mercoledì 25 settembre 2013

Il libro...verde

Questa mattina avvicinandomi alla mia libreria mi cade lo sguardo su un piccolissimo libricino verde, è lì da un anno, da quando ho fatto il trasloco e sono arrivato in questa nuova casa, mi incuriosisce perché in effetti non ricordo assolutamente il suo contenuto. Apro, osservo la mia scrittura decisamente ordinata, sbircio velocemente e noto che sono una serie di pensieri numerati, sembra avere lo stile della “bella copia”. Spontaneamente sorrido, ma è piuttosto legato al ricordo che subito emerge , quasi a rivivere dopo un lungo letargo; in effetti pur non avendo la data, so bene che il contenuto l’ho scritto nel 1999, dopo il rientro dalla Francia e all’inizio del mio percorso qui a Fermo. Nero su bianco ho cercato di scrivere quale era il mio desiderio di vita, la mia scelta, una sorta forse di “regola di vita”? probabile, anche se non ho mai amato questa terminologia, preferisco “progetto di vita”.  Nonostante l’esame che incombe, non posso perdermi questo piacere: sedermi per terra e leggere. C’è veramente tutto quello che in questi anni ho cercato, desiderato, messo in dubbio, rafforzato, difeso, tutto quello per cui mi sono appassionato e che ha caratterizzato fortemente la mia vita. Continuo a leggere e ad ogni frase emerge anche un ricordo, l’immagine di un incontro, la forza di un’esperienza, la durezza di un errore, mi accorgo che forse inconsapevolmente quello che cercavo di fare in quel momento, era evidenziare le tracce lasciate lungo il mio cammino per evitare che qualcosa andasse perso, ma soprattutto la consapevolezza che le proprie scelte non vengono astrattamente dall’alto, ma germogliano lentamente ai margini della strada percorsa. Più entro nella mia storia personale, più cerco di scorgere le sfumature vissute, gli incontri, le relazioni e  più emerge, senza nessuna forzatura, il senso di quanto ho avuto in dono di vivere. Ed è questo che apre il cammino. Lo apre ancora oggi e lo rende concreto, saporito, appassionato.  

Oggi ho un “progetto di vita”, che racchiude il senso della mia scelta, è un po’ un ponte tra quanto ho sperimentato e interiorizzato in questi anni e quanto desidero ancora vivere, è il passato che prende per mano il futuro per spingerlo in avanti, sono le parole per dire che quanto ho vissuto, è stato proprio bello, per questo scelgo ancora di viverlo impastandolo con quello che verrà. Nel libricino verde rintraccio due parole fondamentali: silenzio e relazione. Possono sembrare in contraddizione tra loro, non conciliabili, come se  l’una escludesse l’altra, eppure sono intrecciate profondamente tra loro, non sono nemmeno due facce della stessa medaglia, sono lo stesso lato della medaglia, meticciate e ben distinte. Il silenzio nutre ogni relazione capace di intimità e vicinanza, il silenzio nella relazione evita l’invasione, il superamento prepotente dei confini, smaschera il desiderio di possedere e utilizzare l’altro. La relazione poi garantisce al silenzio di non cadere nella solitudine, nella fuga, nel vuoto, nell’autoreferenzialità, nel bastare a se stessi. La relazione e il silenzio ci mettono nella condizione di “sconfinare”, di andare oltre, senza arrivare per primi, ma arrivare sempre con altri. Oggi personalmente non riesco più a distinguere se questa dimensione della “relazione e silenzio” appartiene alla sfera dei rapporti umani, o al mio  rapporto con Dio, sinceramente non mi interessa nemmeno più distinguerli: nel cuore di Dio e nel cuore degli uomini non per rintracciare distinzioni ma per immergersi in una pienezza.

