lunedì 22 dicembre 2014

Metti le tue scarpe e buon viaggio

Questo tempo ha bisogno di ritmi lenti: può continuare a suonare le sue melodie, o generarne di nuove, solo se rispetta le pause e ne apprezza i silenzi, se sa gustare prima di ogni gesto creativo, il piacere dell’ascolto, questo nostro tempo, credo, ha bisogno di riscoprire il valore del saper far spazio all'altro.
Un anno intenso quello che ho vissuto, fatto non di eventi speciali, di incontri che stravolgono, né di scoperte disarmanti, è stato piuttosto un tempo vissuto e gustato in profondità nel giorno dopo giorno, in cui l’altro, che sempre ha un nome e cognome, un volto preciso e una storia che si lascia conoscere, è entrato nella mia vita e ha lasciato una domanda, un dubbio, ha motivato un cambiamento, favorito una scelta. Mi sono scoperto lentamente “presente” in questa realtà, appartenente e straniero allo stesso tempo, mi sono ritrovato osservato, qualche volta cercato, spesso incontrato, e ad ogni occasione ho sperimentato in me il guizzo della vita e la passione per una umanità che fuori dai clamore dello straordinario, spesso generato e cercato ad ogni costo, risponde alla propria storia con una dignità disarmante.  Il mondo si regge oggi, come in altri tempi, sulla forza di donne e uomini che nonostante le enormi ferite, le disuguaglianze imposte loro, gli inganni che hanno completamente deviato il percorso del loro progetto personale, hanno comunque e tenacemente reagito, hanno creduto ancora in una possibilità di cambiamento, hanno saputo reggere lo sguardo di un altro uomo o di un’altra donna, senza mai abbassarlo.  

Ancora adesso mi risuonano dentro le parole e le voci di donne che nel raccontarmi la loro storia migratoria, mi hanno condotto dentro il vuoto sordo e disorientante della violenza subita, della perdita dei legami e della terra, e con loro lentamente risalire, senza forzare i tempi, senza barare con la realtà, senza omettere di chiamare per nome chi è responsabile del male; questo viaggio di ritorno si fa insieme, perché in questa maniera non ci si perde una seconda volta. Non sempre mi piace fare questi viaggi, ma “Nazareth è il posto significativo per l’altro, non il nido caldo per noi” dice Davide Semeraro, e Nazareth è per me in tal senso, una grande opportunità per entrare nel cuore dell’umanità che non può barare con se stessa; invitandomi a viaggiare insieme mi permette, senza spreco di parole, di vivere la stessa opportunità: non barare con la mia realtà.


Ho sperimentato il vuoto del deserto, l’assenza di Dio, ho fatto fatica a non giudicare le inconsistenze e le contraddizioni mie e degli altri, ho sperimentato la “sterilità” della mia scelta di vita, mi sono anche lasciato contaminare e convincere dalla rabbia, alla fine c’è sempre la provocazione del Vangelo che ridimensiona tutto questo e che mi pone di fronte la scelta di Gesù che va oltre, per arrivare nel cuore della realtà umana, là dove non sono permesse le mezze misure. Dio va oltre: per essere prossimo, per essere appartenente, e Gesù è ciò che diventa quando Dio  va oltre sé.







lunedì 1 dicembre 2014

Dio mi si è disperso


 “Disperdersi”: non è poi così pericoloso vivere questa dimensione nella propria vita, e non è nemmeno così negativa come parola, può spaventare certo, ma stuzzica e richiama il coraggio dell’abbandono, non c’è dubbio.  Il mio compagno di viaggio, silenzioso e discreto, è in questi ultimi 25 anni Charles de Foucuald, che nonostante le sue strutture mentali di fondo, fatte di cultura francese, rigore militare, passione per la ricerca del nuovo e dell’inconosciuto, calcolatore e instancabile lavoratore nelle sue avventure, proprio lui ha fatto della sua vita un continuo “disperdersi”.  Potrei dire che per questo, è molto attuale fratel Carlo,  oggi infatti tutto sembra liquefatto, le relazioni, le scelte, gli impegni, anche l’assunzione di una responsabilità è relativa ed ha un'unica misura per la sua sopravvivenza: “fin quando mi va”.

Il disperdersi di Charles de Foucauld ha però tutt’altro sapore e spessore, si nutre di ricerca, ascolto, appartenenza, passione e soprattutto  non è frutto di un capriccio personale ma la conseguenza di  un' intensa relazione con Gesù; Charles de Foucuald attinge a piene mani nelle parole del Vangelo, lette  e rilette, assaporate come frutti succosi di vita presente e non come lettere arcaiche e impolverate o sbiadite dal tempo; lui così lontano da ogni aspetto religioso, completamente digiuno da sermoni petulanti e vincolanti, lui così razionale e concreto, si accorge della presenza di un Dio, che non manifesta la sua onnipotenza, ma sceglie il rischio di “disperdersi” nell’umano, raggiungendo l’ultimo posto, non per falsa modestia, ma perché da quella posizione si coglie meglio l’essenziale della vita degli uomini, la si può cogliere dal di dentro, non per sentito dire, ma per averlo sentito  in sé. 

No, non è per me assolutamente naturale, accogliere questa sfida, e non mi suona per nulla armonico o dolce raggiungere l’ultimo posto, eppure se rileggo e soprattutto ascolto il desiderio che ancora oggi mi abita con energia, mi accorgo che anche per me la dimensione del “disperdersi” è la cifra essenziale, non tanto della mia storia personale, ma del mio rapporto con Dio. Non mi percepisco e non mi sento assolutamente “solitario” nella mia scelta di vita, e tutto quello che ho sperimentato e continuo a sperimentare, ha senso solo se inserito in una relazione. Probabilmente è proprio per questo motivo che disperdersi vuol dire  entrare di più nella dimensione umana, penetrare a fondo nelle situazioni, non restare indifferenti alle storie e ai vissuti degli altri. Quando ci si lascia toccare dalla “vita”, non in superficie, non per  il bisogno di sentirsi realizzati, non per riempire il vuoto della solitudine, allora va da se  impegnarsi con gli altri, compromettersi,  mettersi in cammino con un senso profondo di appartenenza reciproca.  E’ un po’ come nella relazione d’amore: ci si lascia disperdere nell’altro per ritrovarsi coniugati al plurale, e per evitare che sia un’invischiante simbiosi, abbiamo bisogno di essere ben presenti a noi stessi. 




giovedì 27 novembre 2014

Nomade

"Il contemplativo non è un uomo che fugge la compagnia degli uomini o evade dalla storia, ma un uomo che cerca di discernere nella storia e negli uomini nei fatti e nella propria persona, la presenza di Cristo. E' colui il cui sguardo è talmente purificato che egli sa riconoscere il Tempio di Dio, e dunque la dimora dello Spirito Santo e il luogo dell'inabitazione del Cristo, nell'uomo stesso. Si, il contemplativo è un esperto nell'arte del discernimento della presenza di Dio, presenza che non è limitata nei luoghi sacri e non si riduce al religioso, ma è diffusa ovunque
                         Enzo Bianchi.

