domenica 27 gennaio 2013

Nel cuore di Dio e nel cuore degli uomini


44 gatti in fila per uno...

Puntare la sveglia alle 6.30 del mattino con il pensiero che la giornata che mi accoglie con un sorriso di sole che spunta, è una giornata da vivere e da godere, un tempo da non perdere semplicemente accoccolato sotto le coperte. Anche se con fatica, mi tiro fuori dal letto, raggiungo la sveglia posta tatticamente lontana, per provocare lo stesso effetto della carota davanti all’asino, la spengo…cerco di prendere consapevolezza del luogo dove mi trovo, apro un occhio, mentre l’altro lo lascio chiuso quasi a trattenere ancora un po’ di sonno e di sogno che mi ha accompagnato nella notte. Appena Morfeo mi consegna al giorno a mia insaputa, consapevolizzo che oggi è il mio compleanno: 44 anni, evito di andare subito davanti allo specchio perché potrei convincermi che il tempo ha  lasciato troppi segni di fatica e di lotta, preferisco guardare fuori dalla finestra, mi appare tutto tranquillo, almeno così sembra, anche se so che in questo quartiere la notte porta con se altre storie, vite, situazioni non sempre facili. La mia giornata si conclude con il silenzio e la preghiera dell’abbandono di Charles de Foucauld, così il mattino sembra  che lo stesso silenzio mi attende per riprendere insieme a tessere relazioni, incontri e ascolto di questa realtà che ho scelto di vivere. Ma questa giornata mi piace aprirla con il ricordo di quello che in questi anni mi ha sempre accompagnato. Sotto il mio letto ho sempre avuto uno zaino o una valigia, un po’ a causa degli spazi sempre ridotti e un po’ perché ho sempre scelto una vita nomade, con la disponibilità a rimettermi in movimento ogni qual volta sento che il luogo non mi permette di vivere a pieno quello che ho scelto: la vita di Nazareth. Non ho mai cercato sicurezze, o situazioni accomodanti, ho sempre ben tenuto chiaro in me il desiderio di essere lì dove gli uomini e le donne camminano con fatica e cercano di appropriarsi di nuovo della loro dignità e dei loro diritti, ho sempre desiderato e desidero ancora, “abitare” questi spazi concreti di umanità, abitarli senza  avere nessuna pretesa, a mani vuote ma con occhi e orecchi ben aperti e attenti, cercando di superare la paura di compromettermi con questi cammini di libertà. Oggi è una consapevolezza diversa che ho delle mie possibilità e della mia scelta, per certi aspetti meno poetica, ringraziando Dio, perché chiaramente non sono più un giovane ventenne, ma non sento venir meno la passione e il sogno di vivere nel cuore di Dio e degli uomini, oggi ancora più di ieri. Cerco di abbandonarmi a questo sogno, di trovare e riconoscere i tratti concreti che mi fanno mettere i piedi per terra, di cercare nel confronto con gli altri lo strumento sicuro per riconoscere le tracce di un cammino che parte da molto lontano. 

Questa sera rientrando a casa, dei ragazzi indiani mi salutano con molta famigliarità, approfitto di questo calore e apertura per scambiare qualche parola con loro, di chiedere di come va il lavoro, quanti anni hanno, mi guardano come se mi conoscessero, in un solo istante mi rendo conto che sono invecchiato: hanno partecipato a dei laboratori con me nella scuola del quartiere, sono ormai nel mondo del lavoro, mi raccontano di situazioni poco facili che incontrano qui, sono i colori e le sfumature differenti di Lido3Archi: tutte quelle che vanno dal disagio al riscatto.
Rientro in casa e sento che desidero restare in silenzio in cappellina, prendo un libro di Arturo Paoli: “Il deserto è la cornice del nulla. Per scoprire valori allo stato nascente bisogna accettare di essere respinti lì dove nascono le cose. Bisogna avere la pazienza del nulla, non scacciarlo come demonio, non affrontarlo col nostro coraggio, ma rispettarlo nella sua qualità di nulla”.
A piene mani raccolgo tutto quello che mi è stato consegnato in questi anni, non le stringo, per evitare di trattenere ciò che invece sento mi spinge ad andare avanti e continuare il cammino come piccolo fratello.

