giovedì 24 dicembre 2020

Natale 2020

 


Finalmente un po’ di tregua, stiracchio il tempo perché non è sollecitato dagli impegni e dalle scadenze, approfitto del  divieto di movimento per  trasformare ancora una volta il mio piccolo appartamento in eremo di città, del resto lo è sempre stato, è così che l’ho voluto abitare sin dall’inizio, sapendo che “un eremo non è un guscio di lumaca” come titola  Adriana Zarri un suo libro e se poi lo si va a costruire nel cuore di un quartiere popolare, diventa come una spugna che si inzuppa di umanità.

Mi rintano a casa pensando di poter chiudere fuori pensieri e sensazioni, parole date in custodia da chi ho incontrato e fatiche che mi sono state condivise per renderle magari più accessibili, eppure questa operazione non riesce quasi mai. Il distanziamento dall’umano donato è un operazione decisamente pericolosa, è come una spugna che evitando di inzupparsi, rinsecchisce e si sbriciola.

La delicatezza della Sua presenza mi accoglie ogni volta che chiudo la porta, una sorta di attesa, di sorriso compiacente, il Silenzio abitato da Lui che improvvisamente mi abbraccia, sa ordinare sapientemente volti, parole e vissuti che fino a quell’istante convivevano disordinatamente,  ognuno e ogni cosa trova il suo posto nel mio sentire profondo, così quell’ordine interiore non è meticolosità, né manipolazione, ancor meno classificazione, né tantomeno “sano” distanziamento, è semplicemente interiorizzazione, nutrimento, grembo fecondo, è possibilità di irrompere disarmato nella vita.

Dilata il Signore la mia anima e il mio spirito esulta presso Dio”, mai esperienza fu più dirompente e pericolosa, nulla di tenero e sentimentale in queste parole, è piuttosto uno scardinamento, uno spezzare certezze e frantumare barriere, lasciare le sicurezze afone e sterilizzanti per una incertezza generativa: se dilati il tuo abitare vuol dire che nessuno e nulla, può essere indifferentemente lasciato fuori dal tuo perimetro vitale.

E’ il dinamismo di Dio, totalmente riversato senza risparmiarne un grammo,  nel cuore dilatato del femminile libero e liberante di Maria (altro che madonnina): quando l’umano si dilata e lascia che l’Altro frantumi ogni confine, allora l’umanità si genera coniugando vita e vita in pienezza.

Per me oggi Gesù è la follia concreta e visibile di un Dio totalmente riversato nel cuore dell’uomo un Dio sprecato, perché non ha fatto calcoli, tirato somme, né progetti su “spesa /guadagno”, è un Dio gettato a piene mani con il solo desiderio profondo di raggiungermi lì dove sono.

Lo Spirito Santo si accosterà a te e il dinamismo dell’Altissimo ti avvolgerà come ombra”.

 


domenica 6 settembre 2020

Un passo indietro all'in-principio

 


La solitudine non è mai stata per me un peso insormontabile, è stata compagna ed amica discreta lungo tutto il mio esistere. Accarezzata e coccolata, cercata ed amata, temuta in alcuni momenti, curata e sposata in altri. La solitudine è il tratto più esplicito della scelta celibataria, non è il centro né lo scopo, è piuttosto il luogo, lo spazio o se volete il talamo nuziale, l’espressione più intima di un esistere che si immerge nelle dinamiche di una relazione. La solitudine per me è e resta abitata. Se getto in dietro e il più lontano possibile nei ricordi il mio sguardo, trovo le sue tracce e la sua compagnia in molti istanti della mia vita, essa non è mai mancata;  la consapevolezza legata a questa constatazione di fatto non mi rattrista, né mi fa sorgere rammarico, è piuttosto una carezza delicata, un soffio leggero. È la stessa sensazione che si prova quando chiudi delicatamente gli occhi e ti abbandoni a un sussurro che ti arriva all’orecchio, senti la pronuncia magari di una sola parola, dirompente e carica di vita, forte e decisa, che ti destabilizza e genera.