Mi sembra che questa descrizione di Bianchi, possa ben definire l'esperienza e la storia, così nomade di Charles de Foucauld, il quale profondamente innamorato del Vangelo, lo ha incontrato nel silenzio e nell'essenzialità del deserto, come nel cuore delle relazioni con gli uomini, le donne e le tradizioni che essi vivevano. Si tratta quindi di saperlo riconoscere, nel cuore del nostro quotidiano e nelle pieghe nascoste della nostra storia, liberati finalmente da atteggiamenti fideisti, disincarnati, e irrigiditi da appartenenze troppo esclusive. Il Vangelo è l'invito ad andare oltre.



lunedì 10 novembre 2014

I frutti di stagione

Una busta abbondante di mele può stabilire un equilibrio nelle relazioni? Sembrerebbe una strana teoria, o forse l’inizio di una disfunzione cognitiva, in realtà si tratta di un semplice gesto quotidiano e delle conseguenza che esso genera nell’anonimato del giorno dopo giorno. Avevo ricevuto in regalo un enorme busta di mele, talmente tante che volendo mangiarle in maniera industriale tutti i giorni, non sarei comunque riuscito ad evitare che marcissero, allora mi sono detto che quest’abbondanza poteva essere l’occasione per costruire legami di buon vicinato, così ho fatto,  con il timore che venisse letto come una sorta di dono/offerta, del solito italiano che si occupa di stranieri; abituali elucubrazioni mentali queste,  che spesso albergano nelle nostre teste, piuttosto che nelle intenzioni reali degli altri. Decontaminare il nostro pensiero, l’immagine che abbiamo degli altri, liberarci degli schemi, slegare il bisogno che spesso abbiamo di essere utili a qualcuno e soprattutto abbandonarsi a quello che le relazioni possono farci sperimentare: questa è l’opportunità che possiamo regalarci. Le mie buste di mele, che per essere sincero mie non erano,  sono diventate melanzane, insalata, pane e dolce pachistano, che nei giorni successivi sono arrivati alla mia porta con il trillo del campanello e un sorriso, ma soprattutto sono diventate “reciprocità”, rispetto, accoglienza, curiosità e riconoscimento vicendevole, senza troppi artifizi mentali, pur nella diversità che non sempre ci permette di comprenderci fino in fondo, ma per questo non bastano delle mele, occorre più il coraggio della fiducia, dell’incontro e della pazienza che dà spessore all’attesa.

In questo mio Nazareth, l’attesa è veramente la dimensione più concreta e tangibile che mi trovo a vivere, forse l’unica dimensione che posso assumere e gustare, sicuramente quella che maggiormente mi mette in crisi. Il tempo e il silenzio, come  la precarietà di vita e l’anonimato della mia presenza in certi contesti, sono strumenti e possibilità che stanno lentamente trasformando la mia vita, modellando il mio modo di essere in relazione, dando senso alla mia scelta di vita. Ma c’è ancora un altro aspetto che continua a provocarmi e a togliermi il terreno da sotto i piedi: è la fedeltà.

Guardando e ascoltando il groviglio del mio percorso di vita, mi accorgo con una certa emozione che non io, ma altri mi hanno fatto dono della fedeltà: presenze spesso discrete, ma costanti, parole dirette che hanno sempre generato vita e aperto prospettive, rendendo lo sguardo libero dall’autoreferenzialità,  accoglienza piena e disinteressata, mai fusionale o dipendente e vincolante;  questa fedeltà ha il volto e il nome di persone concrete che nel cuore di Dio risuonano tutte, accumunate e distinte allo stesso tempo. Attraverso esse sento che Dio mi mostra di quanto sia stato presente nella mia storia, per questo lo sarà ancora, coniugando all’infinito questo suo modo di essere, perché fedeltà è una parola per “chiamare al volo” Dio.


Quando lascio risuonare nel silenzio del cuore a cuore con Dio il “suono” di queste fedeltà, ho come la sensazione che Lui stesso mi prenda per mano e mi conduca dentro l’attesa di altri incontri, quelli che sono venuto a cercare qui e mi chiede di non disperdere il dono ricevuto, ma di moltiplicarlo, mi chiede anche di non arroccarmi dietro nessuna pretesa, piuttosto di abbandonarmi con coraggio alle relazioni, quelle che con il tempo prenderanno corpo. 







lunedì 20 ottobre 2014

Il grembo del quotidiano

Dopo tanta fatica, tanta strada in salita, e  quella sensazione di essere in pieno deserto, ecco che quasi inaspettatamente mi ritrovo in un oasi fresca ed accogliente, mi accompagna in questi giorni un profondo senso di “appartenenza”, a me stesso e a Dio, in una dimensione di relazione che nulla ha a che fare con il sentimentalismo o lo spiritualismo, al contrario provo una “corposità” nell’appartenermi e nell’appartenere, del resto ho sempre fatto  molta fatica nel vivere la dimensione spirituale staccata da quella umana e quotidiana; può sembrare una banalità, ma nelle pieghe ripetitive del giorno dopo giorno, possiamo rintracciare delle opportunità inaspettate, purché non  cercate in un altrove mitizzato e spesso sacralizzato…Dio non abita il sacro, ma rende fecondo il grembo apparentemente sterile  del nostro quotidiano.
Gli incontri, le situazioni che ho vissuto, i conflitti che mi sono trovato ad affrontare, tutto si è trasformato in “occasione giusta” per  dare il nome proprio a quel deserto, o a quei vuoti che mi trascinavo dentro da troppo tempo. E il vuoto non va riempito, come suggerisce Massimo Recalcati in uno dei suoi ultimi libri, il vuoto va protetto e ascoltato, perché solo così l’orizzonte del desiderio si delinea con maggiore nitidezza e con tutta la sua passione ci spinge in avanti, non solo per continuare a desiderare, ma a dare concretezza alla nostra vita, a prenderci la responsabilità di impegnarci per noi e per gli altri, o meglio insieme agli altri.


Mi è un po’ più chiaro il motivo per cui sono arrivato fin qui, in questa realtà, in quest’ambiente: per ritrovare me stesso, attraverso lo “stare con”, spinto dalla nostalgia di un luogo periferico in cui ognuno è provocato, messo in questione dalla diversità dell’altro, che probabilmente rimarrà altro, e quindi sconosciuto, non facile da comprendere, ma in questo luogo di mezzo siamo tutti disorientati, provocati, e scomodati dall'azione della reciprocità. Allora può accadere che ci si arrocca alle proprie appartenenze o ci si irrigidisce nel definire la propria identità, ma questo non porta a nulla se non a difendersi ed allontanarsi, così si può vivere ovunque, ma dovunque si resta semplicemente delle isole.