“la parola più bella e importante di oggi? NAMASTE”







lunedì 21 gennaio 2013

Due casacche per giocare


Il mio lavoro in questi mesi mi pone spesso a contatto con le realtà più diverse, le quali mi chiedono tutte indistintamente di ascoltare senza giudicare, di credere che il “contagio” e la vicinanza non è mai pericolosa se l’altro è lo spazio della meraviglia, lavorando poi con ragazzi e bambini mi rendo conto che la relazione per essere efficace, deve passare attraverso canali comunicativi differenti:  prima ancora delle parole, ciò che più conta sono i gesti, gli sguardi e la presenza. E’ una grande palestra di autenticità, quella che mi viene offerta, un tempo e uno spazio, dove come adulto, mi gioco la piena responsabilità di costruire insieme agli altri una comunità che si fa “possibilità” per tutti  senza mai livellare o appiattire su di un’unica misura o modello. La settimana scorsa inizio un lungo ed appassionante progetto in una scuola media ( evito per motivi di privacy riferimenti a nomi e luoghi), mi è stato chiesto di accompagnare nelle differenti classi coinvolte, i processi relazionali, favorendo quelle che sono le risorse del gruppo e dei singoli, per poter poi trasformare i conflitti in possibilità, la comunicazione in relazioni efficaci e le differenze culturali come dati di fatto che si possono riconoscere, valorizzare e abitare, perché questo è “già” quello che per molti deve ancora accadere. Prima di entrare in classe faccio un grande respiro, ascolto come mi sento e quali sono le preoccupazioni che mi porto dietro, poi incomincio a guardare i ragazzi, osservo, ascolto il clima della classe, mi interesso a come si muovono, fino a che alla fine, mettendomi seduto  in cerchio con loro incomincio a sentire dentro che ne vale proprio la pena essere lì, a quel punto cerco di trovare il mio posto nel loro cerchio invisibile, fatto di relazioni, pensieri, alleanze che non sempre sono facili da scalfire: un estraneo, uno fuori dal proprio recinto è sempre meglio tenere a debita distanza. In questi primi momenti mi gioco molto dell’alleanza con loro, anche se sono degli adolescenti, hanno il potere di mettere noi adulti completamente fuori gioco. E’ sempre molto interessante scoprire in me che l’imbarazzo o la resistenza che mi oppongono rischia di portarmi verso l’utilizzo del potere che come adulto posso mettere in atto, ma sarebbe una difesa contro un'altra difesa. Iniziamo l’attività con un giro veloce di nomi, ed è la cosa più semplice che posso proporre inizialmente, serve per allentare le tensioni, ma sovente le cose più semplici sono quelle più importanti: un ragazzo si presenta con un nome che in realtà non è il suo, la classe pur sapendolo mantiene talmente la parte che tutto scorre tranquillamente, fino a che con l’aiuto di un altro adulto si scopre l’inganno, che poi inganno non è. 

Molti bambini o ragazzi cinesi hanno un nome 
italiano che utilizzano quando sono con gli altri, ma con loro è normale, lo diamo per scontato senza mai porci nessun interrogativo, ci rende la vita più facile quando dobbiamo chiamarli, quindi va bene, il problema in questo caso e dell’altro che ha l’obbligo del doppio nome; questa volta la situazione è diversa, il ragazzo in questione è di un'altra cultura ma non è cinese. Non mi scompongo molto, anzi prendo la palla al balzo e ci lavoriamo su: mi dice che da tempo ha scelto per se un nome italiano e che i compagni ne erano consapevoli. Mentre lo ascolto mi sembra di percepire che quello fosse lo strumento adatto per dire “sono di questo gruppo”, “mi chiamo come voi e quindi? Che fate?” ( sono mie verbalizzazioni). Sono molti i ragazzi che utilizzano strategie simili pur di non sentire il peso della diversità o dell’appartenenza ad una minoranza, che oltre tutto, in alcuni casi, li ha obbligati a lasciare amici e luoghi famigliari per andare in un paese altro. Tutto questo è dentro, nascosto, elaborato in solitudine, negato, qualche volta espresso con la rabbia e l’aggressività, allora la cosa più semplice è avere due casacche per poter continuare a giocare, anche se questo non allevia  la fatica di abitare terre di mezzo. Abramo nella Bibbia è chiamato un nomade errante, Israele nonostante la Terra promessa è stato sempre una minoranza e straniero in terra straniera, Gesù rompendo gli schemi culturali e religiosi del suo tempo, ha abitato villaggi e situazioni le più diverse e le più emarginate, come piccolo fratello mi sento attratto dalla stessa dinamica di Dio che queste terre di mezzo le abita, con smisurato silenzio e le vuole trasformare dicendo con forza “ che ogni casacca, tutte le casacche sono degne”, nessuno deve essere obbligato a rinnegare la sua, per trovare la piena cittadinanza in questo mondo. 
Non è forse questo il senso del Regno di Dio che Gesù con tanta passione ha gridato?







mercoledì 16 gennaio 2013

Un Idea ben precisa


Chi fa per sè...