La solitudine è femminile, perché grembo, relazione, spazio, fuori dalla logica del possesso, spinge in avanti, lascia andare senza trattenere. Nel tempo della maturità si coglie e accoglie anche questa parte di sé.

C’è poi anche una solitudine tiranna, tutt’altro che piacevole e auspicabile nella propria vita. È vuoto assoluto, voragine ingorda, assenza di vita, priva dell’ eco della voce dell’altro, sorda e incapace di generare. Consuma e impoverisce, riduce lo sguardo o lo imprigiona nel poco. E’ una solitudine dis-abitata. È l’assenza dell’altro, l’inospitalità che si regge sulla diffidenza. Anche questa potrebbe essere presente nella vita di un celibe, è nelle sue mani tanto quanto l’altra, più essere nutrita e curata quanto giustificata e radicata.


Nell’in-principio” posto a fondamento della narrazione del libro della Genesi, Dio è capace di un pensiero generativo fatto di contrasti e opposti, è ponendo in essere il “di fronte” o il “suo contro”, che genera vita, che fa spazio all’inatteso, all’impossibile, che mette al mondo non un “già fatto per sempre” ma un “per sempre di generatività”: notte e giorno, sole e luna, mare e terra, maschio e femmina.

Nella “solitudine abitata” il processo, la spinta e il movimento è ciò che ti radica nell’essere “di fronte”.

Si è soli di fronte all’altro, eppure nel guardarsi si può vedere e conoscere se stessi e questo è un processo che genera.

In questo trovo il motivo fondante di quello che ho voluto chiamare “voto di relazione”, la mia Alleanza con Dio si nutre e radica in questa ricerca costante di essere “di fronte”, di non fuggire mai questa dimensione della vita umana, di curarla e cercarla come tratto umanizzante, come il luogo della presenza di Dio e la possibilità unica di creare fraternità, anche quando si presenta nei tratti del conflitto e della fatica. Non lo si apprende da soli questo passaggio, non ci si arriva per un eroismo personale, tantomeno attraverso semplici esercizi di volontarismo (l’esercizio della volontà è altra cosa), ci si arriva anche qui “accompagnati” e attraverso il dono di amicizie e incontri inaspettati, liberi e freschi, gratuiti e coltivati delicatamente. Questo genere di amicizie, quanto meno te lo aspetti, ti fanno dono di parole e sguardi che appartengono certamente a loro, ma non sono di loro proprietà, parole e sguardi che hanno il sapore di una originalità da marchio “DOC” riconoscibilissimo, ma nel gusto che ti trasmettono nutrendoti, scopri il retrogusto dei loro tanti incontri e dell’avventura che hanno vissuto nell’inatteso della loro vita.

Le pagine che ho letto e leggo in questi giorni, sono scritte proprio da due di questi amici, le loro parole nate prima nell’inatteso della vita e dei sentimenti, hanno trovato man forte nella loro sensibilità e nella passione e capacità, di leggerle e rileggere le esperienze con il desiderio di comprenderle, poi si sono trasformate in narrazioni e quindi hanno trovato un senso e ancora più senso, se si vuole, quando sono state consegnate e travasate negli orecchi di altri.


Come una bambina” e “Zero tre, prefisso di paternità”, narrazione di due uomini che si lasciano umanizzare dalla scelta di essere mariti e poi padri, sono oggi per questo mio tempo, ciò che più ha provocato  uno squarcio di ulteriore passione nella mia scelta di celibe e piccolo fratello, in una dinamica d'integrazione delle parti.

In un tempo culturale così impoverito, trovarsi in compagnia di esperienze che non si pongono ad esempio, che non sono dettate da protagonismi o narcisismi, ma hanno semplicemente  il gusto di entrare nella vita a piene mani, ecco tutto questo mi rende speranzoso, mi ridona sorriso, mi commuove e mi getta nella vita.

E’ così che Dio continua ad accarezzarmi.  