Nel mio quotidiano si alternano momenti di profonda vicinanza, di barriere che cedono senza nessuna resistenza, di condivisioni di vita apparentemente impossibili, per mille motivi, dalla differenza culturale a quella d’età, o semplicemente di situazione sociale, ma ci sono anche distanze che restano nonostante tutto, e che richiederebbero secoli per poter essere superate,  gli stessi che hanno forgiato le culture e i valori a cui volenti o nolenti ognuno di noi fa parte integrante; posso dire che Dio, prendendomi per mano, silenziosamente, delicatamente, mi ha condotto qui, non per conquistare questo posto per Lui, ma perché abitandolo riconoscessi la mia umanità nell'umanità degli altri, e senza fare troppo rumore, nel “nascondimento”, così come mi suggerirebbe Charles de Foucauld, sorprendermi in cammino con altri uomini e donne.



mercoledì 1 ottobre 2014

Qui e non altrove

L’ascolto è una delle dimensioni  che sento ancora non pienamente assunte nella mia quotidianità e allo stesso tempo, una di quelle che maggiormente mi trovo a vivere nel ripetersi spesso monotono delle giornate. Trovarmi in ascolto di qualcuno non è mai programmato, quasi sempre è inaspettato e sovente sembra casuale, ogni volta comunque è un’esperienza che tocca la parte più intima di me stesso, fortunatamente rientrando a casa ho la possibilità di custodire tutto nel silenzio, per far in modo che quello che l’altro, incontrato magari in strada, sul pianerottolo, all’angolo della mia via, trasformi e scomodi la mia vita. Tra ieri ed oggi mi sono immerso dentro gli occhi, le parole e i gesti di alcune persone che mi hanno raccontato parti di sé, non hanno chiesto nulla, non hanno cercato né conforto né risposte certe, hanno raccontato, esternato, ma direi anche consegnato,  quello che avevano di più vivido nella loro vita.

                Per un istante brevissimo mi sono accorto che gli occhi del mio amico pachistano si sono riempiti di lacrime, mentre mi raccontava la fatica di questo momento, con le decisioni da prendere, il desiderio di essere rispettoso delle regole, di rimanere fedele al suo alto senso dell’onestà, e di non cedere alla forza distruttiva che la crisi che viviamo, sta vomitando nell’esistenza di tanta gente senza distinzione di genere e appartenenza, è stanco e sente che le forze di un tempo, la capacità di resistere agli urti sembrano svanire, ma non può cedere, ha una famiglia, ha dei figli, ha soprattutto una storia personale fatta di costruzione lenta e tenace, proprio ora non può cedere allo scoraggiamento; probabilmente è un misto di rabbia e sconforto quello che emerge dietro quelle lacrime, che restano comunque discrete, per il tentativo di trattenerle. Nonostante questo me ne accorgo e mi ci “sento dentro”, mi colpiscono molto più delle parole che mi sta pronunciando; ho un profondo senso di rispetto verso di lui, perché ha molti vincoli e responsabilità a cui non si sottrae, per primo la famiglia, sa che spostarsi, emigrare ancora una volta, è una decisione che ricade anche sui suoi figli, tra l’altro mi racconta che questi sono i discorsi ormai costanti di tante altre famiglie nel quartiere: _“mio figlio è straniero qui, ma lo sarà ancora di più nel mio paese se torno”, e lo sarà comunque anche in altri, penso tra me. La sua è una grande dignità ed onestà con se stesso, nessuno se ne accorge, perché sono di quelle storie anonime che non dicono nulla a chi è affamato e divoratore vorace di racconti conditi di eccezionalità e pressapochismo. Mentre continua a parlare, si interrompe perché si avvicina un’altra persona e mi fa capire che dovremo rimandare in un altro momento la nostra chiacchierata, è una condivisione che non va messa in piazza, con lo sguardo ci capiamo benissimo e questo suo gesto rende me ancora più responsabile di quanto ho ascoltato e accolto.

                     Sotto l’ingresso del mio palazzo incrocio una donna che conosco, lei è italiana, mi avvicino, lei è sempre solare con me, così decido di farmi presente per primo, tempo fa avevo percepito che qualcosa era cambiato nella sua vita, mi sembrava di comprendere che avesse vissuto una crisi di quelle che trasformano l’esistenza e i progetti di vita, in breve tempo; così un po’ per curiosità un po’ per desiderio di farmi più vicino, cerco le parole più adatte per chiedere. Ci si ascolta, ci si riconosce, si cerca di comprendere la fatica vissuta, noto che ha il desiderio di parlare, raccontare senza essere interrotta, ma lo fa non con affanno, ma con una certa fluidità. Nonostante tutto, le risorse che ha messo in campo sono tante e non è crollata, ha mantenuto una sua dignità, ha saputo dare una svolta a partire da un’esperienza non positiva. Ascolto e accolgo.


Sono questi i luoghi della presenza di Dio, gli incontri concreti in cui nulla si fa, se non riconoscere la vita in tutte le sue sfaccettature;  accogliere e lasciarci scomodare da quest’ascolto di Dio, che passa nella vita degli uomini e le donne del mio quartiere.





domenica 14 settembre 2014

Il buon giorno si vede dal mattino


Alzarsi al mattino e vedere la splendida giornata di sole che irrompe in casa, è decisamente piacevole, i palazzi che mi circondano sembrano assumere un aspetto differente,  allungo lo sguardo su tutto il quartiere e sembra quasi un centro vacanze, è tutt’altro, è piuttosto un proliferare di persone, di sguardi e situazioni molto differenti che ogni tentativo di descrizione più risultare troppo sintetica e generale. La mia vicina di casa “batte le mani”, è il chiaro segno che sta preparando il pane pakistano, una specie di piadina che viene preparata e cotta al momento, va mangiata calda, al suono poi,  si assommano i profumi più diversi, predominante il “fritto”, non ho scampo e vengo sovrastato, battuto su tutti i fronti, se contrappongo alla sua tradizione culinaria, la mia cucina dietetica fatta di verdure lessate a vapore, miglio e grano saraceno, che dovrebbero avere un effetto benefico sulle mie intolleranze, ma non lasciano traccia nel vicinato. Suo figlio tredicenne non mi lascia mai orfano di un saluto e di un sorriso divertito, e battendo le mani mi indica che è pronto il pane e mi chiede se ne gradisco un po’…ma si! Vada a quel paese l’intolleranza alimentare, anche le verdurine lesse reclamano un supporto di sapore e d’incontro. Piccole sfumature che comunque mi indicano che la mia giornata è iniziata bene, in effetti ci sono mattinate in cui mi sveglio con un senso di profonda gratitudine, mi sento davvero fortunato, perché vivo ciò che ho sempre desiderato, anche le sfumature più chiaro scure e le fatiche ad essere correlate, hanno un senso e un sapore differente, quando appartengono ad un progetto di vita che senti profondamente radicato nella tua storia personale. 
dal mio balcone
In queste ultime settimane sono stato contattato da diverse persone che in un modo o in un altro hanno il desiderio di non restare impantanate nel proprio nido, nella propria autosufficienza, ma sentono quasi un bisogno  rinnovato di partecipazione e azione comune, quello che mi fa piacere è constatare che si incomincia a scorgere la necessità di un lavoro comune, una partecipazione che prende vigore e significato, dalla responsabilità condivisa; certamente sono piccoli segni, ancora troppo deboli e isolati, ma chissà se non incominciamo a superare quell’individualismo che troppo ha invaso il nostro quotidiano, e recuperiamo la forza del “senso comunitario”; è il germe di novità che chiede ancora di irrompere in questo tratto di storia così travagliato, è il senso profondo di quella passione di Gesù di Nazareth, che instancabilmente diceva: “ il Regno è vicino, è già tra voi”, e il Regno che annunciava era caratterizzato non da un potere, se non quello della fraternità. Come piccolo fratello scelgo di fare “un passo indietro”, per fare passi in avanti con gli altri, scelgo di essere del posto, radicandomi nella quotidianità fino ad essere il più possibile “mescolato”, perché da questa prospettiva apprendo  la saggezza di vita da chi mi vive accanto, a partire da quelli che sembrano “invisibili” nel tessuto sociale, scelgo di mettermi in “cammino con” e non di “fare per”, consapevole che il tratto di strada da percorrere è molto lungo e chiede il coraggio di disperdersi, come il “lievito nella pasta”.
la cappellina
 Se tutto questo è appassionante per me, e lo è, non posso che “impastarmi di relazioni semplici, immediate, quotidiane e di tempi di silenzio, di cuore a cuore con Dio, che sempre più  sento non esterno né a me, né alla realtà che vivo, ma lo scopro esistente nel profondo della mio essere, tranquillamente “a suo agio” anche tra ombre e tempeste, che spesso accompagnano il mio percorso. L’unica fatica che vivo è il portare avanti questa passione da solo, per questo scrivo, racconto, cerco di saper curare alcune amicizie molto profonde: per entrare nel cuore di Dio e di un percorso di umanizzazione, occorre accogliere un senso di appartenenza reciproca, questo per me è il Vangelo e in questa maniere sento di ritrovarmi e condividere quella stessa passione che ha animato Charles de Foucauld, quando di sé diceva:     “voglio gridare il Vangelo con la mia vita”.