Lo sapevo molto bene che passato il periodo natalizio, sarebbe iniziato per me un tempo carico d’impegni, oltre al lavoro in comunità d’accoglienza, iniziavano i progetti nelle scuole, gli incontri di formazione e gli esami dell’università, che sono lì come un impegno che diventa sempre più pesante; ogni sera guardo da lontano la mia agenda e ho una certa esitazione nell’aprirla, consapevole del fatto che il giorno seguente è carico d’impegni. Non mi voglio comunque lamentare, in un tempo di crisi come quello che stiamo vivendo, mi reputo molto fortunato perché ho la possibilità di fare un lavoro che mi piace, per cui ho speso tempo e denaro per la formazione e soprattutto perché mi permette di essere in contatto con molte persone e realtà: il mio lavoro si sposa benissimo con la mia scelta di vita.
Rientrando a scuola e prendendo contatto con le differenti situazioni dei bambini, ho la possibilità di vedere da vicino le situazioni  più diverse, dove si può toccare con mano quello che la crisi produce: l’incertezza e la precarietà. Non è difficile constatare che le famiglie fanno fatica a mantenere uno stile di vita che fino ad ora era nelle loro possibilità, grazie ad un ingresso economico garantito dal lavoro almeno di un genitore, oggi non è più così, mi è successo più volte di sentir dire che il genitore di questo o quel bambino non lavora più. La precarietà si aggiunge a precarietà. Molte famiglie non hanno mai avuto un tenore di vita elevatissimo, i soldi che entrano sono spesso utilizzati per mantenersi qui in Italia, per dare un futuro migliore per i propri figli e per sostenere i parenti rimasti nel paese d’origine; non credo sia semplice reggere una responsabilità e un peso del genere e rispondere a così tante e diverse aspettative. Questa vita in salita ormai coinvolge tutti, le difficoltà che stiamo vivendo non fanno distinzione di cultura o provenienza. C’è comunque una debolezza, una fragilità, un “tallone d’Achille” che ci rende ancora più vulnerabili e che almeno, per quanto mi riguarda, non mi fa intravedere una via d’uscita o di speranza rispetto a quello che viviamo: è l’individualismo.
Ho l’impressione che non siamo più capaci di pensarci “insieme”, la parola società, o comunità, ha perso valore, significato, ancor meno l’espressione “responsabilità condivisa” ; tutto si gioca nello spazio ristretto della propria cerchia, del proprio ambiente, anzi direi meglio del proprio bisogno.  Senza esserci resi conto, è entrata nella nostra cultura un elemento che credo abbiamo ben interiorizzato e integrato, ossia “il privato”; tutto è privato, le scelte sono private, i progetti sono privati, le esperienze sono private, anzi come si dice spesso, le esperienze sono individuali, tutto quello che una persona compie o sceglie nella propria vita, si pensa che non abbia nessuna ricaduta o interesse per il resto della comunità degli uomini. Quest’atteggiamento di fondo può aprire nuove prospettive, farci trovare soluzioni comune e condivise?
Sono certo che anche noi cristiani cattolici, con il nostro impegno a salvare l’anima abbiamo rafforzato questa mentalità, convinti di annunciare il Vangelo ancora oggi, proponiamo spesso pratiche religiose che portano al bene e alla salvezza dell’individuo, dimenticando completamente e scandalosamente che l’unica Buona Notizia di Gesù è stata quella dell’avvento del Regno di Dio, “Gesù non si dedica ad esporre ai contadini e ai pescatori nuove norme o leggi morali, annuncia loro una notizia: Dio è già qui e si prefigge una vita più felice per tutti, dobbiamo cambiare il nostro sguardo e il nostro cuore. Il suo scopo non è fornire a quegli abitanti un codice morale più perfetto, bensì aiutarli ad intuire com’è e come agisce Dio e come saranno il mondo e la vita se tutti agiranno come Lui” (J.A Pagola “Gesù un approccio storico”, Borla), non si tratta quindi di assicurarsi un posto in prima fila in Paradiso, quanto appassionarsi e responsabilizzarsi nella trasformazione della storia qui ed ora, nell’umanità di cui siamo parte integrante e in cui Dio ha scelto di incarnarsi. Più leggo il Vangelo più vado in crisi, più faccio risuonare nel silenzio la Sua Parola in questo contesto sociale ben preciso, più mi accorgo che ogni mio gesto, ogni mia scelta non ha senso se solo risponde ad un mio bisogno: questo “nazareth” mi provoca e mi dice che qui non sono un privato cittadino, allora la mia fede si scardina, il Vangelo si scompagina, la mia appartenenza alla comunità cristiana non è più un nido sicuro, anche il mio essere da solo qui mi pone qualche domanda. Sarà anche scomodo tutto questo, eppure mi appassiona e mi da speranza, mi spinge a superare tutte le mie paure e reticenze, mi obbliga ad uscire fuori e creare relazioni, mi invita a con- promettermi.

