domenica 23 dicembre 2018

L'occhiolino di Dio


Lo spioncino della porta è un semplice e minuscolo mezzo per filtrare gli incontri tra “desiderati” e “non desiderati”, un piccolo occhio che può essere un rigido muro, è fatto per proteggersi, per guardare senza incontrare lo sguardo dell’altro, appunto è fatto  per spiare. Visto da fuori, il portone di casa con quell'occhio sembra un Polifemo gigante e potente, una fortezza inespugnabile, quasi un bunker  chiuso in se stesso: per rifiutare un incontro, devi fingere di non essere presente in casa… interessante.

Inaspettatamente in tarda serata qualcuno suona alla porta e quell'occhiello lo utilizzo senza filosofarci sopra: riconosco, mi meraviglio, immagino, mi preparo le parole, cerco “la faccia di circostanza”, mi sfiora rapidamente l’idea di eclissarmi, poi in realtà abbasso la “palpebra” di metallo dell’occhiello e permetto al mio sguardo d’incontrare direttamente chi ha suonato, senza filtri, senza distanze, senza visioni minuscole e miopi; forse mi metto a rischio o semplicemente accetto di essere presente in quel momento, in quell'istante, in quel posto e soprattutto in quell'incontro cercato e realizzato non da me.

Per un ora e mezza ho ascoltato, provato a comprendere, lasciato da parte le risposte, ho fatto esperienza della mia impotenza e incontrato la fragilità umana; mi ha avvicinato il dolore sordo di chi si sente sempre giudicato e mai compreso, mi ha disorientato la lotta interiore di chi da una vita rompe gli schemi in cui non si ritrova e non sa far comprendere il proprio malessere interiore; ho percepito quel lento morire che qualcuno prova quando pur volendo amare, silenziosamente e in totale solitudine consapevolizza che amare è troppo difficile, dopo che per una vita lo hai solo rifiutato.

“Aiutami a capire” è stata la richiesta detta chiaramente dall'ospite inatteso mentre entrava; man mano che ascoltavo mi accompagnava una domanda “ aiutami ad avvicinarmi,  non posso fare di più”.


Una sera, in un quartiere, in un palazzo, in un luogo che nessuno stima, mi è sembrato che Dio mi facesse l’occhialino e senza giri di parole né frasi di circostanza, eliminando di colpo ogni atteggiamento melenso, Lui mi accompagnava dentro il cuore di un umano che il narcisismo imperante, la prepotenza dilagante e assunta a valore e la povertà culturale di questo tempo e di questi giorni sta spegnendo. Quella sera e non solo quella sera, l’incontro ha reso più complicata e scomoda la lettura della Buona Novella: e la Parola si fece carne…e con un occhiolino ha pronunciato la Parola di un inizio: tutto questo è cosa molto buona.



lunedì 12 novembre 2018

Affondare le mani nella terra


In questi giorni mi ritrovo con il pensiero a correre in dietro nel tempo, non con un atteggiamento di rimpianto, semplicemente mosso dal desiderio di cogliere nel mio percorso personale ciò che più ha caratterizzato la mia vita. Sono impastato di relazioni, di situazioni e di esperienze, sono veramente fatto di fango ed acqua, sono parte di quell’Adam,  sogno nascosto e passionale di Dio che con le mani ha dato forma al Suo desiderio. Mi piace quest’immagine che la Parola ha creato per accompagnarci, avvicinarci un po’ alla radice, della nostra esistenza, che nostalgicamente cerchiamo. L’interesse non è posto sul concetto della creazione dal nulla, o di come siamo stati originati, l’attenzione è focalizzata e narra,  di cosa siamo fatti: di un sogno, di un desiderio, di una relazione;  questo è Adam, che significa il terreste, fatto di terra. Sento il desiderio di ricontattare la mia “terra”, la creta che mescolandosi negli anni con persone, situazioni e con le mia stessa evoluzione, ha generato quello che oggi sto vivendo. Quando cerco di comprendere il perché mi trovo a vivere questa vita di Nazareth, come mai sento ancora importante e imprescindibile abitare il quotidiano in questo quartiere, devo necessariamente ripercorrere la mia storia, tornare pellegrino  nel fare memoria. In un tempo, come il nostro, dove conta “l’adesso”, quello immediato, efficiente, strepitoso, appagante, essere pellegrino di memoria è sicuramente “fuori luogo”. Essere pellegrino e nomade allora è la grande occasione, il processo di umanizzazione di cui sento profondamente il bisogno, il desiderio e la nostalgia di appropriarmi di nuovo di quella nostra radice comune, che la Parola chiama: Adam, il terrestre.