sabato 13 settembre 2014

Spazi di fraternità

Prontissimi per proporre anche quest'anno, "Spazi di Fraternità", un luogo d'incontro e confronto, per aprire il nostro quotidiano a nuove prospettive, accogliendo la spiritualità di Nazarath che Charles de Foucauld ha sperimentato e incarnato nella sua storia personale. Segnate nella vostra agenda le date e le parole che verranno coniugate insieme, attraverso l'apporto e gli stimoli che alcuni amici come Luigi Alici, Stefano e Cinzia Ricci, Massimiliano Colombi e altri metteranno a disposizione di chi sarà presente. Quest'anno per chi lo desidera, ci sarà la possibilità di vivere un tempo anche di silenzio e contemplazione, per questo motivo prima di iniziare l'attività alle ore 16.00 delle domeniche programmate, verrà allestito uno spazio di preghiera silenziosa nella chiesa di San Marco alle Paludi di Fermo.
La giornata dedicata al ricordo di Charles de Foucauld quest'anno è programmata per domenica 30 novembre.

Prendete nota sulle vostre agende e.... prendete impegni con noi.


lunedì 1 settembre 2014

Dove abiti in genere?

Ascoltare, ascoltare e lasciarsi penetrare in profondità dalle parole e dalla storia di qualcuno che non conoscevo assolutamente e che è lontano anche nel tempo, questo ho sperimentato in questi ultimi giorni trascorsi all’eremo di Montegiove accompagnato dal diario di Etty Hillesum, donna straordinaria e straordinariamente immersa nella sua storia e nella storia del suo tempo, morta ad Auschwitz nel 1942. Appena a casa mi sento subito accolto dalle lingue che si intrecciano e dai vicini che subito mi bussano: “ben tornato, tutto bene?” Ma fuori l’arabo della famiglia algerina si intreccia alla voce potente della nigeriana, che parla al telefono con livelli di decibel tali da sopperire la carenza di campo telefonico, sono certo che se il suo telefonino non avesse quelle indispensabili “tacche”, la sua voce comunque può arrivare nitida al suo interlocutore senza l’utilizzo della tecnologia; poi l’urdu, parlato dal balcone alla strada per dirsi come è andata la giornata, certamente non propizia per la vendita in spiaggia, visto l’improvviso acquazzone che ha lavato via l’ultima domenica di agosto. Ma anch’io scendo in strada ed è lì che mi sento chiamare da alcuni bambini, dal tono della voce e dall’atteggiamento, comprendo che devo fermarmi:  “ sai, non vengo più a scuola quest’anno, fra qualche giorno vado in Inghilterra con la mia famiglia”. Certo l’immediatezza della notizia e il sorriso del bambino sembrano sottolineare l’avventura di un cambiamento, accolto quasi come gioco, ma so che in genere non è così, i bambini tengono spesso per se ciò che non sanno decifrare come sentimento. “Tu come ti senti”- gli domando, posso permettermi questa irruzione, mi conosce da tempo, -“Ho paura, devo lasciare tutti e lì non conosco nessuno”. 

Non può scegliere, come sicuramente non possono scegliere i suoi genitori, che hanno preso questa decisione per rincorrere ancora un futuro migliore, che stenta beffardamente ad arrivare. "Sai già come si fa, puoi riuscire ancora”, l’unica cosa che sono riuscito a dire, del resto ha le sue risorse, perché dovrebbe perderle proprio ora, ma quel suo “ho paura”, mi risuona dentro in maniera autentica e forte, sento di doverlo custodire come qualcosa di molto prezioso e sottilmente doloroso. Non è il primo bambino costretto all’ennesimo sradicamento dal quartiere e forse non sarà l’ultimo, come lui tanti adulti, uomini, donne, vecchi, ormai sembra la costante di questa epoca: sradicati per violenza, per fame, per speranza, per guerre, nessuna di queste sono motivazioni che partono dal cuore, sono imposizioni. Loro, i bambini, non hanno possibilità né di fare capricci, né di decidere, e quando si oppongono portano motivazioni per nulla banali: “ a scuola vado bene ora, sono ben inserita, come posso farcela in un altro paese dove non conosco la lingua”, questo ha detto una ragazza alla propria madre, la quale mi diceva:   “ come possiamo partire ora?”. Rientro in casa, due minuti ed ecco il suono del campanello, l’indiano che abita nell’appartamento sopra al mio con un italiano stentato, mi chiede come deve fare per iscrivere i suoi figli a scuola, sono arrivati da qualche mese, ma non ha mai provveduto alla loro iscrizione, provo a fornire qualche informazione e indico l’indirizzo della direzione didattica, la sua faccia però è eloquente nel mostrare disorientamento, e mi dice:” allora, io esco dalla via, qui casa…”. Ok, risolviamo il problema, mercoledì prossimo andiamo insieme in direzione, guido io. Lo so sono banalità, sono punti di vista, sono quotidianità come molte altre, e ben venga che sia così, del resto le situazioni straordinarie sono rischiose, troppo lontane dal reale e spesso troppo roboanti per saper contenere la saggezza e la profondità di incontri immediati e semplici. Dio abita d’abitudine qui. Incomincio lentamente a sentirmi un “NOI” in questo luogo, a sentirmi del posto e non l’ultimo arrivato, ma da dove mi viene questa sensazione? Non so decifrarla, penso che dipenda da come lentamente, molto lentamente, le persone mi stanno prendendo per mano e mi stanno invitando, a modo loro, e forse anche inconsapevolmente, ad entrare in questo spazio umano. Vado in crisi, molto spesso perdo il buon umore, mi sento perso e disperso in questa mia scelta da costruire giorno dopo giorno, dove i riferimenti li devo segnare in autonomia, ben venga comunque questa precarietà, è un opportunità anche questa, ma quando sento la dimensione del “NOI”, c’è poco da dubitare: Dio abita d’abitudine nel NOI.