A scuola incontro la bimba nigeriana del secondo piano, le dico che non l’ho più  vista nel palazzo, lei mi guarda, mi sorride e mi risponde:_ io si, tante volte. 









domenica 6 gennaio 2013

"Effetto Nazareth"


L' Epifania il divano si porta via


Uscendo di casa qualche giorno fa, trovo sul pianerottolo accantonato in un angolo di fianco all’ascensore, un divano, lo osservo e chiaramente capisco che è lì parcheggiato per poi essere gettato via, le sue condizioni sono decisamente precarie, non ha nemmeno più i cuscini ma una tavola di legno che richiama vagamente lo sportello di un armadio anni ’70. Il fatto che venga depositato in quel angolo non crea assolutamente disturbo, le regole condominiali sono momentaneamente sospese e poi del resto, prima della legge occorre tener conto della praticità: dove mettere un divano a tre posti che non può più occupare un piccolo alloggio? Appunto, di fianco all’ascensore, del resto osservando bene e con occhi diversi, potrebbe essere utile per creare un angolo d’attesa; sorrido e esco,  dopo tutto, questo non è veramente un problema nel nostro condominio, ci sono aspetti e situazioni ben più importanti. Con il passare dei giorni mi affeziono a quest’arredo condominiale e mi domando chi starà arrivando o traslocando altrove, anche la mobilità continua è un  elemento che incomincio a notare nel quartiere, la precarietà che si vive obbliga tutti ad essere sempre pronti a traslocare, o meglio emigrare altrove; una donna pachistana, giovane e già con tre figli da accudire, mi diceva che sarebbe andata in Inghilterra, almeno lì aveva altri parenti e soprattutto avrebbe potuto utilizzare il suo titolo di studio, in Italia è semplicemente una donna capace di leggere e scrivere , visto che è molto difficile farsi riconoscere la laurea, gli stereotipi che ci portiamo dentro ci fanno vedere queste donne avvolte nei loro abiti tradizionali sempre delle donne analfabete o rigidamente incastrate in regole culturali arcaiche, non che non ce ne siano, ma la realtà è sempre ricca di sfumature e sorprese. Con mia meraviglia ieri il divano viene miracolosamente ricomposto con i suoi tre cuscini, pulito e al suo centro campeggia un foglia A4 con la scritta: “Chi ne ha bisogno può prenderlo”. Credo che basti questo foglio per scardinare tutti i nostri schemi, regolamenti e regole igieniche: chi prenderebbe un divano lasciato sul pianerottolo, senza conoscerne il proprietario, senza sapere come è stato utilizzato e giù mille altre domande; tutto è superato da un semplice ragionamento: “io non lo uso più, buttarlo non mi sembra il caso, chiunque tu sia prendilo se può esserti utile”, alla faccia del mercato. Pensate che il divano è ancora sul mio pianerottolo? Mi dispiace solo di non essere riuscito a fotografarlo, questa mattina riposerà serenamente in un piccolo alloggio dello stesso stabile, qualcun altro godrà della sua comodità por molto tempo ancora, come dire: “qui non si butta nulla”. Il divano è semplicemente una metafora di quello che sto osservando in questi mesi, del resto anche nella scuola del quartiere, ho la possibilità di considerare mille situazioni di precarietà, e altrettante soluzioni creative, credo che in un tempo di crisi come quello attuale, la creatività vada messa in gioco, questo si traduce in un superamento degli schemi e in una capacità di selezione tra i bisogni reali e primari e quelli indotti da un consumismo e uno stile di vita mercificato, per comprenderlo non basta osservare da lontano, occorre entrare dentro e mescolarsi. Sento che questo “stare” ha il potere di trasformare, è esso stesso un “fare”, del resto il silenzio dei 30 anni di Gesù a Nazareth non è l’attesa o la preparazione di un impegno più visibile, è già l’agire di Dio. 

Non sto cercando eventi particolari, o esperienze eclatanti, non mi aspetto stravolgimenti, mi interessa vivere nel silenzio questo quotidiano e gli incontri che lentamente si rendono possibili, chissà potrei fare come quel divano: aspettare senza essere per forza utile.