Per mesi tutte le mattine appena alzato avevo preso
l’abitudine di accendere whatsapp, non certo per sentirmi alla pari con gli
adolescenti digitali, né tanto meno per riconnettermi con il mondo dopo essermi
sprofondato nel cuscino per una lunga notte, nulla di tutto questo, accendevo
whatsapp semplicemente per vedere le “cartoline” colorate e luccicanti in
maniera eccessiva, che mi arrivavano dall'India. Si, per più di tre mesi, puntuali e rigorosamente diverse mi sono
state spedite delle immagini con la scritta “Good Morning” dal mio amico e
vicino di casa indiano, che finalmente aveva potuto concretizzare il suo
desiderio di ritorno a casa e conoscere suo figlio, nato da appena un anno. In
molte occasione ho ascoltato e custodito la sua fatica di diventare padre e non
poter materialmente abbracciare il proprio figlio, la fatica di un desiderio
portato in totale solitudine, il peso di accettare una distanza fisica che si
tingeva di rabbia quando la mancanza di soldi ostacolavano ogni possibilità di
acquisto del biglietto di volo. Non posso minimamente immaginare quello che un
uomo può provare nel suo intimo, quale dolore sordo lo abita e quanto crudele possa
essere l’impotenza che si prova in certe
situazioni, ho sempre cercato di ascoltare il più possibile, di limitare le
parole di conforto e vivere il mio silenzio come accoglienza profonda; ho sempre provato, questo si, uno sconfinato
rispetto per la dignità e la capacità di resistenza del mio amico, per quel suo
essere comunque fedele alla sua storia, accogliendo il concreto della vita
senza rassegnazione o disperazione, reagendo con un sguardo speranzoso che gli
dava la certezza che prima o poi sarebbe
riuscito a mettere insieme i soldi necessari per rientra a casa e stare con suo
figlio. Mi risuonava il suo dolore sordo, mai il suo lamento, la resistenza per
non spezzarsi, mai lo scoraggiamento, lo
sguardo rivolto all'orizzonte mosso dalla certezza che prima o poi il desiderio
trova accoglienza: “è Dio che mi darà una mano” mi ripeteva. Lui mi affidava
questi suoi vissuti perché si sentiva sostenuto dal mio ascolto e dalla mia
vicinanza, “so che ci sei tu nell'appartamento sotto e questo mi fa stare
contento” mi diceva, ed io mi sentivo accompagnato, trasformato, provocato da
quel suo gesto semplice di fiducia: aprirmi la porta e consegnarmi il suo
quotidiano. Il Vangelo mi ha sempre ricordato che non si è maestri, ma
fratelli, è in questa dimensione relazionale che si coglie la dinamicità della
vita, si sperimenta la moltiplicazione del nutrimento reciproco, conservandone
sempre ceste in avanzo, buone nei tempi di carestia relazionale.
Non so se è mai realmente possibile entrare nel vissuto di
una persona, forse non è nemmeno
salutare farlo, il rischio potrebbe essere quello di occupare uno spazio
e di invadere un vissuto; c’è una soglia che non si può mai varcare, si può per
contro restare sull'uscio o meglio dietro una porta socchiusa ed ascoltare
completamente muti e con il respiro trattenuto,
i suoni che il mistero dell’altro generano nella sua parte più nascosta
ed inaccessibile. Si vive l’impotenza di
poter agire, si accoglie e si abita la realtà del limite, la chiarezza del
confine e il mistero di una persona.
L’umanizzazione della nostra vita passa allora non tanto
nell’essere utili agli altri, ma nel perdere giorno dopo giorno la pretesa di
sentirsi importanti per gli altri;
nell’entrare in punta di piedi nel vissuto di chi incontriamo, ci si trova
allora lentamente spogliati, semplificati, invitati a lasciare, piuttosto che
“attrezzarsi” per saper stare nella relazione. C’è un vero mistero ed è
l’insieme della storia e dell’esperienza di chi ci permette di essere ospiti nel
proprio vissuto e questo mistero si può sfiorare, guardare, ascoltare
accogliere solo da “poveri”.
Nel tempo della velocità, delle competenze multitasking,
della ricerca spasmodica della continua novità, del tutto e subito, mettersi nell'ottica lenta e senza tempo del “perdere per incontrare” può risultare
incomprensibile, eppure sento la necessità profonda di avventurarmi con
decisione in quest’ottica dell’esistere e decidere con passione che vale la
pena lasciarsi accompagnare dall'altro in un continuo decentramento da sé.