martedì 29 luglio 2014

io plurale

Rientro a casa e sul cancello d’ingresso incontro A. con le sue amiche, come d’ abitudine ha un bel fermaglio sui capelli molto vistoso, fatto di fiocchi e piume, non necessariamente abbinato al resto dell’abbigliamento, non importa tanto  i suoi occhi accesi e il sorriso sempre  pronto per salutarmi, sono lo specchio della sua serenità e questo è sempre un bel dono che si riceve. Tutto il gruppetto di bambini che è insieme a lei è ben vestito, come si conviene nei giorni di festa, del resto anche l’abito più essere un modo per manifestare che quello è davvero un giorno speciale. Mi viene spontaneo fare gli auguri, è molto evidente il loro stato di allegria e la libertà di giocare, noto che la più grande del gruppo ha  una certa soddisfazione per questa mia attenzione:  è la festa che celebra la chiusura del mese sacro del Ramadan, per le loro famiglie è una delle feste più importanti. Anche la mia vicina di casa è contenta degli auguri, anche se è sempre molto timorosa e prima di aprire bene la porta di casa, accuratamente recupera il suo velo colorato e lo pone con un gesto immediato sul suo capo, mi ringrazia ripetutamente nella sua lingua, ho portato delle caramelle per  S. suo figlio più piccolo, ma si sa i gusti sono uno degli elementi più difficili da decodificare e soprattutto sono uno degli elementi che più caratterizzano l’appartenenza culturale, le mie liquirizie con ripieno dentro risultano troppo dolci, così al primo assaggio prudente, mi guarda come per dirmi: _ ma che schifezza è? Beh ci ho provato.


Nel quartiere, non ci sono segni particolari che dicono che questa è una giornata di festa per quelli di religione Musulmana,  del resto è un lunedì, un giorno lavorativo per la maggior parte di quelli che vivono qui, le tradizioni sono le più diverse e spesso tutto viene celebrato negli ambiti ristretti delle appartenenze etniche e questo si mi sembra ben definito e separato. C’è una profonda esigenza, una priorità per il nostro tempo, afferma Franco Cambi, ed è quella di creare “lo spazio dell’incontro”, “ è per noi oggi un compito e un compito urgente e prioritario” ( F. Cambi; “Incontro e dialogo; prospettive della pedagogia interculturale”; Ed Carocci); l’errore è quello di far convivere in maniera parallela e indipendente le culture, mentre questo mescolarsi continuo di storie, vissuti, sensibilità, spiritualità differenti ci obbligano a modificare il nostro vissuto, il nostro sentire, i nostri riferimenti culturali. Non è un passaggio semplice, riguarda tutti indistintamente, e non consiste certamente in una perdita d’identità, in un appiattimento dei valori e dei riferimenti culturali, né in una sciocca omologazione. E’ una sfida, sicuramente, un disorientamento, un accogliere e integrare. Credo e ne sono sempre più certo, che si tratta di un vero e proprio viaggio migratorio nella nostra realtà personale, richiede “un superamento dell’assolutezza/esclusività/difesa delle proprie culture d’appartenenza, per entrare in contatto con le altre culture” (Ibidem F. Cambi). L’umanità, che è una parola al singolare, va letta e percepita al plurale. 




sabato 26 luglio 2014

Spazi di Fraternità

Presto verrà comunicato il calendario degli incontri di "Spazi di Fraternità", che anche quest'anno vuole essere un'occasione per conoscere, approfondire e vivere la spiritualità di Nazareth.

giovedì 17 luglio 2014

il piccolo fratello come precario migrante



"Si è migranti in quanto l'oltre è già in noi come possibile, in quanto la differenza entra in noi come risorsa, in quanto lo stare all'aperto è la radiografia del nostro stato d'animo e della nostra mente" Franco Cambi

Questo passaggio nel libro "Incontro e dialogo" sui temi della pedagogia interculturale, rende una chiave di lettura della spiritualità di Nazareth a mio parere davvero interessante. Charles de Foucauld per primo si è posto nell'ottica della migrazione, dalla sua cultura a quella dell'altro, dalla sua religione a quella dell'altro, dalla storia del suo popolo di appartenenza a quella dell'altro popolo, senza mai perdere nulla di sé e della propria identità, al contrario si è arricchito, ha approfondito ed ha assunto una dimensione plurale della sua esistenza e della sua vita. Credo che ancora oggi resta una grande provocazione il suo percorso spirituale ed umano, incompiuto e disseminato di domande e anche qualche contraddizione, ma vissuto appassionatamente, che non cerca proseliti o imitatori, ma qualcuno disposto a raccogliere il testimone per continuarne la coniugazione in altre sfumature possibili.

martedì 8 luglio 2014

Camminare sulle acque delle contraddizioni

Giornata splendida, carica di sole estivo, il mio vicino che si affaccia per salutarmi e chiedere dove sono stato in questi giorni, si preoccupava perché non mi vedeva, poi le piccole cose del quotidiano come, provvedere alla spesa per evitare che il frigo vuoto all’inverosimile, mi rimandasse un senso di solitudine e disperazione che in questo momento proprio non corrisponde alla mia vita, la lavatrice da mettere in moto e altro, ma sul più bello, mentre mi appresto a  uno dei rituali più importanti della mattinata, ossia la preparazione e la posa sul fornello della moka del caffè…una triste scoperta: la bombola del gas è terminata! Silenzio…pensieri che svaniscono…vuoto interiore…tristezza che mi assale e un’unica frase:  “e adessooooooo”.

A parte questo che tutto sommato rende piacevole la mia giornata, c’è un'altra riflessione o altri pensieri che mi mettono in movimento, e spingono le mie scelte a prendere una direzione piuttosto che un'altra. Alla radio ascolto un programma davvero interessante “Baobab” radio1, intervistano una responsabile del centro Astali, organizzazione dei Gesuiti per i richiedenti asilo, e scopro o meglio ascolto qualcosa che in genere non viene resa pubblica, né approfondita, si tratta degli scafisti, di quegli uomini che traghettano sul Mediterraneo migliaia di uomini, donne e bambini, in viaggi infernali e carichi di morte. Io mi sono sempre immaginato uomini senza scrupolo e senza un minimo di coscienza, accecati dai soldi e spietati; ma nella realtà le situazioni sono sempre molto più complesse e sfumate: scopro dall’intervista che molto spesso gli scafisti sono ragazzi poco più che adolescenti, reclutati dai villaggi poveri di pescatori di paesi del Nord Africa, pagati spesso con un viaggio gratis, anche loro per raggiungere una metà immaginata come la salvezza assoluta. Ragazzini che dal senso di onnipotenza e forza, passano alla realtà del carcere minorile,  alla condanna per traffico di uomini e sfruttamento fino all’accusa per strage. I veri carnefici non sono mai in prima lenea, non rischiano la propria vita e la propria libertà e visto che non hanno scrupolo, vivono questa dimensione fino in fondo, la vita di un minore non ha valore, di fronte alla propria avidità mortifera. Mi scopro miope, mi sento ingannato anche dalla mia poca capacità di saper leggere la realtà, ingenuo nel dirmi che quello che vedo e sento dai racconti giornalistici è tutta la verità; no! La violenza e la prepotenza umana non ha limiti, i criminali sfruttano i sogni di ogni piccolo di questo mondo pur di ricavarne il maggior numero possibile di guadagno, cercano di non pagare nemmeno gli scafisti. E di vittime, che a loro volta rendono vittime anche altri, purtroppo ne è pieno il nostro quotidiano, non è nemmeno necessario andare troppo lontano. 

