lunedì 26 novembre 2012


Partecipando ad un incontro organizzato al Centro Culturale San Rocco a Fermo, ho potuto riscoprire un testimone della fede che ancora oggi ha molto da dire, un profeta che continua a provocare, a porre domande, a suscitare speranza, è padre Ernesto Balducci.
Dopo qualche giorno per posta elettronica, d.Mario mi spedisce questo documento, leggendolo mi sono convinto che quando le riflessioni sono autentiche e frutto dello sforzo di compromettersi fino in fondo con la realtà che si vive, allora le parole non restano vuote e superano il limite del tempo, restano attuali, perchè sono pronunciate da chi sa guardare nel cuore degli uomini, sono per questo parole di fede, sono parole profetiche:

DOBBIAMO VIVERE INSIEME
(Ernesto Balducci dal Secolo XIX del 26 gennaio 1992)

Il moltiplicarsi degli episodi di «razzismo» in tutta l'area occidentale (ma bisogna prepararsi: ne avremo presto anche nell'Est europeo, in fase rapida di omo­logazione) pone uno dei problemi radicali con cui deve confrontarsi ogni progetto politico, da quello di una semplice amministrazione civica a quello della Comunità europea. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle simbologie e dalle fraseologie, spesso antisemiti­che, che rimandano al razzismo ideologico hitleriano. Niente di strano che gli automatismi del razzismo prebellico continuino a funzionare: essi forniscono l'orizzonte immaginario di maniera a cui ricorre preferibilmente l'incultura. Ma l'impianto della nuova forma di razzismo, che io chiamo «fascismo etnolo­gico», e, a mio giudizio, del tutto diverso.
Esso ha radici nell'ancestrale paura del diverso, e trova le sue ragioni immediate nella difesa della con­dizione di privilegio minacciata dall'arrivo di nuovi ospiti, gli immigrati dal ,Sud. Essi non sono più gli immigrati di altri tempi, destinati prima o poi all'assi­milazione dentro la cultura che li accoglieva. Quando essi arrivano, trovano già uno spazio culturale omoge­neo a quello d'origine. Il fatto nuovo è che la società capitalistica, in forza della stessa legge di mercato che ha fatto la sua fortuna, è costretta a ospitare vere e pro­prie comunità etnicamente aliene dalla sua cultura. [...]
Io sono tra quelli che ritengono inevitabile e, alla fine, provvidenziale un'Europa multietnica, ma mi rendo conto che questa previsione è un lusso da intel­lettuale, che rischia di mettere a pié pari la dramma­ticità del processo che la metamorfosi presuppone. E infatti il processo non avviene all'interno di una cul­tura della solidarietà, come quella che, grazie a Dio, sta crescendo negli ambienti cristiani; avviene den­tro una cultura della competizione, giunta al massi­mo della sua diffusione. I protagonisti degli atti di neorazzismo sono infatti quasi sempre dei «balordi», che recepiscono e trasmettono a livello istintuale una provocazione che andrebbe mediata da una cultura illuminata. Sono i prodotti tipici della «pedagogia» televisiva, in cui dominano i forti e i bravi; in cui, per dirla tutta (penso agli spot televisivi), il model­lo d'uomo è un mammifero vorace, dai muscoli effi­cienti, pronto al successo quale che sia.
Questa ideologia, svuotata di ogni lume di ragione, fa presa con la voglia di affermazione il cui sbocco preferito appunto, l'atto aggressivo contro il diverso. Infatti, se si spoglia l'uomo di ogni struttura cul­turale resta in lui la paura dell'altro, la percezione che la propria identità e messa in rischio dalla presenza dell’alterità.
Che siano, in molti casi, i poveri, i disoc­cupati, i sottoproletari, gli emarginati di casa nostra a farsi protagonisti di gesti deplorevoli non deve far meraviglia: sono proprio gli incolti a subire i riflessi di insicurezza causati dalla presenza dei diversi. Con una proiezione elementare essi riversano su chiun­que rappresenti la diversità, magari con il colore del­la pelle, la brutale aggressività con cui scongiurare la paura, capovolgendola nel trionfo. La bravata li sol­leva subito al rango degli uomini di successo, i veri eroi della cultura dominante.
Detto questo, mi si permetta di definire col mas­simo della semplicità la questione etico-politica sol­levata dalla cronaca del neorazzismo in un momen­to come questo, in cui l'Europa, a dispetto dei suoi trionfi, soffre di una drammatica assenza di proget­tazione del proprio futuro. Dato per scontato che la presenza dei gruppi etnici diversi dal nostro si farà più massiccia, si aprono due vie: quella della lenta assimilazione, di modo che in una o due generazioni gli immigrati diventino in tutto come noi, fuori che nel colore della pelle; o quella della convivenza tra gruppi etnicamente e culturalmente diversi. Come ho detto, io credo che la via giusta — una via che ci porta oltre il mondo moderno, in una postmoder­nità dal profilo inafferrabile — sia quella della convivenza. Ma se questo è vero, dobbiamo affrettarci a predisporre gli strumenti necessari — a cominciare dalla scuola — perché questo futuro si avveri sen­za traumi. Sarà anche giusto mettere in prigione i balordi dalla testa rapata, ma quel che occorre è una rapida instaurazione della cultura della diversità. Le culture che si chiudono su di se sono condannate a morire. La nostra non fa eccezione.

Nessun commento:

Posta un commento