sabato 30 maggio 2020
venerdì 22 maggio 2020
venerdì 15 maggio 2020
Domanda ingenua
Afferri velocemente le chiavi dell’auto, chiudi tutto e via
sulle scale di corsa, spinto dalla fretta di raggiungere il prima possibile la
tua meta. Metti in moto e parti, la strada sembra scorrere velocemente e
sicura, sia bene dove vuoi e devi arrivare, lo vedi ben chiaro davanti a te il
luogo che più hai amato, lo spazio dove ti sei rifugiato spesso, e quante volte
gli hai consegnato pensieri, sogni e fatiche, sono tutti lì come un tesoro
privato e nascosto sotterra.
In questi lungi giorni di solitudine forzata, tante volte
nella fatica del tempo che scorreva a malapena, ho chiuso gli occhi e raggiunto
con la mente e le immagini della memoria un
posto ben preciso, un luogo e uno spazio reale, che ben conosco, a cui
ho consegnato inconsciamente un desiderio profondo. Con la fantasia ci sono
tornato più di una volta in questo periodo, portando le nuove domande che la
vita mi ha posto.
Nel silenzio e nella solitudine dei lunghi giorni, la ferma
decisione di spegnere il chiacchiericcio inopportuno delle parole urlate,
connesse tra loro dalla potenza della rete internet, ma sconnesse da qualsiasi
buon senso, mi ha lentamente accompagnato nel cuore dell’intimità, di un
intimità per me sempre abitata, un intimità che non può essere tale se non
cuore di una relazione; il ricordo di
quello spazio fisico, ha lasciato lentamente il posto ad un altro reale: l’abitare
me stesso; passione e cammino che il monachesimo ha sempre ben conservato e
coltivato.
Un viaggio di ritorno, un approdo inaspettato che è preludio
di altri orizzonti da esplorare e che in sé ti riconnette con quella profonda
radice nomade dell’umano, che di esodo in esodo, figlio di Abramo il pastore
errante, torna a casa e trova un abbraccio, porto sicuro per generare nuove partenze.
L’abbraccio per me è stato quel gratuito e inaspettato volto
di Dio, quella sua strana fedeltà, testarda e tenera, irremovibile eppure
leggera come un soffio di vento, perché puoi appoggiare la tua fatica e la tua
fragilità su di essa, senza sentire la pressione di nessuna richiesta in
contraccambio. Ad un certo punto ho sperimentato un Dio che mi chiedeva il
permesso: posso?
Domanda da non confondere con l’ingenuità o con quel
rispetto un po’ di rito e di buone maniere, da assumere per buona creanza
quando si bussa alla porta di un amico, al contrario è una domanda scomoda,
profonda e la risposta non può essere frettolosa.
Quello che percepivo come ritorno a casa, ha di colpo
cambiato prospettiva con la semplice domanda di Dio; quel suo “posso?”, mi
faceva notare che ero già a casa e che il vero ritorno era il Suo.
No, non era affatto una domanda ingenua la Sua.
Aprire la porta, lasciarlo entrare come ospite, senza aver
avuto il tempo di riordinare, che poi molto spesso è solo nascondere velocemente
la polvere sotto il tappeto, ecco
rispondere affermativamente a quel “posso” è stato entrare nella dinamica del “fare
spazio” e di “lasciarsi abitare”; nel momento che apri la porta e semplicemente
stai con l’altro, l’essere reciprocamente ospite è l’avvio di un nuovo esodo fatto
non in solitudine, ma nell'orizzonte del due. Questo abitarmi di Dio mi
provoca, mi spinge non verso nidi sicuri, luoghi di pace interiore ieratica,
trasforma piuttosto quel l’abitare sé stessi, in un apprendimento lento e
appassionato di quell'abitare l’umano e
tutto l’umano, in te e soprattutto in chi ti è di fronte.
“POSSO?” la domanda apparentemente ingenua di Dio è la
provocazione più grande che possa rivolgerci.
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