Con l’arrivo dell’autunno, nel mio palazzo tornano le migrazioni, persone o famiglie che in pochi giorni si spostano, decidono di cambiare appartamento, così tutto si rimodella. Molti se ne vanno, stanchi di un certo clima sociale o per necessità economiche, altri arrivano: è il mondo, che si muove intorno al mio minuscolo appartamento ed è un riprendere di nuovo come i primi tempi  i contatti. Qui giorno dopo giorni, l’umano ha una caratteristica comune ben chiara e definita: la diversità. Devo essere costantemente preso per mano e accompagnato, devo saper attendere l’occasione dell’incontro e coltivare l’attesa, devo procedere a passi lenti e rendermi avvicinabile, una vera provocazione in un ambiente dove il “sospetto” e la “distanza di sicurezza” sono virtù da coltivare.

Il mio amico indiano ha lasciato il suo appartamento e andando via ha tenuto a dirmi chiaramente: “per tutta la mia vita tu sei mio amico”, ha ripetutamente chiesto che andassi a trovarlo nella sua nuova casa, più grande, più comoda, più sicura e soprattutto pronta per accogliere sua moglie e il figlio dall’India.

Nelle relazioni inaspettate e gratuite, lasciarmi annunciare il Vangelo”…è la promessa che ho fatto nella mia alleanza con Dio e in questo Lui mi mostra una certa coerenza nel mantenere questa sua promessa e la sua coerenza ha dei nomi e cognomi, ha dei volti e delle storie, ha la forma dei vissuti che incrocio e del silenzio che custodisce tutto questo.


lunedì 20 agosto 2018

Le rughe di Dio


Le temperature decisamente meno afose permettono al mio corpo di rilassarsi e ritrovare una certa serenità,  non è mancato nemmeno il classico temporale estivo, con scroscio violento e deciso, il quale mi ha costretto a ricorrere a stratagemmi particolare per evitare che entrasse acqua da sotto la porta d’ingresso, visto che verso di essa si era creata una bella cascata naturale;  poi immediatamente la calma, il silenzio e il sole che rapidamente riscalda il terreno e produce vapore per ricordare che tutto sommato è ancora estate, una calda estate. E’ un’abitudine che non voglio tralasciare quella di salire in eremo per qualche giorno durante le vacanze, mi accorgo che ormai sono almeno 15 anni che frequento questo posto. L’eremo non è il luogo dove cercare risposte, ma è l’occasione semplice e disarmante di un incontro: è lo stare, inabissandosi nel totalmente gratuito.

Ci si sta scomodi all’inizio, ci si muove continuamente, o si fanno roteare i pensieri  e le “voci” interiori con il maldestro intento di impegnarsi con la ragione a dare un senso a ciò che proprio non lo desidera avere: la solitudine con l’amato. Ci si organizza, ci si carica di libri, si guarda continuamente l’orologio e anche se per anni sai che prima o poi devi cedere e lasciarti andare al silenzio, beh! Non lo impari mai, la resistenza e il controllo vanno di pari passo con  l’ingenuità nel credere che puoi organizzare l’intimità con Dio: l’incontro lo puoi solo aspettare svuotandoti, rallentando e soprattutto e ripeto, soprattutto senza pretendere…potrebbe anche non avvenire l’incontro desiderato.
Poi c’è un punto di svolta, inaspettato e generativo: anche Lui si ritrae, si rannicchia, crea vuoto e fa spazio; si, come un artigiano paziente fa spazio, lo costruisce come dimensione,  ma non lo “arreda” non lo organizza, è un vero e proprio “spazio vuoto”. I rabbini dicevano che nella creazione Dio si è contratto e “in questo contrarsi di Dio su di sé, Dio ha fatto anche spazio al nulla, a ciò che non è Dio[1], in questo nulla è possibile dialogare, ascoltarsi, “guardarsi”.


Dio dunque si è autolimitato, ha contratto e limitato l’infinita ampiezza del suo essere per far posto alla creazione[2].

