La scelta di vivere in un
contesto sociale ed umano nelle periferie complesse, è diventato negli anni una
vera e propria esigenza legata al mio processo di umanizzazione, verso cui è
sempre bene, ad ogni modo, fare
attenzione, ponendo a sé continue e insistenti domande, nella postura
dell’ascolto che smaschera la fragilità che si veste di buoni intenzioni e
sentimenti. Nel tempo ho potuto constatare come abitudini, sguardi, certezze,
scelte non sempre sono fondate su motivazioni precise e chiare, in se sono
anche gravide di mille sfumature, di contraddizioni e contrapposizioni, siamo
veramente abitati da una storia e un esistere frastagliato, in continua
evoluzione, siamo nomadi nel profondo, in ricerca di mille approdi per sfuggire
alle tempeste. Non sempre però il porto è il luogo sicuro, il porto è fatto
anche di acque stagnanti e di una bonaccia innaturale. La tempesta può essere
generativa, evolutiva, fonte di cambiamento, ci sono tempeste interiori che non
sono necessariamente frutto di ribellioni, potrebbero essere il grido profondo
della vita che ha bisogno di generare vita; è il grido di un risveglio e il
coraggio di non adeguarsi.
L’attrazione verso le periferie,
il desiderio di essere parte del quotidiano di realtà umane complesse e
definite “disagiate” (poi mi domando anche disagiate rispetto a chi), mi è
stato sicuramente consegnato e stimolato dall’incontro con la storia e la vita
di Charles de Foucauld, concretizzata poi nell’esperienza iniziale con i
piccoli fratelli, che senza mezze misure mi hanno anche accompagnato nel
passaggio dall’idealizzazione, all’impatto con la nuda realtà, entrambi mi
hanno accompagnato ad abitare il vivere umano, quello ferito, affaticato,
arrabbiato: abitandolo con gli occhi aperti, lo sguardo continuamente
semplificato e liberato e con una sana concreta disillusione. Nessuna realtà,
nessuna esperienza va idealizzata, l’idealizzazione è una trappala molto subdola, è un laccio dolce che comunque
nasconde un limite di movimento, perché è pur sempre un laccio e ancor più cela
una dipendenza; anche la mia scelta di
vita, il mio stare qui piuttosto che altrove, lo schierarmi senza mai mettere
in discussione quello che sento, vedo e penso, può essere un idealizzazione
molto pericolosa, un lavoro lento e perverso di costruire muri e distinzioni,
che separano i buoni dai cattivi, che contrappone e crea fratture e distanze.
“La fraternità chiusa, si rinchiude sul noi ed esclude chiunque sia straniero a
questo noi; anche il nemico suscita
la fraternità patriottica, ma la suscita evidentemente contro di lui, che
spesso viene perfino escluso dall’umanità” E. MORIN 1. Anche la fraternità ha
i suoi rischi e propone i suoi scivoloni. Per questo mi è ancor più necessaria
oggi, ed è una parola profetica, che smaschera e quindi, urla, spoglia, spezza
e destabilizza tutti, nessuno escluso.
Sin dall’inizio, quando sono
arrivato nel quartiere, il consiglio che mi è stato maggiormente elargito, con
tono saggio e rassicurante, del tipo “fai così e vedrai che ti troverai benissimo”, è stato quello di “farmi gli affari miei”.
Interessante la presenza della parola “affari”, quindi legata al guadagno, al
commercio allo scambio di convenienza e in seconda battuta, per assicurare il
successo, la sottolineatura che gli affari siano esclusivamente “miei”, quindi scartare
gli altri. E’ questa la misura della
relazione tra gli uomini? Sono queste le parole che generano vita nella propria
storia personale, nella ricerca di una crescita umana? E dopo millenni di
evoluzioni e rivoluzioni culturali di quest’occidente che decanta di se l’orgoglio
di essere la culla della civiltà, questo è il punto d’approdo e la sintesi di
un pensiero e percorso complesso? In fondo l’individualismo estremo e sempre
più parte del DNA dell’uomo globalizzato non si rispecchia ed esprime in questa
frase?
Sempre MORIN afferma che “libertà,
uguaglianza, fraternità…questi tre termini sono complementari, eppure non si
integrano automaticamente tra loro” 2, se le prime due, dice il pensatore si
possono realizzare anche attraverso delle leggi, la terza, la fraternità “ non
è possibile imporla tramite la legge”. Ed è questa ultima parola che scardina
tutto, che fa verità sul nostro vivere quotidiano, dice dove veramente siamo e
non dove narriamo di essere. Quotidianamente mi sembra di assistere ad un “gioco
al massacro”, quel sottile piacere di demolire l’altro, deridere e svalutare,
banalizzare e confutare a tutti i costi il pensiero dell’altro, ma non possiamo
più essere ingenui su questo, sappiamo bene che alla fine se ne esce ammaccati
tutti e il tornaconto finale è semplicemente un amarezza e una morte profonda,
interiore e dal sapore irreversibile.
Ultimamente mi è successo più
volte che i vicini, tutti immigrati e di differenti culture, mi chiedessero ad
un certo punto se fossi italiano e quando chiedevo il motivo di questa
curiosità, la risposta in tutti è stata: “perché sei una persona gentile, ridi
e saluti” (chiaro che manca loro la conoscenza del mio carattere spigoloso). Interessante,
l’immagine e l’idea che hanno costruito dell’italiano medio. Pregiudizi? Esperienze
confermate nel tempo? stereotipi verso gli italiani? Capacità di cogliere una
differenza nelle relazioni? Probabilmente tutto è presente in quella risposta,
esattamente speculare al pensiero e alla reazione di un italiano rispetto a
degli immigrati. Ciò che mi ha profondamente risuonato è: che relazione siamo
capaci di costruire, che gesti, che sguardi mettiamo in movimento quando ci
ritroviamo nella dimensione del “noi”. La fraternità può partire anche da
questo minuscolo input e quando gli dai spazio essa diventa esigente e per
nulla bucolica. Se dai seguito a quel micro secondo, il tempo che ha occupato
la domanda, non puoi che ritrovarti nella sfida della responsabilità di
costruire un “noi fraterno”. L’osservazione di questi vicini può essere, se
accolta, l’occasione per consapevolizzare chi frequenti e soprattutto il “come”
frequenti gli altri, cosa costruisci con gesti, posture e scelta di vita.
Quando termina la giornata, dopo
aver nutrito lo sguardo dei colori del tramonto di questo fine agosto, ce ne
sono di magnifichi in questo periodo, sento un attrazione profonda, un invito
all’intimità con chi di domande ne fa tantissime, più dei miei vicini e le propone in una dinamica di ascolto reciproco: sento il
bello di mettermi in preghiera e stare con Lui. Faccio risuonare l’osservazione
e il rimando ricevuto da chi ho incontrato, così nel cuore più profondo dello stare insieme,
ne emerge un’altra di questione, antichissima ma non invecchiata:
“Dov’è tuo fratello”,
questa è un’altra domanda che
emerge da frequentazioni pericolose.
1. MORIN E. "La fraternità perchè?, resistere alla crudeltà del mondo", Ed AVE, Roma 2020, p. 15.
2. Ibidem, p.13