Le prime due foto sono di Andrea Iualè


domenica 23 agosto 2020

Frequentazioni pericolose

La scelta di vivere in un contesto sociale ed umano nelle periferie complesse, è diventato negli anni una vera e propria esigenza legata al mio processo di umanizzazione, verso cui è sempre bene, ad ogni modo,  fare attenzione, ponendo a sé continue e insistenti domande, nella postura dell’ascolto che smaschera la fragilità che si veste di buoni intenzioni e sentimenti. Nel tempo ho potuto constatare come abitudini, sguardi, certezze, scelte non sempre sono fondate su motivazioni precise e chiare, in se sono anche gravide di mille sfumature, di contraddizioni e contrapposizioni, siamo veramente abitati da una storia e un esistere frastagliato, in continua evoluzione, siamo nomadi nel profondo, in ricerca di mille approdi per sfuggire alle tempeste. Non sempre però il porto è il luogo sicuro, il porto è fatto anche di acque stagnanti e di una bonaccia innaturale. La tempesta può essere generativa, evolutiva, fonte di cambiamento, ci sono tempeste interiori che non sono necessariamente frutto di ribellioni, potrebbero essere il grido profondo della vita che ha bisogno di generare vita; è il grido di un risveglio e il coraggio di non adeguarsi.

L’attrazione verso le periferie, il desiderio di essere parte del quotidiano di realtà umane complesse e definite “disagiate” (poi mi domando anche disagiate rispetto a chi), mi è stato sicuramente consegnato e stimolato dall’incontro con la storia e la vita di Charles de Foucauld, concretizzata poi nell’esperienza iniziale con i piccoli fratelli, che senza mezze misure mi hanno anche accompagnato nel passaggio dall’idealizzazione, all’impatto con la nuda realtà, entrambi mi hanno accompagnato ad abitare il vivere umano, quello ferito, affaticato, arrabbiato: abitandolo con gli occhi aperti, lo sguardo continuamente semplificato e liberato e con una sana concreta disillusione. Nessuna realtà, nessuna esperienza va idealizzata, l’idealizzazione è una trappala  molto subdola, è un laccio dolce che comunque nasconde un limite di movimento, perché è pur sempre un laccio e ancor più cela una dipendenza;  anche la mia scelta di vita, il mio stare qui piuttosto che altrove, lo schierarmi senza mai mettere in discussione quello che sento, vedo e penso, può essere un idealizzazione molto pericolosa, un lavoro lento e perverso di costruire muri e distinzioni, che separano i buoni dai cattivi, che contrappone e crea fratture e distanze. 

La fraternità chiusa, si rinchiude sul noi ed esclude chiunque sia straniero a questo noi; anche il nemico suscita la fraternità patriottica, ma la suscita evidentemente contro di lui, che spesso viene perfino escluso dall’umanità” E. MORIN 1. Anche la fraternità ha i suoi rischi e propone i suoi scivoloni. Per questo mi è ancor più necessaria oggi, ed è una parola profetica, che smaschera e quindi, urla, spoglia, spezza e destabilizza tutti, nessuno escluso.  

Sin dall’inizio, quando sono arrivato nel quartiere, il consiglio che mi è stato maggiormente elargito, con tono saggio e rassicurante, del tipo “fai così e vedrai che ti troverai benissimo”,  è stato quello di “farmi gli affari miei”. Interessante la presenza della parola “affari”, quindi legata al guadagno, al commercio allo scambio di convenienza e in seconda battuta, per assicurare il successo, la sottolineatura che gli affari siano esclusivamente “miei”, quindi scartare gli altri.  E’ questa la misura della relazione tra gli uomini? Sono queste le parole che generano vita nella propria storia personale, nella ricerca di una crescita umana? E dopo millenni di evoluzioni e rivoluzioni culturali di quest’occidente che decanta di se l’orgoglio di essere la culla della civiltà, questo è il punto d’approdo e la sintesi di un pensiero e percorso complesso? In fondo l’individualismo estremo e sempre più parte del DNA dell’uomo globalizzato non si rispecchia ed esprime in questa frase?