Il silenzio e la solitudine diventano immensi, si amplificano, mettono a riposo l’udito e squarciano i confini stretti della ragionevolezza per spalancare le porte ad un ascolto differente, quello dell’intimità, dove la vulnerabilità reciproca, quella tua e quella di Dio, non sono più un rischio, ma una ferita creativa.
La solitudine diventa un nuovo diluvio, un rimescolarsi, un togliere e un purificare, diventa un attesa di quiete che poi si rivela inquietudine, perché quando la tua arca si appoggia di nuovo alla terra ferma perché non più in balia delle onde, la porta si spalanca sull’umano e l’umano è relazione.  Per un attimo mi è sembrato di accarezzare le “rughe” di Dio, quelle della sua fatica, del suo ritrarsi per fare continuamente spazio, le “rughe” della sua ostinazione che lo porta a ripetere con la forza del primo giorno “ è cosa molto buona”, anche quando si è portati, a ragione, a dire il contrario sulle azioni degli uomini; le rughe di chi si lascia anche accusare delle ingiustizie di questo mondo che magari non ha nemmeno provocato; le rughe soprattutto di chi le ingiustizie se le fa arrivare dritte nel cuore. Con questo non voglio dire che Dio ha bisogno di consolazione, figuriamoci, non è un vecchio egocentrico.
Le rughe di Dio richiamano quelle di uno sguardo diretto e deciso che chiede: uomo dove sei? Dov’è tuo fratello?...e in questi tempi sono domande molto scomode, no  lasciano in pace, in quiete.












[1] E. Bianchi; “Adamo dove sei”; ed. Qiqajon; Magnano 2007; p.117
[2] Ibidem p. 118

domenica 22 luglio 2018

No control

Ancora troppo preso  dal “pensare”, dal razionalizzare ogni cosa, un riordinare la mia storia, il mio rapporto con gli altri e peggio ancora con Dio, lui che “è un Dio elusivo”, come dice un salmo, un Dio inafferrabile, Carretto scriveva che Dio è “mai abbastanza”…ed io pretendo di rinchiuderlo nei miei ragionamenti. In fin dei conti tutto questo lavoro razionale non è che il modo sottile di “controllare”, il pensiero spesso ci illude; se la relazione con Lui è sul fronte del controllo e del capire razionale, non può che essere lo specchio del mio relazionarmi quotidiano con gli altri.

Mi lasco sfuggire di mano in questo modo, lo sconfinamento dell’ascolto, passo acconto appena sfiorandolo, all'orizzonte smisurato dell’abbandono, di cui l’ascolto si nutre senza mai esserne pienamente ed avidamente sazio.

Ascoltare è togliere, semplificare, è fare spazio, è attendere, è soprattutto fermarsi.

Ascoltare è anche non pretendere, non determinare, né tanto meno pre-ordinare, l’ascolto sono mani libere con le palme rivolte in alto nell'attesa di essere raggiunte, o per accogliere e custodire, o per essere afferrate e strette, comunque raggiunte dalla libertà di un altro mistero.

L’ascolto mi sembra di coglierlo nella sua autenticità, quando è consapevolezza del non sapere e in questo si dimora pacificato, non arrabbiato.

L’ascolto è trovare il proprio senso nell'accogliere non nel decifrare, è sapersi grembo e decidersi di restare grembo, anche ciò che genere l’ascolto non sei tu, perché ciò che si genera da esso è oltre: l’ascolto accompagna ciò che sei, oltre il tuo orizzonte limitato e egoico.

L’ascolto mi rende interlocutore, decentrandomi dall'essere soggetto o oggetto in assoluto; l’ascolto mi unifica rendendomi capace di abitare la dimensione del “due”.

L’ascolto mi fa lentamente liberare dall’arroccamento e dalla pretesa di essere  al “centro” , facendomi gustare la pienezza dell’essere semplicemente “a fianco” .

Tra le parole  e le opinioni urlate nel nostro contesto, per uno scampolo di riconoscimento, l’ascolto è la grande provocazione di questo tempo storico e culturale…
                                                                                                                               
                          