amedeo.angelozzi@tiscali.it


domenica 8 settembre 2013

Veglia per la Pace

Lettere delle monache Trappiste di 'Azrei in Siria

Cani muti

Veglia per la pace
“Non possiamo essere cani muti”, scriveva Charles de Foucauld addirittura ai parlamentari francesi, di fronte alla  tolleranza che la sua nazione mostrava in relazione  al fenomeno della schiavitù, che lui ben vedeva in Algeria; di fronte alla violenza e al sopruso, non si può restare indifferenti. Ogni violenza, ogni azione di potere, va smascherata, va denunciata, anche quella che si veste con la “divisa” dell’intervento umanitario, e su questo le parole di Francesco in piazza San Pietro sono state immediate, decise, senza nessun tipo di sfumatura che desse spazio a interpretazioni di comodo. Quando ad intervenire sono le armi, il linguaggio di fondo è la morte e la distruzione dell’altro, con un orizzonte di senso del genere, non si potrà mai costruire una relazione che porti vita, che crei reciprocità, che sappia accogliere la diversità, che faccia dell’incontro delle differenze  il segno della vita che scorre e si sviluppa nella sua pienezza. Credo che prima di tutto si tratti di chiamare per nome gli atteggiamenti, le azioni compiute, le responsabilità, svelare le logiche di fondo delle azioni intraprese e non rimpallarsi la responsabilità o peggio ancora, sviare l’attenzione su chi ha compiuto il gesto più violento o brutale. Non ci sono limiti in questo, non ci sono misure, non c’è un massimo di sopportazione: ci sono logiche che hanno nel loro cuore la promozione e il benessere della comunità e logiche di potere che hanno per obiettivo  il controllo, la sopraffazione, l’imposizione del proprio ordine e del proprio sistema. Lo ha ripetuto il papa, ma non sono sue parole, potrebbe anche averle dette senza essere papa, perché ha semplicemente ripetuto quello che nel Vangelo è stato scritto da secoli: la logica del Regno e quindi di Dio è la fraternità, che non ha nulla a che vedere con atteggiamenti buonisti o naif, che rischiano di sfociare nel fanciullesco e nel banale ( e in questo noi cristiani siamo stati efficacissimi nel svuotare di senso il messaggio di Gesù, direi di disinnescarlo), ma è la logica della giustizia, dell’equità , dell’affermazione della dignità di ognuno a partire dal più piccolo. E’ un cammino lungo a mio parere, è una sfida continua, perché a me sembra che questa logica e questa prospettiva del vivere, metta radicalmente in discussione quello che stiamo facendo  a livello planetario, nazionale, fino al nostro piccolo quotidiano. Non si tratta di banalizzare le relazioni, non basta dire: “dobbiamo volerci bene”, perché quando si è dalla parte di chi subisce, queste parole risuonano come un’ulteriore sferzata ed umiliazione, si tratta al contrario di crescere nella libertà di saper chiamare le proprie responsabilità per nome, e chiamarle apertamente di fronte all’altro. In Sud Africa nel periodo del dopo Mandela, è stato istituito un tribunale per la riconciliazione, un lungo lavoro alla ricerca della verità, con lo scopo di mettere in luce i fatti;  vittime e carnefici, uno di fronte all’altro, gli uni di fronte alla storia, al vissuto, all’ esperienze dell’altro, per saper chiamare per nome quanto era accaduto, ognuno per la sua parte.

 C’è un interessante film su questo processo di riconciliazione, non ricordo il titolo purtroppo, ma mi ha colpito una scena: un vecchio dopo aver raccontato le violenze subite, si gira e guarda negli occhi i responsabili delle sue vessazioni e dice loro: se non mi dite perché lo avete fatto, come posso perdonarvi?. Personalmente mi sento vessato e indignato da quello che dicono i potenti delle nazioni, perché continuano a mascherarsi da lupi e agnelli, ma mai rinunciano al loro potere, che dicono esercitare in nome e per il bene del loro popolo; nessun uomo o donna, nessun minore, chiede di essere messo nelle condizioni di guerra che vediamo quotidianamente, nessun popolo chiederebbe di essere nutrito di rabbia, odio, disprezzo per un altro popolo o realtà culturale o religiosa, è come dire che gli uomini e le donne che si sentono appartenenti ad una comunità,  chiedessero di vivere in una continua tensione e paura dell’altro. Non ho mai delegato nessuno a nutrirmi di odio. La veglia a Roma mi ha colpito profondamente per due aspetti: il primo il profondo silenzio, posso assicurare che era intenso e forte, mi viene da dire che esprimeva il desiderio di “chiarezza”, ossia dire chiaramente da quale parte stiamo, non riferita alle fazioni, ma alla logica dei rapporti umani che desideriamo tra nazioni e popoli;  il secondo aspetto  credo che sia stato ancora più profetico, non eravamo lì per fare un sacrificio che ammorbidisse il cuore di Dio e in tal modo si prendesse Lui la responsabilità e il potere di far cessare le guerre, Dio non ha il cuore duro che può essere ammorbidito dalle nostre rinunzie o flagellazioni, è ancora un pensiero perverso di Dio questo, eravamo lì perché la Parola di Dio ci grida e consegna  una responsabilità ben precisa: “ Caino dov’è tuo fratello?”