Sempre MORIN afferma che “libertà, uguaglianza, fraternità…questi tre termini sono complementari, eppure non si integrano automaticamente tra loro” 2, se le prime due, dice il pensatore si possono realizzare anche attraverso delle leggi, la terza, la fraternità “ non è possibile imporla tramite la legge”. Ed è questa ultima parola che scardina tutto, che fa verità sul nostro vivere quotidiano, dice dove veramente siamo e non dove narriamo di essere. Quotidianamente mi sembra di assistere ad un “gioco al massacro”, quel sottile piacere di demolire l’altro, deridere e svalutare, banalizzare e confutare a tutti i costi il pensiero dell’altro, ma non possiamo più essere ingenui su questo, sappiamo bene che alla fine se ne esce ammaccati tutti e il tornaconto finale è semplicemente un amarezza e una morte profonda, interiore e dal sapore irreversibile.

Ultimamente mi è successo più volte che i vicini, tutti immigrati e di differenti culture, mi chiedessero ad un certo punto se fossi italiano e quando chiedevo il motivo di questa curiosità, la risposta in tutti è stata: “perché sei una persona gentile, ridi e saluti” (chiaro che manca loro la conoscenza del mio carattere spigoloso). Interessante, l’immagine e l’idea che hanno costruito dell’italiano medio. Pregiudizi? Esperienze confermate nel tempo? stereotipi verso gli italiani? Capacità di cogliere una differenza nelle relazioni? Probabilmente tutto è presente in quella risposta, esattamente speculare al pensiero e alla reazione di un italiano rispetto a degli immigrati. Ciò che mi ha profondamente risuonato è: che relazione siamo capaci di costruire, che gesti, che sguardi mettiamo in movimento quando ci ritroviamo nella dimensione del “noi”. La fraternità può partire anche da questo minuscolo input e quando gli dai spazio essa diventa esigente e per nulla bucolica. Se dai seguito a quel micro secondo, il tempo che ha occupato la domanda, non puoi che ritrovarti nella sfida della responsabilità di costruire un “noi fraterno”. L’osservazione di questi vicini può essere, se accolta, l’occasione per consapevolizzare chi frequenti e soprattutto il “come” frequenti gli altri, cosa costruisci con gesti, posture e scelta di vita.


Quando termina la giornata, dopo aver nutrito lo sguardo dei colori del tramonto di questo fine agosto, ce ne sono di magnifichi in questo periodo, sento un attrazione profonda, un invito all’intimità con chi di domande ne fa tantissime, più dei miei vicini  e le propone in una dinamica di ascolto reciproco: sento il bello di mettermi in preghiera e stare con Lui. Faccio risuonare l’osservazione e il rimando ricevuto da chi ho incontrato, così nel cuore più profondo dello stare insieme, ne emerge un’altra di questione, antichissima ma non invecchiata:

Dov’è tuo fratello”,

questa è un’altra domanda che emerge da frequentazioni pericolose.


1. MORIN E. "La fraternità perchè?, resistere alla crudeltà del mondo", Ed AVE, Roma 2020, p. 15.

2. Ibidem, p.13

venerdì 15 maggio 2020

Domanda ingenua


Afferri velocemente le chiavi dell’auto, chiudi tutto e via sulle scale di corsa, spinto dalla fretta di raggiungere il prima possibile la tua meta. Metti in moto e parti, la strada sembra scorrere velocemente e sicura, sia bene dove vuoi e devi arrivare, lo vedi ben chiaro davanti a te il luogo che più hai amato, lo spazio dove ti sei rifugiato spesso, e quante volte gli hai consegnato pensieri, sogni e fatiche, sono tutti lì come un tesoro privato e nascosto sotterra.

In questi lungi giorni di solitudine forzata, tante volte nella fatica del tempo che scorreva a malapena, ho chiuso gli occhi e raggiunto con la mente e le immagini della memoria un  posto ben preciso, un luogo e uno spazio reale, che ben conosco, a cui ho consegnato inconsciamente un desiderio profondo. Con la fantasia ci sono tornato più di una volta in questo periodo, portando le nuove domande che la vita mi ha posto.