venerdì 11 maggio 2018

A due mani


Le giornate sono davvero piene, gli impegni di lavoro richiedono maggiore controllo del tempo e la capacità di non farsi travolgere dalla percezione di non farcela o dall'idea malsana di poter far tutto, non amo né l’una né altra dimensione;  preferisco cogliere questo tempo come un tempo opportuno e favorevole anche perché tutto quello che vivo, sia nel lavoro che nel quotidiano, l’ho veramente desiderato e sento di aver la fortuna di poter coniugare la scelta di vita con le possibilità lavorative;  guardare con gratitudine ciò che si ha e non ruminare continuamente la lamentosità per quel che manca o non si è ottenuto, è porsi nella dimensione del dono e non della pretesa. E’ vero, molto spesso rientro in casa stanco, aprendo la porta del mio appartamento trovo il silenzio e la solitudine che fanno da grembo per ciò che ho vissuto, per gli incontri fatti e per le tante situazioni che ho incrociato, mi accorgo che man mano che lascio andare “la pretesa” e mi innamoro “dell’abbandono accogliente”, le due dimensioni del silenzio e della solitudine diventano le sfumature delicate, i tratti caratteristici, i gesti d’attenzione, lo stile o lo sguardo che mi pongono nel cuore della vita: della mia come quella degli altri. Il silenzio mi invita a sospendere le parole, che sono sempre mediazioni, comunque parziali, che limitano l’espressione del sentito, il silenzio è grembo che attende, è uno spazio delicatamente preparato all'arrivo dell’inatteso e non ancora incontrato,il silenzio è invitare se stessi a tacere, il silenzio è scegliere di “non prendere la parola”, ma riceverla, per questo quando la parola arriva essa è un seme che genera, la propria storia e le relazioni. Poi c’è la solitudine, che nella mia scelta di vita come celibi ho imparato a frequentare, essa è l’espressione dissonante, il tratto caratteristico dell’aver posto la relazione con Dio come tratto essenziale della mia vita. La solitudine che in sé indica l’assenza di relazione, in realtà per me è diventata paradossalmente il luogo della relazione in pienezza: quando sono solo o ricerco la solitudine, mi accorgo che scelgo di non essere invadente o onnipresente nelle relazioni, ma di raggiungerle passando attraverso un ascolto profondo e quest’ascolto si è nutrito dell’essere “solo con Dio” e  nell’essere solo in Dio”. Non esiste “non relazione”, esistono modi diversi di essere in relazione, solo una cultura profondamente individualista come l’attuale in Occidente, ci convince del contrario. Ad ogni modo sento profondamente mia  il concetto che la Bibbia ci consegna e che Ignazio Punzi ha così sintetizzato “ In principio, potremmo dire, non c’era l’Uno ma il Due”1. Silenzio e solitudine, vanno di pari passo con incontro e ascolto degli altri; sé le prime due parole hanno tratti negativi e si coniugano nell'ottica della “mancanza”, le altre due si vestono di fatica, scontro, pretesa e invadenza.

Dio mi ha presa per mano, ed io ciecamente l’ho seguito”, diceva piccola sorella Magdeleine ( fondatrice delle piccole sorelle di Gesù), in queste parole non c’è nulla di fatalistico, né d’incosciente, ancor meno di visione naif della fede e della vita, c’è invece un lungo cammino fatto di passione, di dubbi, domande scomode, di ascolto profondo nel silenzio e nella solitudine abitata da Dio, che genera una profonda fiducia…e se è Dio a prenderti per mano non può che condurti nel cuore delle relazioni. Quest’espressione di Magdeleine mi ha accompagnato in questi giorni dove ritrovo la delicata compagnia e e il richiamo dolce del silenzio e della solitudine, che come due mani di Dio mi prendono, sollevano e mi pongono nel cuore del quotidiano, il più ripetitivo e banale se vogliamo, sicuramente il luogo degli incontri, lo spazio della mia umanizzazione. Solitudine e silenzio,  sono l’espressione della vita contemplativa, una contemplazione che passa attraverso l’ospitalità che alcuni incontri mi hanno fatto sperimentare.


1 I.Punzi; "I quattro codici della vita umana"; Ed San Paolo; Roma 2018; pag.34

sabato 31 marzo 2018

Non posso credere


E’ uno spazio vuoto e svuotato quello che come un artigiano cerco di creare ogni giorno, non è un togliere ma un far spazio sapientemente e con cura, è come se preparassi un posto disponibile all'ospite inatteso e comunque desiderato; è un fermarsi per assaporare fino in fondo il movimento “dell’andare verso” o dell’abitare il tempo come una costante possibilità. Non è afferrare, né accaparrare, né mettere un sigillo di certezza assoluta, non è nemmeno un isolarsi o un bastare a sé stesso, è piuttosto  un costante slegare, liberare, generare e… soprattutto lasciarmi generare. E’ un abbandonarsi alla fragilità di sé e dell’altro.

E’ in questo spazio svuotato che mi resta difficile credere.

