Far finta di essere un esperto di macchine e soprattutto intendersi
di meccanica non è stata una bella parte da interpretare, il fatto è che mi sono lanciato ieri pomeriggio
in una serie di consigli improbabili, decisamente e palesemente banali su come
risolvere un problema di asse delle ruote spostato. Uscendo di casa mi sono
incrociato con dei vicini indiani, sono stati loro a fermarmi e coinvolgermi
nel loro dialogo, ero di fretta, così non ho posto molta attenzione alle
persone stesse, un ciao veloce tanto per mostrarmi educato e socievole, ma
questo non ha senso se poi il tempo di fermarsi e attardarsi con qualcuno
diventa un peso, fortunatamente loro mi hanno bloccato e costretto ad uno stop, la ruota della loro macchina sembrava storta e fuori asse, vedendomi mi hanno chiesto un consiglio e questo, per chi mi conosce sa benissimo di quanto possa essere stata paradossale la situazione creatasi. Spesso non importa l’argomento che si utilizza nella conversazione, ciò che ha
valore è il tempo che si vive con l’altro, e questo comporta a mio parere un
bel cambio di prospettiva, uscire dall’ottica del “tempo perso” o “guadagnato”,
da quell’assurda unità di misura che risponde alla domanda “a cosa è servito”,
per entrare nella dimensione della relazione gratuita, e dell’incontro dell’altro.
Quando ero in Francia nel quartiere dei gitani, i piccoli fratelli mi fecero
notare come per i nostri vicini fosse importante soprattutto lo stare insieme e
parlare, ciò che contava era il tempo
dedicato e concesso all’ospite, non gli argomenti trattati, che spesso erano
anche un po’ surreali, come le storie che mi venivano raccontate; da quell’esperienza
ho lentamente appreso a mettermi in ascolto di ciò che è nel sottofondo dei
nostri incontri, ad affinare lo sguardo per osservare altre priorità, ho dovuto
in qualche maniera anche rendere acuta la mia percezione, per poter mettermi in
sintonia con melodie che gli incontri tra persone suonano con tonalità non
evidenti al primo ascolto. A distanza di più di 15 anni ho un ricordo molto
vivido di Aldo, un anziano gitano che veniva in fraternità e passava ore da
noi, veniva anche quando ero da solo, e senza che me ne accorgessi mi ha
insegnato a “saper stare”, le sue parole non erano mai a caso, il suo sguardo
anche ironico, era ricco di stima e affetto per noi, soprattutto per quelli
come me, che erano all’inizio dell’esperienza della fraternità, ho ben impresso
il giorno che venne in casa per invitarmi al matrimonio di suo figlio, mi disse:
“dovunque andrai, se vuoi venire non devi farti problemi, ti faccio venire a
prendere”. Non ero in grado di comprendere il valore di quelle parole e di
quell’impegno, ero ancora lontano dalla sua cultura gitana, e quello che
conoscevo era troppo in superficie, probabilmente anche lui era consapevole di
questa mia ingenuità, ma non si fece problema, mi regalò quello che lui era e
la storia antica di un popolo dalle tradizioni radicate e sofferte, mi fece
sentire appartenente, usando delicatezza e immediatezza. La mia fu una risposta
da “paio” ( un non gitano), e risposi con il mio parametro culturale: “ no non
devi scomodarti, magari sarò troppo lontano da qui”.
Oggi comprendo che lui non si
scomodava assolutamente, quello era il mio filtro, il mio orizzonte culturale e
personale, Aldo ci teneva a me come a tutti i piccoli fratelli, il suo gesto non
era né uno scomodarsi, né un dovere, ma un appartenere alla stessa famiglia. Sono
certo che Aldo è uno dei miei formatori inconsapevoli, uno dei tanti che oggi
mi permette di vivere questa nuova tappa della mia vita; per vivere come
piccolo fratello in questo quartiere prima di tutto è importante che mi libero
di tutte quelle domande inutili e forvianti, quali appunto: “ a cosa serve”, “
cosa posso fare”, “ cosa posso portare”, liberarmi dalla dimensione “economica”
delle relazioni ed entrare nella gratuità degli sguardi liberati dalle paure
reciproche, dai doverismi legati al ruolo e all’immagine perfetta che voglio
dare di me, e tuffarmi smisuratamente nella dimensione dell’abbandono. La
scelta di Nazareth mi pone principalmente in questa dimensione, è un totale
cambio di prospettiva, è una continua semplificazione del cuore, un togliere
ciò che è di troppo per restare senza più imbarazzo “nudi” e quindi vulnerabili
difronte agli altri, trasformando questa vulnerabilità in “terreno fertile” d’incontro.
Non è quello che rappresento e mi costruisco di me come immagine perfetta che
mi permetterà l’incontro vero, ma il mio avvicinarmi lento e costante alla mia
precarietà, l’accoglienza di una storia che è sempre in evoluzione e mai
compiuta, questo mi pone accanto alle persone con cui vivo quotidianamente e mi
permetterà nel tempo, di con-dividere l’esistenza e le rispettive esperienze di
vita. In quest’ottica comprendo e percepisco quello che Charles de F. ha più
volte ribadito per se, ossia il nascondimento, il vivere in mezzo, l’essere “seme
gettato”, per alcuni aspetti è un vero e proprio perdersi, e questo oggi
disorienta, allo stesso tempo se vissuto e non semplicemente ragionato, è un percorso di liberazione che mi
porta al cuore delle relazioni stesse, al cuore della vita.
Ieri la ruota fuori asse non era il centro della
conversazione, ed è stata una fortuna che non ho mai fatto il meccanico.