amedeo.angelozzi@tiscali.it


lunedì 2 settembre 2013

Il riso mancato

ORE 23.33…se metto anche solo una mollica in bocca esplodo. Mentre in macchina rientro a casa dopo aver cenato con amici, mi raggiunge al cellulare il mio vicino pakistano: _ “ maestro Amedeo, sei a casa, ti porto il riso!”. Beh il tono è scherzoso, “maestro” è ormai un modo simpatico anche per chiamarmi, identificarmi, in effetti mi aveva promesso il riso due giorni fa, tanto che con la persona che avevo a casa come ospite abbiamo gioito per il fatto che non dovevamo preoccuparci della cena, invece?... alle 22.30 ancora nulla, a quel punto soluzione decisamente di cultura italiana: spaghettata. Questa sera invece il riso è pronto in tempo e si scusa perché non aveva mantenuto la promessa, del resto i tempi della preparazione si erano allungati e non gli sembrava il caso di disturbarmi quando ormai era molto tardi, ma questa sera sono ospite a casa loro, tutti uomini, più o meno parenti che dopo una giornata di visite e incontri tra amici connazionali, ecco che finalmente mangiano. Siamo seduti per terra, piatto abbondante, salsina di yogurt con menta e non so cos’altro, carne di pollo. “La moglie di un mio amico ti conosce e mi ha detto che piace a te riso con colori, quello dolce, vero?”  bene, penso tra me, mi sto facendo una bella reputazione; capisco immediatamente che si tratta di una mamma della scuola, una giovane donna, laureata, che ho conosciuto quando non parlava assolutamente italiano, poi coinvolgendola a scuola ha avuto il desiderio di apprendere la lingua e così corso dopo corso, ora è riuscita a sostenere anche l’esame d’italiano B2, e si esprime decisamente bene. Occorre andare molto al di là di quello che appare per scorgere persone con potenzialità, desideri e capacità che non immaginiamo o che semplicemente i meccanismi di semplificazione e stereotipi ci impediscono di vedere, e questa donna è sicuramente una di quelle. Lo scambio che abbiamo avuto mi ha permesso di allargare il mio sguardo, di allenare i miei occhi ad andare oltre, sempre oltre, senza cedere alle semplificazioni opposte, ossia al pericolo dell’esotismo, in cui tutto ciò che è straniero è bello. Scopro sempre di più come sia necessario non giungere mai a conclusione, non dire mai “ora ho compreso”, c’è sempre un passo ulteriore da compiere. La complessità va rispettata per quello che è, si caratterizza sempre per  sfumature e tonalità differenti. Non possiamo fare a meno della “complessità” pena l’esclusione dalla possibilità di incidere in questo tempo, essa ci richiede un cambio di mentalità profondo e a mio parere ci chiede prima di tutto di cambiare posizione: dall’individualismo, al senso di comunità, di appartenenza reciproca. Se ci apparteniamo reciprocamente, allora non smetteremo mai di conoscerci, di meravigliarci, di consegnarci reciprocamente lo spazio perché in ognuno la vita si realizzi in pienezza. Ogni volta scopro che il mio comprendere è limitato, che vedo quello che desidero vedere, che rischio di leggere la realtà per come la immagino o la desidero, non per quello che essa è realmente, sento che devo avere questa profonda consapevolezza, per evitare voli pindarici e false idealizzazioni;  mentre la quotidianità, il restare qui anche nel silenzio, nella presenza discreta, nel tessere relazioni con lentezza, con pazienza, anche il non fare assolutamente nulla, tutto questo mi permette di entrare nelle pieghe di questa complessità, spingendomi ad andare oltre, credo che alla fine noi siamo “quell’oltre” gli uni per gli altri, se le nostre relazione non sono caratterizzate dall’uso oggettivo che facciamo di chi ci sta accanto. 
San Damiano Assisi

Scrive Enzo Bianchi: “Il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’alterità, per farne risuonare la parola e, al tempo stesso, ci dispone all’ascolto intelligente, al parlare misurato, al discernimento di ciò che brucia nel cuore dell’altro e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello”. Dopo la serata che ho vissuto,  e altri incontri di questa settimana, mi piace chiudere la giornata con queste parole di Bianchi, mi indicano la direzione ancora da percorrere, mi riscaldano il cuore, mi motivano, mi spingono ad appassionarmi ancora una volta alla mia scelta, alla mia storia; accendo una piccola candela in cappellina e mentre finalmente questa sera c’è più silenzio nel quartiere, mi piace accompagnare nel cuore di Dio tutta questa strana, colorata, complessa umanità…e spero di digerire il riso con tutto il resto.
amedeo.angelozzi@tiscali.it