venerdì 15 maggio 2020

Domanda ingenua


Afferri velocemente le chiavi dell’auto, chiudi tutto e via sulle scale di corsa, spinto dalla fretta di raggiungere il prima possibile la tua meta. Metti in moto e parti, la strada sembra scorrere velocemente e sicura, sia bene dove vuoi e devi arrivare, lo vedi ben chiaro davanti a te il luogo che più hai amato, lo spazio dove ti sei rifugiato spesso, e quante volte gli hai consegnato pensieri, sogni e fatiche, sono tutti lì come un tesoro privato e nascosto sotterra.

In questi lungi giorni di solitudine forzata, tante volte nella fatica del tempo che scorreva a malapena, ho chiuso gli occhi e raggiunto con la mente e le immagini della memoria un  posto ben preciso, un luogo e uno spazio reale, che ben conosco, a cui ho consegnato inconsciamente un desiderio profondo. Con la fantasia ci sono tornato più di una volta in questo periodo, portando le nuove domande che la vita mi ha posto.

Nel silenzio e nella solitudine dei lunghi giorni, la ferma decisione di spegnere il chiacchiericcio inopportuno delle parole urlate, connesse tra loro dalla potenza della rete internet, ma sconnesse da qualsiasi buon senso, mi ha lentamente accompagnato nel cuore dell’intimità, di un intimità per me sempre abitata, un intimità che non può essere tale se non cuore di una relazione;  il ricordo di quello spazio fisico, ha lasciato lentamente il posto ad un altro reale: l’abitare me stesso; passione e cammino che il monachesimo ha sempre ben conservato e coltivato.

Un viaggio di ritorno, un approdo inaspettato che è preludio di altri orizzonti da esplorare e che in sé ti riconnette con quella profonda radice nomade dell’umano, che di esodo in esodo, figlio di Abramo il pastore errante, torna a casa e trova un abbraccio, porto sicuro per generare nuove partenze.

L’abbraccio per me è stato quel gratuito e inaspettato volto di Dio, quella sua strana fedeltà, testarda e tenera, irremovibile eppure leggera come un soffio di vento, perché puoi appoggiare la tua fatica e la tua fragilità su di essa, senza sentire la pressione di nessuna richiesta in contraccambio. Ad un certo punto ho sperimentato un Dio che mi chiedeva il permesso: posso?

Domanda da non confondere con l’ingenuità o con quel rispetto un po’ di rito e di buone maniere, da assumere per buona creanza quando si bussa alla porta di un amico, al contrario è una domanda scomoda, profonda e la risposta non può essere frettolosa.

Quello che percepivo come ritorno a casa, ha di colpo cambiato prospettiva con la semplice domanda di Dio; quel suo “posso?”, mi faceva notare che ero già a casa e che il vero ritorno era il Suo.

No, non era affatto una domanda ingenua la Sua.

Aprire la porta, lasciarlo entrare come ospite, senza aver avuto il tempo di riordinare, che poi molto spesso è solo nascondere velocemente  la polvere sotto il tappeto, ecco rispondere affermativamente a quel “posso è stato entrare nella dinamica del “fare spazio” e di “lasciarsi abitare”; nel momento che apri la porta e semplicemente stai con l’altro, l’essere reciprocamente ospite è l’avvio di un nuovo esodo fatto non in solitudine, ma nell'orizzonte del due. Questo abitarmi di Dio mi provoca, mi spinge non verso nidi sicuri, luoghi di pace interiore ieratica, trasforma piuttosto quel l’abitare sé stessi, in un apprendimento lento e appassionato di  quell'abitare l’umano e tutto l’umano, in te e soprattutto in chi ti è di fronte.

POSSO?” la domanda apparentemente ingenua di Dio è la provocazione più grande che possa rivolgerci.