Di fronte a questo dato di fatto che finalmente un reportage giornalistico mette in luce, io personalmente provo rabbia, non rassegnazione, credo che anche la nostra disinformazione è un modo per rafforzare questa trama di potere, anche il nostro non saper guardare oltre il nostro naso è complicità, perché rafforza una visione della realtà che è distorta, falsa e forviante e permette a chi trama il male di restare ancora nascosti. Mettere in luce la realtà, la complessità, far emergere la verità delle situazioni è un vero atto civile e di trasformazione, mi obbliga a prendere posizione, mi impedisci di correre il rischio di condannare sempre qualcuno che è comunque vittima, permettendo al prepotente di scappare dalla porta secondaria e farla franca. “Non possiamo essere cani muti” diceva Charles de Foucauld di fronte a quello che vedeva rispetto alla schiavitù nel deserto, che la sua Francia tanto tollerava, gli interessi hanno sempre la meglio su tutti. Anche nel mio quotidiano scopro ingiustizie e spesso mi sento impotente, ma il Vangelo che cerco di leggere e ascoltare tutti i giorni, il silenzio che ha un posto essenziale nella mia giornata, non sono solo una ricerca di pace interiore, al contrario il silenzio e l’ascolto della Parola in questo quotidiano diventano la forza per non aver paura di questa storia e di questa società, Gesù nell’esperienza dei 30 anni a Nazareth si è profondamente mescolato a tutto questo, e quindi si è impastato, sporcato, compromesso con tutte le contraddizioni, ma non per sostituirsi a noi, ma per  essere se stesso, per essere quel “Dio con noi” e indicarci la strada dell’umanizzazione. Spesso noi chiediamo a Dia di sostituirci nella soluzione dei conflitti e delle violenze, mentre Lui per primo ha scelto di scendere fino in fondo nelle pieghe nascoste della nostra umanità. Con il Suo silenzio abita la storia di ogni uomo in profondità, mentre noi con le nostre preghiere gli chiediamo di andare là dove noi non siamo capaci di stare. Nazareth allora è scegliere di raggiungerlo, senza troppa paura, là dove Egli abita da sempre: nelle contraddizioni e nelle fatiche degli uomini.


martedì 24 giugno 2014

Lo spavento che ci fa incontrare

La mia vicina di casa credo che al termine dell’estate soffrirà di ipertensione, ogni volta che si affaccia al balcone e si accorge che anch’io sono placidamente appoggiato alla ringhiera, si spaventa, accenna ad un sorriso, prova a formulare qualche improbabile saluto poi indietreggia, ma inevitabilmente ogni volta fa un salto di spavento. Sono stati inutili i tentativi di mediazione e spiegazione con il marito che fortunatamente parla in Italiano, lei è molto timida e ha le sue tradizioni e poi trovarsi difronte ad un uomo che le parla in un'altra lingua, inevitabilmente è fonte di ansia, credo comunque che altrettanto goffa è ogni mia reazione e maldestro tentativo di rassicurarla, attraverso un linguaggio decisamente maccheronico e coniugato all’infinito, come ogni italiano che si rispetti utilizza automaticamente di fronte ad uno straniero, nonostante tutto, ci sono dei meccanismi automatici e culturalmente determinati che si attivano senza volerlo. Ma al di là di questi episodi resta il fatto che il quotidiano cambia automaticamente per me ogni volta che cambiano i vicini di casa, e restando fermo nei miei 26 metri quadrati di appartamento, posso comunque viaggiare in mondi e realtà lontane migliaia di chilometri. Noi tutti siamo provocazione gli uni per gli altri, il nostro spostarci crea inevitabilmente una sorta di “ristrutturazione” nel quotidiano di altri, del loro modo di concepire la realtà, del valore e delle regole dello stare insieme. La reazione a questo, o meglio le resistenze che spesso emergono attraverso le rigidità delle appartenenze, o le sottolineature delle differenze, non fanno altro che confermare che in fondo “l’altro ci interroga, ci scomoda”.  Questo per me è il Nazareth oggi, quel luogo dove è necessario che si coniughi e si sperimenti una nuova grammatica delle relazioni, dello stare insieme, del condividere nuove regole e stili culturali della convivenza; certo quello anche qui noto maggiormente è la separazione tra le appartenenze, non manca certamente la conoscenza reciproca, il chiamarsi per nome, soprattutto tra quelli che sono qui da più anni, ma resiste allo stesso tempo la separazione, il non volersi mescolare per paura di trovarsi in situazioni pericolose, e poi in fin dei conti quando si resta tra “uguali”, si fa presto a comprendersi, a sentirsi meno nostalgici del paese d’origine, credo in modo particolare per le donne.

Occorre affinare lo sguardo, occorre frequentare il silenzio che non è mai assenza di parole, ma lo spazio riservato alle “parole degli altri”, perché spesso il non detto utilizza altri linguaggi per esprimersi, la sofferenza preferisce ritagliarsi degli spazi nascosti e lontani dagli sguardi indiscreti, per non sentire ancora più dolore; allora occorre il tempo e la pazienza di chi non ha intenzioni di stravolgere il mondo, ma ha solo il desiderio e la passione di abitarlo, per poter affiancare discretamente e rispettosamente queste realtà, e la vicinanza, la presenza, lo sguardo libero e attento, genera legami e cambiamento, ma tutto questo non fa rumore, anzi non deve farlo.
Oggi parliamo spesso di periferie, di andare verso le periferie, ma quello che mi auguro è che non si vada con lo spirito della conquista, con la pretesa di portare benessere e novità, dello stravolgere senza aver chiesto “permesso”; io credo e lo sento sempre più forte e in maniera radicale, che il passo da fare è quello di andare ad abitare nelle periferie per lasciarsi scomodare, andare sopratutto in silenzio, accogliendo davanti a sé un lungo tempo anche di “inattività”, perché sia la realtà umana e sociale stessa a provocarci o suscitarci “l’azione”, che non sarà mai solitaria ed eroica, ma comunitaria. Questo per me è lo spirito di Nazareth, la strada incompiuta iniziata da Charles de Foucauld e consegnata nelle nostre mani, sperimentata e suggerita anche dalle piccole relazioni quotidiane con i miei vicini.

