venerdì 14 dicembre 2012

Quello che le donne non dicono


Mescolarmi, questa è la parola che più di ogni altra in questo momento della mia vita, risuona nella mia mente, non ancora nel mio cuore, in quanto passare dal pensiero razionale a quello emotivo, è necessario che l’esperienza venga integrata, è come la goccia d’acqua, sappiamo bene che con il tempo scalfisce e modifica la roccia, ma il risultato non è immediato; intanto senza forzare le situazioni provo a mescolarmi.

La riflessione di oggi parte da un fatto pratico, da una telefonata di un assistente sociale, sapeva della mia presenza nel quartiere, del mio lavoro con i bambini immigrati a scuola, per questo mi chiedeva  di intervenire in una situazione delicata. Una donna immigrata ha un bambino che presenta una grave disabilità, l’ostacolo della lingua non permette né a lei, nè agli operatori del servizio di poter comunicare e interagire correttamente nella gestione della situazione. Non sono un mediatore culturale e questo lo chiarisco subito, ma mi rendo conto che forse la prima cosa da fare  è individuare e attivare una rete di relazioni; molto spesso accede che le realtà sono già organizzate e le risposte sono presenti, basta osservare e individuare, mentre la nostra mentalità interventista, ci porta a non vedere le potenzialità esistenti per poterci percepire indispensabili. Decido quindi di non buttarmi troppo in avanti, ma di passare per altre strade. Il pachistano che mi ha certato l’appartamento conosce molte situazioni ed è molto attivo nel quartiere, è veramente una risorsa per tanti immigrati, infatti scopro immediatamente che non solo conosceva la realtà di questa donna, ma si era in qualche modo già attivato. Nel giro di una giornata eccoci tutti insieme a parlare con la donna e cercare insieme soluzioni possibili.

Durante l’incontro non devo fare assolutamente nulla, sono solo una presenza rassicurante per la donna, mi conosce come educatore della scuola e per il corso d’italiano che abbiamo fatto insieme, mi sorride e sembra contenta della mia presenza, almeno così percepisco. Ho una grande possibilità, quella di ascoltare ed osservare, mi accorgo che lentamente emerge in questa donna la fatica e il peso di una situazione che in un altro contesto, quello del paese d’origine, avrebbe condiviso con altri della propria famiglia, il fatto poi di non comprendere la lingua non gli permette né di chiedere, né di avere quindi informazioni precise su come comportarsi, fa come può forse per istinto, questo lo dice e lo ammette con delicatezza. La malattia o la disabilità di un figlio è una fatica e una ferita per tutti, ogni cultura poi sviluppa una propria visione della malattia, dandogli un preciso significato, ma lei è qui in un altro contesto, in un doppio isolamento: fuori dalla sua cornice culturale e lontana dagli affetti famigliari. Mentre si parla cerco di osservarla, e in due o tre occasioni incrociamo lo sguardo, gli faccio cenno di non aver paura, gli faccio notare che non è sola e che stanno trovando il modo per aiutarla. Quanti pensieri terrà chiusi in sé, quante parole non dette, quante richieste nascoste. Mi chiedo come possa apprendere una nuova lingua, quando la sua mente è impegnata su altri fronti, come possa tirar fuori le risorse necessarie per integrarsi nel nuovo contesto, quando tutto rimane chiuso dentro e non c’è nessun canale per poterlo fare emergere; quest’aspetto della migrazione è poco visibile e poco considerato, ma per alcune donne immigrate è una dimensione molto presente nel loro vissuto, sono sentimenti non detti.
C’è anche del positivo e lo individuo subito: la rete di sostegno emerge immediatamente, è fatta di altre famiglie della stessa nazionalità, della disponibilità del servizio a coniugare la propria risposta con la realtà culturale della donna, fino ad arrivare al coinvolgimento delle insegnanti che immediatamente si trasformano in compagne di viaggio di queste donne. Mi piace sentirmi parte di questa rete, disperso tra gli altri, mi piace soprattutto della possibilità che mi è stata data di restare in silenzio e di essere una presenza amica; mi torna in mente un passaggio che ho scritto nel mio progetto di vita: “per me essere testimone del Suo silenzio significa amare alla Sua stessa maniera: abitando nel silenzio il mistero di ogni uomo” 
e l’abitare genera sempre un cambiamento.










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