lui che mi ha trovato casa all’inizio e in qualche maniera si prende ancora cura di me, in maniera del tutto disinteressata; mi ripete costantemente che lui ha sperimentato la mancanza di tutto, sa cosa vuol dire non avere nulla ed essere aiutato, altri lo hanno fatto con lui, ora che può cerca di darsi da fare, ma io so bene che non da del superfluo, da  del suo. Percepisco che tra noi due c’è una stima reciproca, che non è mai troppo esternalizzata, sono i gesti che la esprimono. Mi accorgo che questa relazione mi permette di andare a fondo e di dare forma e stile a questa mia presenza nel quartiere, per vivere da piccolo fratello il primo passo da fare è cogliere la fiducia nell’altro e lasciarsi condurre dalle persone nel cuore delle propria realtà, vivere in profondità il silenzio per divenire giorno dopo giorno “abbordabili”, per non invadere come eroe in cerca di gloria e riconoscimento il vissuto delle persone, ma essere ospite discreto e rispettoso, lasciandosi accompagnare passo dopo passo lì dove abita l’altro.


Mi trovo pienamente nelle parole di Dominique Barthélemy quando parla della scelta dei poveri alle piccole sorelle di Gesù: ”La presenza di solidarietà si dilaterà nel tentativo di testimonianza, non rinuncerà alla testimonianza, non si sottrarrà all’aiuto. Ma non si centrerà su un progetto di testimonianza, né su un progetto d’aiuto. La presenza di solidarietà si centrerà su un progetto “d’essere”, che non può venire superato” .