 “Sono contento che ci sei tu qui”_ mi ha detto il vicino di casa dopo che ci siamo fermati più volte a parlare sul balcone, è una fiducia che nasce lentamente, fatta di piccoli passi e qualche domanda non troppo indiscreta, così lentamente anche se la moglie continua ad impaurirsi ogni volta che mi vede, gli ho potuto far vedere come funziona la lavatrice, in quali orari è più conveniente accenderla, e che il figlio tredicenne più venire a casa ad imparare un po’ d’italiano; tutto questo non fa rumore, come il quotidiano banale e ripetitivo, ma a me sta aprendo lo sguardo, il cuore e modellando giorno dopo giorno il mio progetto di vita. 


lunedì 23 giugno 2014

3 giorni a Narareth

Per il fine settimana che va dal 4 al 6 luglio, proponiamo una tre gironi di Nazareth per vivere insieme un tempo più lungo di condivisione e confronto. Saranno i piccoli fratelli di Spello a metterci a disposizione uno dei loro eremi, spazi semplici e in autogestione. Avremo la possibilità ancora una volta di confrontarci sulla spiritualità di Nazareth attraverso momenti di condivisione, di silenzio, di gestione del quotidiano e momenti anche di riposo.
I posti sono decisamente pochi pertanto è necessario contattarmi subito anche per meglio organizzare le giornate, fatelo attraverso l'email amedeo.angelozzi@tiscali.it oppure 339/5697137


lunedì 9 giugno 2014

Sulla porta di casa

Rientrare a casa dopo una lunga giornata passata fuori e trovare la curiosità dei nuovi vicini ad attenderti sull’uscio di casa…non ha prezzo. Da due giorni il mini appartamento accanto al mio, non diversamente mini, ha visto l’arrivo di una famiglia pachistana; è interessante vedere come nel giro di pochissime ore tutto si anima e un alloggio vuoto, di colpo diventa dimora e spazio vitale per la quotidianità di un gruppo famigliare; poche cose, qualche bagaglio per gli indumenti, trasportati in pochissimi viaggi con l’auto di un amico che non disdegna un favore così naturale, come quello del trasloco. Nel giro di tre ore eccomi di nuovo in compagnia, direi anche in “coabitazione” con un'altra cultura, un'altra lingua, una famiglia; siamo talmente vicini che in alcuni momenti sembra che sono in casa da me, del resto il “mini” balcone, in perfetta proporzione con tutto l’alloggio, è diviso semplicemente da un pannello che delimita simbolicamente un confine, ma non contempla altre funzioni come l’isolamento acustico o la delimitazione del campo visivo. Tutto questo non mi disturba, sapevo benissimo che queste sarebbero state le condizioni di vita, è chiaro che occorre un forte adattamento e una flessibilità non indifferente per saper vivere in certi contesti. Lo spazio determina anche le relazioni e viceversa, lo stile relazionale, la modalità con cui si abitano gli spazi di vita quotidiana, hanno un’ influenza sulla gestione e la forma degli spazi. In questo contesto inoltre le differenti modalità di vita, determinate dalle molteplici appartenenze culturali, segnano a volte una netta distinzione tra le abitudini, rendendo molto visibile le differenze, e contemporaneamente si è spinti dal quotidiano e dalle contingenze che esso propone, a saper interagire con chiunque.

Questa nuova famiglia di vicini, mi aveva già incrociato precedentemente e avevo tentato un minimo di comunicazione, vista la difficoltà e l’ostacolo della lingua, ora ci siamo trovati gli uni affianco all’altro: la loro curiosità è palese e manifestata esplicitamente attraverso gli sguardi, i sorrisi e come ieri sera, anche attraverso l’uscire dal loro appartamento per guardarmi rientrare in casa. Chissà cosa penseranno, quale idea si saranno fatti di me, del mio vivere solo, del mio andirivieni ogni volta con libri, zaino, valigie; apparteniamo a mondi diametralmente diversi e al momento abbiamo semplicemente il sorriso e qualche parola in italiano, per veicolare la buona educazione.  

Per queste persone come per altri, questo è un “luogo significativo”, nel senso che al momento, è l’unico luogo che hanno per portare avanti il loro progetto di vita, di famiglia, non è il massimo vivere in uno spazio ristretto in quattro, come del resto mi raccontavano alcune mamme indiane e pachistane sempre del quartiere, ma è ciò che possono ottenere in questa esperienza d’ emigrazione; per loro ha un senso, un valore a volte non scelto, imposto dalle contingenze della vita e dalle scarse risorse, altre volte rappresentano la piccola conquista di un progetto migratorio. E’ in questo luogo significativo per loro, che ho scelto di vivere, e vivere alla pari, facendomi vicino di casa, con una presenza discreta e attenta. Si tratta prima di tutto di “essere presenti” e non farsi  mai travolgere dall’attivismo,  lasciandosi contaminare dagli altri e con gli altri mettersi in cammino. Spesso noto che non è semplice comprendere questo tratto della spiritualità di Nazareth, che a prima vista sembra inutile e inefficace, per certi aspetti anche disimpegnata, ma in realtà quello che si vuol mettere in discussione è “l’attivismo”, che a mio avviso ha la stessa radice del “disimpegno” e dell’individualismo: ossia il protagonismo assoluto di un “io”, che diventa l’idolo da soddisfare con ogni mezzo e scelta. In questa esperienza mi accorgo giorno dopo giorno, come lo stare semplicemente in mezzo a questa realtà mi provoca continuamente, non mi mette il “cuore in pace”, mi suscita domande, mi mette in crisi, mi trasforma lo sguardo e la prospettiva di vita, stravolge la mia fede e quindi il mio relazionarmi con Lui, rende la mia preghiera corposa e con i piedi per terra…e tutto questo è occasione di crescita e di vita di cui oggi non posso fare a meno. Se lo stare con gli altri chiede alla mia quotidianità continui cambiamenti e aggiustamenti, la stessa cosa vale per le altre persone, vicini inclusi, è nella natura del nostro essere uomini e donne in relazione, e in questa dimensione faccio esperienza di Dio. Consapevolizzo sempre di più che la mia scelta si caratterizza come “monaco di città”, come ricerca della propria unità interiore attraverso la piena immersione nel quotidiano della gente, nelle periferie; andare in queste periferie non per portare, non per conquistare, ma per abitare, è sicuramente un viaggio verso la propria “periferia”. 


