Mescolarmi, questa è la parola che più di ogni altra in
questo momento della mia vita, risuona nella mia mente, non ancora nel mio
cuore, in quanto passare dal pensiero razionale a quello emotivo, è necessario
che l’esperienza venga integrata, è come la goccia d’acqua, sappiamo bene che
con il tempo scalfisce e modifica la roccia, ma il risultato non è immediato;
intanto senza forzare le situazioni provo a mescolarmi.
La riflessione di oggi parte da un fatto pratico, da una
telefonata di un assistente sociale, sapeva della mia presenza nel quartiere,
del mio lavoro con i bambini immigrati a scuola, per questo mi chiedeva di intervenire in una situazione delicata. Una
donna immigrata ha un bambino che presenta una grave disabilità, l’ostacolo
della lingua non permette né a lei, nè agli operatori del servizio di poter
comunicare e interagire correttamente nella gestione della situazione. Non sono
un mediatore culturale e questo lo chiarisco subito, ma mi rendo conto che
forse la prima cosa da fare è
individuare e attivare una rete di relazioni; molto spesso accede che le realtà
sono già organizzate e le risposte sono presenti, basta osservare e
individuare, mentre la nostra mentalità interventista, ci porta a non vedere le
potenzialità esistenti per poterci percepire indispensabili. Decido quindi di
non buttarmi troppo in avanti, ma di passare per altre strade. Il pachistano
che mi ha certato l’appartamento conosce molte situazioni ed è molto attivo nel
quartiere, è veramente una risorsa per tanti immigrati, infatti scopro
immediatamente che non solo conosceva la realtà di questa donna, ma si era in
qualche modo già attivato. Nel giro di una giornata eccoci tutti insieme a
parlare con la donna e cercare insieme soluzioni possibili.
Durante l’incontro non devo fare assolutamente nulla, sono
solo una presenza rassicurante per la donna, mi conosce come educatore della
scuola e per il corso d’italiano che abbiamo fatto insieme, mi sorride e sembra
contenta della mia presenza, almeno così percepisco. Ho una grande possibilità,
quella di ascoltare ed osservare, mi accorgo che lentamente emerge in questa
donna la fatica e il peso di una situazione che in un altro contesto, quello
del paese d’origine, avrebbe condiviso con altri della propria famiglia, il
fatto poi di non comprendere la lingua non gli permette né di chiedere, né di
avere quindi informazioni precise su come comportarsi, fa come può forse per
istinto, questo lo dice e lo ammette con delicatezza. La malattia o la disabilità
di un figlio è una fatica e una ferita per tutti, ogni cultura poi sviluppa una
propria visione della malattia, dandogli un preciso significato, ma lei è qui
in un altro contesto, in un doppio isolamento: fuori dalla sua cornice
culturale e lontana dagli affetti famigliari. Mentre si parla cerco di
osservarla, e in due o tre occasioni incrociamo lo sguardo, gli faccio cenno di
non aver paura, gli faccio notare che non è sola e che stanno trovando il modo
per aiutarla. Quanti pensieri terrà chiusi in sé, quante parole non dette,
quante richieste nascoste. Mi chiedo come possa apprendere una nuova lingua,
quando la sua mente è impegnata su altri fronti, come possa tirar fuori le
risorse necessarie per integrarsi nel nuovo contesto, quando tutto rimane chiuso
dentro e non c’è nessun canale per poterlo fare emergere; quest’aspetto della
migrazione è poco visibile e poco considerato, ma per alcune donne immigrate è
una dimensione molto presente nel loro vissuto, sono sentimenti non detti.
C’è anche del positivo e lo individuo subito: la rete di
sostegno emerge immediatamente, è fatta di altre famiglie della stessa
nazionalità, della disponibilità del servizio a coniugare la propria risposta
con la realtà culturale della donna, fino ad arrivare al coinvolgimento delle
insegnanti che immediatamente si trasformano in compagne di viaggio di queste
donne. Mi piace sentirmi parte di questa rete, disperso tra gli altri, mi piace
soprattutto della possibilità che mi è stata data di restare in silenzio e di
essere una presenza amica; mi torna in mente un passaggio che ho scritto nel
mio progetto di vita: “per me essere testimone del Suo silenzio significa amare
alla Sua stessa maniera: abitando nel silenzio il mistero di ogni uomo”
e
l’abitare genera sempre un cambiamento.
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