E’ uno spazio vuoto e svuotato quello che come un artigiano
cerco di creare ogni giorno, non è un togliere ma un far spazio sapientemente e
con cura, è come se preparassi un posto disponibile all'ospite inatteso e
comunque desiderato; è un fermarsi per assaporare fino in fondo il movimento “dell’andare
verso” o dell’abitare il tempo come una costante possibilità. Non è afferrare, né
accaparrare, né mettere un sigillo di certezza assoluta, non è nemmeno un
isolarsi o un bastare a sé stesso, è piuttosto un costante slegare, liberare, generare e… soprattutto
lasciarmi generare. E’ un abbandonarsi alla fragilità di sé e dell’altro.
E’ in questo spazio svuotato che mi resta difficile credere.
Credere che si possa diventare indifferenti agli esodi di
massa, che le violenze tra i popoli hanno sempre mille ragioni inevitabili e
che le giustificano; che l’altro sia sempre “altro da me” e mai parte di me, che
si possa lottare per alcune minoranze e non per altre, che si senta sempre di
stare dalla parte dell’umanità civile anche se questa “civiltà” poggia le
radici della sua storia su un senso di superiorità e su continui tornaconti
economici; faccio fatica a credere che possiamo chiamare conquista di civiltà l’individualismo
esasperato e sempre più a difesa dei diritti privati, mai di un bene comune.
Non posso credere che accettiamo di illuderci che un selfie possa veramente
bastare per convincere gli altri e a noi stessi, che siamo al top, tanto meno posso cedere alla superstizione che in like magicamente concesso dalla divinità
della massa, possa veramente ascoltare e cogliere la fame di riconoscimento che
spesso ci portiamo dietro. No, non posso più sentirmi rassicurato e cedere la
mia fiducia ad una voce calda e anonima di una pubblicità al cinema che mi
rassicura dicendomi: “la tua vita può essere senza limiti”, per rifilarmi una
connessione illimitata, se diventassi “ateo” di questa religione, non identificherei
mai la mia vita con il mio cellulare, tanto meno non pronuncerei voto di abbandono alla compagnia telefonica.
Non posso più credere.
Vorrei invece non aver più timore della fragilità di questo
nostro essere uomini e donne che “tocco”
quotidianamente, nel giorno dopo giorno; vorrei provare ancora fiducia
nella liturgia di resurrezione che mi è sembrato di celebrare ascoltando sul
cortile del mio palazzo, la storia dura e faticosa di una mia vicina, era
Parola di Dio, che sapeva di fatica, malessere, fragilità, autodifesa contro un
mondo sentito solo come ostile; in silenzio l’ho ascoltata fino in fondo, lei
il celebrante ed io un qualunque fedele…solo alla fine, quasi di sfuggita per
paura di essere scoperta, mi ha permesso di ascoltare e intravedere un piccolo
barlume ancora di speranza, mi ha permesso di cogliere non solo la sua “vita
sfasciata”, ma anche la sua divinità: ha lasciato la corazza dura della sua
fatica per cedere ad un emozione, lontana da ogni giudizio.
Il mattino di Pasqua due donne andarono al sepolcro e il
vuoto che trovarono fu disorientante. Da allora il cammino dei cristiani prende
la linfa da questo disorientamento.