Nel silenzio e nella solitudine dei lunghi giorni, la ferma decisione di spegnere il chiacchiericcio inopportuno delle parole urlate, connesse tra loro dalla potenza della rete internet, ma sconnesse da qualsiasi buon senso, mi ha lentamente accompagnato nel cuore dell’intimità, di un intimità per me sempre abitata, un intimità che non può essere tale se non cuore di una relazione;  il ricordo di quello spazio fisico, ha lasciato lentamente il posto ad un altro reale: l’abitare me stesso; passione e cammino che il monachesimo ha sempre ben conservato e coltivato.

Un viaggio di ritorno, un approdo inaspettato che è preludio di altri orizzonti da esplorare e che in sé ti riconnette con quella profonda radice nomade dell’umano, che di esodo in esodo, figlio di Abramo il pastore errante, torna a casa e trova un abbraccio, porto sicuro per generare nuove partenze.

L’abbraccio per me è stato quel gratuito e inaspettato volto di Dio, quella sua strana fedeltà, testarda e tenera, irremovibile eppure leggera come un soffio di vento, perché puoi appoggiare la tua fatica e la tua fragilità su di essa, senza sentire la pressione di nessuna richiesta in contraccambio. Ad un certo punto ho sperimentato un Dio che mi chiedeva il permesso: posso?

Domanda da non confondere con l’ingenuità o con quel rispetto un po’ di rito e di buone maniere, da assumere per buona creanza quando si bussa alla porta di un amico, al contrario è una domanda scomoda, profonda e la risposta non può essere frettolosa.

Quello che percepivo come ritorno a casa, ha di colpo cambiato prospettiva con la semplice domanda di Dio; quel suo “posso?”, mi faceva notare che ero già a casa e che il vero ritorno era il Suo.

No, non era affatto una domanda ingenua la Sua.

Aprire la porta, lasciarlo entrare come ospite, senza aver avuto il tempo di riordinare, che poi molto spesso è solo nascondere velocemente  la polvere sotto il tappeto, ecco rispondere affermativamente a quel “posso è stato entrare nella dinamica del “fare spazio” e di “lasciarsi abitare”; nel momento che apri la porta e semplicemente stai con l’altro, l’essere reciprocamente ospite è l’avvio di un nuovo esodo fatto non in solitudine, ma nell'orizzonte del due. Questo abitarmi di Dio mi provoca, mi spinge non verso nidi sicuri, luoghi di pace interiore ieratica, trasforma piuttosto quel l’abitare sé stessi, in un apprendimento lento e appassionato di  quell'abitare l’umano e tutto l’umano, in te e soprattutto in chi ti è di fronte.

POSSO?” la domanda apparentemente ingenua di Dio è la provocazione più grande che possa rivolgerci.




giovedì 9 aprile 2020

Anche la tenerezza può far paura


Un gesto d’intimità profonda arriva sempre inaspettato e può succedere che prima dell’accoglienza dello stesso, istintivamente ci si blocchi o ci si ritiri come a difesa: la gratuità di un gesto di cura è una grande domanda ed una prova.

Se poi il gesto d’intimità passa attraverso il lasciarsi toccare, allora la difficoltà può aumentare, soprattutto se ci viene chiede di abbandonarci, non di controllare.

Ci sono parti del nostro corpo, come i piedi che hanno una loro intimità, difficilmente li lasciamo toccare da altri, o se avviene è per un enorme confidenza e una libertà di relazione che indica la fiducia e l’affidamento reciproco.

Proprio sui piedi Gesù si è chinato, sul camminare dell’uomo, sulle ferite provocate dalla strada, sulle parti più indurite.

Si è denudato prima di tutto, prima ancora di mettersi a lavare i piedi, si è spogliato.


Occorre essere liberi, trasparenti, segretamente se stessi di fronte agli altri, occorre anche essere in una situazione di vulnerabilità, per poter avvicinare i piedi dell’altro e lavarli: prendersene cura.