Credere che si possa diventare indifferenti agli esodi di massa, che le violenze tra i popoli hanno sempre mille ragioni inevitabili e che le giustificano; che l’altro sia sempre “altro da me” e mai parte di me, che si possa lottare per alcune minoranze e non per altre, che si senta sempre di stare dalla parte dell’umanità civile anche se questa “civiltà” poggia le radici della sua storia su un senso di superiorità e su continui tornaconti economici; faccio fatica a credere che possiamo chiamare conquista di civiltà l’individualismo esasperato e sempre più a difesa dei diritti privati, mai di un bene comune. Non posso credere che accettiamo di illuderci che un selfie possa veramente bastare per convincere gli altri e a noi stessi, che siamo al top, tanto meno posso cedere alla superstizione che in like magicamente concesso dalla divinità della massa, possa veramente ascoltare e cogliere la fame di riconoscimento che spesso ci portiamo dietro. No, non posso più sentirmi rassicurato e cedere la mia fiducia ad una voce calda e anonima di una pubblicità al cinema che mi rassicura dicendomi: “la tua vita può essere senza limiti”, per rifilarmi una connessione illimitata, se diventassi “ateo” di questa religione, non identificherei  mai la mia vita con il mio cellulare, tanto meno non pronuncerei voto di abbandono alla compagnia telefonica.

Non posso più credere.

Vorrei invece non aver più timore della fragilità di questo nostro essere uomini e donne che “tocco  quotidianamente, nel giorno dopo giorno; vorrei provare ancora fiducia nella liturgia di resurrezione che mi è sembrato di celebrare ascoltando sul cortile del mio palazzo, la storia dura e faticosa di una mia vicina, era Parola di Dio, che sapeva di fatica, malessere, fragilità, autodifesa contro un mondo sentito solo come ostile; in silenzio l’ho ascoltata fino in fondo, lei il celebrante ed io un qualunque fedele…solo alla fine, quasi di sfuggita per paura di essere scoperta, mi ha permesso di ascoltare e intravedere un piccolo barlume ancora di speranza, mi ha permesso di cogliere non solo la sua “vita sfasciata”, ma anche la sua divinità: ha lasciato la corazza dura della sua fatica per cedere ad un emozione, lontana da ogni giudizio.

Il mattino di Pasqua due donne andarono al sepolcro e il vuoto che trovarono fu disorientante. Da allora il cammino dei cristiani prende la linfa da questo disorientamento.








sabato 27 gennaio 2018

Chi mi ha sussurrato il nome

C’è un intimità profonda nel caldo del silenzio, un abbraccio leggero nella solitudine abitata da Dio, uno sguardo che si perde per ritrovarsi nei mille rivoli di esperienze passate che segnano l’ attraversamento dell’oggi. Si aprono orizzonti inaspettati quando l’abbandono è il desiderio profondo di non voler trattenere nulla di questa vita come se fosse una proprietà provata,  ci si disorienta nel pensare che la libertà è nel perdersi  nell'immensa fiducia della Sua presenza. Sei il Dio del soffio leggero e deciso, che spingi nel mare aperto delle domande, della ricerca profonda, della meraviglia e della curiosità; sei un soffio leggero che non squarcia le vele, le accarezza con la forza di chi sostiene e non determina la direzione, ma l’asseconda.
Ti ho sentito e ancora ti sento, una carezza leggera, uno sguardo che non trattiene; non mi hai messo in pace, mai, mi hai piuttosto scomodato per la pace, non mi hai aggiustato la vita, l’hai sempre scompigliata, scompaginata, mi hai fatto abitare le domande e in esse ti sei affaticato con me. Ti ho visto anche come stoppino fumigante, spento di colpo, ti ho sbattuto la porta in faccia e ti ho dato il ben servito nel tempo del mio ateismo, ti ho sentito un vuoto, una fantasia infantile, una sgradevole consapevolezza del nulla.  Eri nostalgia che non mi attraeva più. A gran fatica ho scelto di non muovermi, di restare lì dove mi trovavo. Allentata la presa e smesso di manipolare come un artigiano l’immagine di Dio, mi sono ritrovato solo in attesa. Di attesa in attesa ti ho ritrovato. “Io non sono quello che credi”, mi hai sussurrato e il deserto da arido l’ho sentito un passaggio, un esodo, un lasciare per poter entrare di nuovo in relazione.


Dovevo ereditare il nome “Amadio” che poi fu addolcito con un più accettabile Amedeo, chissà se chi per la prima volta mi ha sussurrato quel nome immaginava di indicare un passo. Sia benedetta.