lunedì 19 maggio 2014

Spazio aperto

"Il vuoto divino fa respirare e ci permette di essere. Ci da maturità e libertà…Dio è spazio aperto”.
Ci sono libri che amo spesso riprendere in mano per immergermi di nuovo tra le loro parole, cerco le pagine che mi risuonano dentro e mi sono rimaste nella memoria, magari non ricordo il capitolo o la pagina esatta, ma so che tra le tante alcune hanno lasciato un segno nel mio pensiero prima, e nella mia visione della vita poi. I libri che conservo con una certa gelosia nella mia libreria, sono un po’ come la brace che cova sotto la cenere, sono stati fuochi accesi poi assopiti, ma basta spolverare il grigio della cenere che ecco, rispunta quello stesso calore che potrebbe ravvivare e bruciare qualsiasi cosa, così sono le parole dei libri che mi hanno accompagnato in questi anni: sono lì, e ogni tanto le “smuovo” per ritrovare la stessa scintilla di vita. Tra queste  ecco quelle di Giorgio Gonella, quelle citate in apetura, dal suo libro “Nel deserto il profumo del vento”, ho cercato queste parole perché le sento come sintesi chiara ed eloquente di uno degli ultimi incontri che ho vissuto: eccomi a condividerlo.
I luoghi sono fatti per incontrare e creare relazioni, ma essi spesso ci condizionano, determinano la forma e il significato che le relazioni assumono in noi, spesso sono convinto che i luoghi diventano anche filtro per le relazioni; quali relazioni può creare una sala d’aspetto di un medico di famiglia?. Il mio medico di base riceve nel quartiere, vado per  un consulto, ci vado raramente, anzi diciamo mai, non mi piace aspettare, fare la fila, impegnare un’intera mattinata, ma ne ho bisogno, mi munisco di pazienza e getto lo sguardo nella saletta a piano terra di una palazzina, chiaramente per quanto discreto voglia essere tutti mi guardano, tra i tanti alcuni mi sorridono, ci conosciamo, ecco allora che mi motivo: è un occasione per approfondire delle relazioni. E’ davvero incredibile vedere il mio amico indiano ventenne che accompagna il papà dal medico per fare da interprete, una coppia dell’est Europa che si meraviglia della mia confidenza con l’indiano, due signore anziane che parlano in stretto dialetto fermano impegnate ad aggiornarsi su tutto e tutti, mentre al loro fianco due donne algerine con i loro figli piccoli, parlano in arabo con qualche intrusione di italiano e francese. Una delle signore anziane appena esce dal medico, viene dritta verso me e mi saluta, mi parla come se mi conoscesse da sempre e mi racconta degli acciacchi; tra me e me  penso per quale motivo senza fare nulla ho esercitato questa particolare attrazione sulla nonnina, tanto da suscitargli confidenza, è lei stessa che lo rivela: ti vedo quando vai a leggere in Chiesa. Man mano la fila dell’attesa si assottiglia rimango con una delle donne algerine, ci conosciamo, sua figlia ha partecipato ad uno dei miei laboratori a scuola, ci siamo già salutati e conosco anche suo marito, questo mi facilita l’incontro e il dialogo, la sala d’attesa così anonima e per certi aspetti poco rassicurante con i suoi poster sulle malattie e campagne di prevenzione, con le sedie fatte apposta per  rafforzare la postura sbagliata, diventa di colpo il luogo che può accogliere un dialogo fatto di rispetto e meraviglia. A forza di insistere sull’argomento “ a una certa età devi sposarti”, sono costretto a spiegare il motivo per cui a 45 anni non sono sposato, e così condivido il fatto che ho scelto di essere un laico consacrato. Si tratta di condividere, far comprendere quello che per me è il frutto di un lungo percorso di vita, di un’esperienza di fede che ha comunque anche un riferimento culturale e storico, che sono diametralmente differenti dai suoi, eppure non sempre tutto questo è una complicazione, a condizione che si abbia il desiderio e la curiosità di conoscersi e ascoltarsi. Lei è algerina, la terra in cui Charles de Fuocauld, dove lui ha sperimentato e vissuto il suo cammino d’incontro con le popolazioni nomadi musulmane, è la culla della spiritualità che mi ha profondamente segnato, parliamo di questo, come parliamo delle cose che ci accomunano e ci separano nella fede. Lei mi dice “ io sono curiosa, e ho sempre voluto capire il perché delle feste cristiane…venire qui in Italia non è stato semplice per me, ma mi ha fatto vedere che esiste un'altra realtà oltre il mio paese…ho voluto portare i miei figli a vedere San Pietro, perché non devono capire e conoscere?”; a conclusione della nostra chiacchierata mi dice:“trovo che voi cristiani siete molto umani, più di noi musulmani”.


Charles de F.
Il vuoto divino fa respirare e ci permette di essere. Ci da maturità e libertà…Dio è spazio aperto”. In quella sala d’aspetto ho ripensato a questa frase di Giorgio Gonella…e l’ho compresa, come mi è stato chiaro il senso di una vita spesa a “stare” con le popolazioni del deserto come quella di Charles de F., questa donna e le sue parole mi hanno dato il senso di quello che è il nascondimento di nazareth, mi hanno invitato a restare nel quartiere con uno stile e una presenza ben precisa. Uscendo lei mi saluta: “ ciao Amedeo”…ma io non avevo detto il mio nome…forse l’ha sentito a scuola o dalla figlia.





domenica 4 maggio 2014

Abitare il silenzio

Il silenzio non è mai nell'esperienza di Charles de F. un modo per isolarsi o per vivere il cuore a cuore con Dio in maniera intimista, certamente anche per lui è avvenuta un'evoluzione dell'esperienza di fede e d'incontro con Dio, che ha sempre vissuto come relazione. Il deserto è diventato non solo il luogo fisico della sua vita di piccolo fratello, ma si è trasformata anche in metafora della sua spiritualità, e come afferma Mondonico, non è andato nel deserto per essere eremita, ma per incontrare gli uomini e le donne che in esso vivevano come nomadi, dimenticati e isolati dal resto delle popolazioni. E' questa la contraddizione che diventa provocazione nella storia di fratel Carlo: va nel deserto per incontrare, per andare al cuore delle relazioni con chi è in un orizzonte culturale, religioso, sociale molto differente dal proprio; il deserto e il silenzio che ricerca costantemente non è altro che il percorso di semplificazione, di liberazione da fardelli inutili e ingombranti che non rendono l'incontro con l'altro, autentico e nutriente.
Il silenzio anche oggi, è ancora l'esperienza che può condurci nel cuore del nostro esistere e del nostro essere con gli altri, il silenzio scelto e praticato costantemente ci immette nei nostri deserti, ci fa incontrare con i nostri dubbi, ci evidenzia "il di più" che ostinatamente ci portiamo dietro come indispensabile, mentre spesso è semplicemente paura di accogliere un cambiamento necessario. 

Nella mia vita quotidiana scopro sempre con molta fatica quanto sia difficile cambiare prospettiva per accogliere questa priorità del silenzio, vederlo, sperimentarlo e accoglierlo come il luogo dove nasce ogni cosa; troppo spesso mi sento anch'io completamente imbevuto della mentalità efficentista in cui siamo nati e con cui misuriamo il valore di ogni azione e di ogni scelta, mentre a mio parere dovremmo incominciare con il fermarci, l'attendere, l'ascoltare, prima di ogni scelta da compiere, di ogni azione da mettere in atto, prima di ogni cambiamento da accogliere. 
Il nostro è un tempo di cambiamento profondo, in cui valori e pratiche relazionali si fondano su parametri e pilastri nuovi, anzi spesso non hanno nessun tipo di riferimento, semplicemente avvengono, è per questo che occorre ritornare al cuore di quello che viviamo, non per giudicare in maniera rigida, ma nemmeno continuare a disperderci in una continua improvvisazione, che rischia di farci sempre giocare al ribasso anche nella qualità delle relazioni e dello stare insieme, si per noi cristiani il silenzio diventa ancora il luogo dell'incontro di Dio e dell'uomo, possiamo scoprire di nuovo quell'invito di Carlo Carretto, cioè riconoscere e sperimentare "Il deserto nella città".
per chi vuole dialogare su quest'argomento e questa prospettiva di vita ti aspettiamo domenica 18 maggio dalle 16.00 alle 18.00 presso i locali della parrocchia San Marco alle Paludi ( fermo) per l'incontro di Spazi di fraternità. A dialogare con noi Salvatore Frigerio monaco camaldolese, biblista.