L’umanizzazione non credo che passa attraverso le conquiste e i successi, tanto meno nel raggiungere un livello di potere e riconoscimento, sono terreni viscidi e ambigui questi; l’umanizzazione al contrario, mi sembra di comprendere oggi, passa attraverso il gesto di tenerezza dell’altro, accolto in totale abbandono, in una fiducia condivisa.

Gesù si spoglia, dimentico di se stesso, del ruolo che gli viene riconosciuto all'interno del suo gruppo, e si prende cura di quei piedi che appartengono a persone concrete: i suoi  apostoli, gli stessi pieni con cui fuggiranno  lasciandolo solo, piedi che serviranno ad un altro per recarsi verso il luogo del tradimento: comunque li amò fino alla fine, non per merito ne per fedeltà di clan.

Dovrei lasciarmi lavare i piedi a Dio? Che strano rapporto con il trascendente. Dio si venera, Dio si teme, nel senso di paura, a Dio si donano sacrifici, Dio si rispetta e basta.

Mentre siamo ancora imbevuti di una mentalità religiosa del genere, Dio nel gesto di Gesù si spoglia, si china e si prende cura dell’umano.

Se solo fossi minimamente capace di lasciarmi toccare da questa tenerezza di Dio senza la necessità di controllarla, capirla e dargli per forza un significato.

Non prendere paura, va e follemente, fa lo stesso, non guadagnerai nulla, semplicemente diventerai.

Gv. 13, 1-15
Giovedì  Santo 2020






sabato 4 aprile 2020

Il tuo di fronte

L’isolamento forzato, la mancanza di contatto fisico che quando c’è rende l’umano una meraviglia e un prodigio.

Di fronte a tre settimane e più di totale solitudine la prima resistenza è stata quella di non iper-connettermi, alla ricerca spasmodica di video, azioni, attività, parole di tutti i generi, confuse e irrazionalmente messe insieme. Tutto mi è sembrato il tentativo di sfuggire la paura del nulla.
L’estrema solitudine mi ha disorientato, fatto perdere la cognizione del tempo, catapultato in un non luogo dove a fatica mi riconoscevo. Il bisogno fondamentale del volto dell’altro per ritrovarmi, sentire e umanizzarmi, non poteva trovare la soluzione in uno schermo  o video chiamata anzi li sentivo un’illusione ancora più dilaniante e perniciosa: sono perché sono in contatto con il “mio di fronte”.
Una debolezza estrema, una vulnerabilità pericolosa, il rischio di perdersi e non più ritrovarsi.
Eppure…

Non ho voluto sottrarmi a questo, non mi sono limitato alla superficie del mio sentire o percepire, probabilmente con la testardaggine di sempre ho voluto assaporare fino in fondo quello che sentivo, la fatica della mancanza, l’essere nudo di fronte a me stesso….e perdermi.
Una presenza discreta e decisa, un attendermi in fondo e un abitarmi passo passo, hanno con decisione chiuso i rumori di una società che per forza e prepotentemente ti impone di riempire il vuoto, ho voluto lasciarli fuori.
Ma il vuoto c’è, lo si incontra prima o poi, il vuoto va custodito, amato anche contestato, nel vuoto va fatto risuonare l’urlo e poi accolto il silenzio.

Il Signore Dio disse: non è cosa buona che il terrestre sia solo. Farò per lui un aiuto contro di lui” Gen 2,18

Non so se esagero ma è questo quello che percepisco di questo tempo,  una sorta di esperienza di ritorno alle origini, nella fatica sperimentata dalla mancanza di contatto il ritorno ai momenti più importanti delle relazioni vissute e da lì abitarle di nuovo, senza barriere, sconti e giustificazioni. Accompagnato dalla Tenerezza infinita, fare verità.
E rimettersi in cammino, con il silenzio che come grembo plasma di nuovo  il terrestre che è in me.

Entro così, a piedi scalzi, in questo tempo particolarissimo della Pasqua, che mi libera, mi denuda, mi chiede di andare a fondo e all’essenziale…verso dove? Non so, provo solo a tendere la mano.