domenica 14 settembre 2014

Il buon giorno si vede dal mattino


Alzarsi al mattino e vedere la splendida giornata di sole che irrompe in casa, è decisamente piacevole, i palazzi che mi circondano sembrano assumere un aspetto differente,  allungo lo sguardo su tutto il quartiere e sembra quasi un centro vacanze, è tutt’altro, è piuttosto un proliferare di persone, di sguardi e situazioni molto differenti che ogni tentativo di descrizione più risultare troppo sintetica e generale. La mia vicina di casa “batte le mani”, è il chiaro segno che sta preparando il pane pakistano, una specie di piadina che viene preparata e cotta al momento, va mangiata calda, al suono poi,  si assommano i profumi più diversi, predominante il “fritto”, non ho scampo e vengo sovrastato, battuto su tutti i fronti, se contrappongo alla sua tradizione culinaria, la mia cucina dietetica fatta di verdure lessate a vapore, miglio e grano saraceno, che dovrebbero avere un effetto benefico sulle mie intolleranze, ma non lasciano traccia nel vicinato. Suo figlio tredicenne non mi lascia mai orfano di un saluto e di un sorriso divertito, e battendo le mani mi indica che è pronto il pane e mi chiede se ne gradisco un po’…ma si! Vada a quel paese l’intolleranza alimentare, anche le verdurine lesse reclamano un supporto di sapore e d’incontro. Piccole sfumature che comunque mi indicano che la mia giornata è iniziata bene, in effetti ci sono mattinate in cui mi sveglio con un senso di profonda gratitudine, mi sento davvero fortunato, perché vivo ciò che ho sempre desiderato, anche le sfumature più chiaro scure e le fatiche ad essere correlate, hanno un senso e un sapore differente, quando appartengono ad un progetto di vita che senti profondamente radicato nella tua storia personale. 
dal mio balcone
In queste ultime settimane sono stato contattato da diverse persone che in un modo o in un altro hanno il desiderio di non restare impantanate nel proprio nido, nella propria autosufficienza, ma sentono quasi un bisogno  rinnovato di partecipazione e azione comune, quello che mi fa piacere è constatare che si incomincia a scorgere la necessità di un lavoro comune, una partecipazione che prende vigore e significato, dalla responsabilità condivisa; certamente sono piccoli segni, ancora troppo deboli e isolati, ma chissà se non incominciamo a superare quell’individualismo che troppo ha invaso il nostro quotidiano, e recuperiamo la forza del “senso comunitario”; è il germe di novità che chiede ancora di irrompere in questo tratto di storia così travagliato, è il senso profondo di quella passione di Gesù di Nazareth, che instancabilmente diceva: “ il Regno è vicino, è già tra voi”, e il Regno che annunciava era caratterizzato non da un potere, se non quello della fraternità. Come piccolo fratello scelgo di fare “un passo indietro”, per fare passi in avanti con gli altri, scelgo di essere del posto, radicandomi nella quotidianità fino ad essere il più possibile “mescolato”, perché da questa prospettiva apprendo  la saggezza di vita da chi mi vive accanto, a partire da quelli che sembrano “invisibili” nel tessuto sociale, scelgo di mettermi in “cammino con” e non di “fare per”, consapevole che il tratto di strada da percorrere è molto lungo e chiede il coraggio di disperdersi, come il “lievito nella pasta”.
la cappellina
 Se tutto questo è appassionante per me, e lo è, non posso che “impastarmi di relazioni semplici, immediate, quotidiane e di tempi di silenzio, di cuore a cuore con Dio, che sempre più  sento non esterno né a me, né alla realtà che vivo, ma lo scopro esistente nel profondo della mio essere, tranquillamente “a suo agio” anche tra ombre e tempeste, che spesso accompagnano il mio percorso. L’unica fatica che vivo è il portare avanti questa passione da solo, per questo scrivo, racconto, cerco di saper curare alcune amicizie molto profonde: per entrare nel cuore di Dio e di un percorso di umanizzazione, occorre accogliere un senso di appartenenza reciproca, questo per me è il Vangelo e in questa maniere sento di ritrovarmi e condividere quella stessa passione che ha animato Charles de Foucauld, quando di sé diceva:     “voglio gridare il Vangelo con la mia vita”.



sabato 13 settembre 2014

Spazi di fraternità

Prontissimi per proporre anche quest'anno, "Spazi di Fraternità", un luogo d'incontro e confronto, per aprire il nostro quotidiano a nuove prospettive, accogliendo la spiritualità di Nazarath che Charles de Foucauld ha sperimentato e incarnato nella sua storia personale. Segnate nella vostra agenda le date e le parole che verranno coniugate insieme, attraverso l'apporto e gli stimoli che alcuni amici come Luigi Alici, Stefano e Cinzia Ricci, Massimiliano Colombi e altri metteranno a disposizione di chi sarà presente. Quest'anno per chi lo desidera, ci sarà la possibilità di vivere un tempo anche di silenzio e contemplazione, per questo motivo prima di iniziare l'attività alle ore 16.00 delle domeniche programmate, verrà allestito uno spazio di preghiera silenziosa nella chiesa di San Marco alle Paludi di Fermo.
La giornata dedicata al ricordo di Charles de Foucauld quest'anno è programmata per domenica 30 novembre.

Prendete nota sulle vostre agende e.... prendete impegni con noi.


lunedì 1 settembre 2014

Dove abiti in genere?

Ascoltare, ascoltare e lasciarsi penetrare in profondità dalle parole e dalla storia di qualcuno che non conoscevo assolutamente e che è lontano anche nel tempo, questo ho sperimentato in questi ultimi giorni trascorsi all’eremo di Montegiove accompagnato dal diario di Etty Hillesum, donna straordinaria e straordinariamente immersa nella sua storia e nella storia del suo tempo, morta ad Auschwitz nel 1942. Appena a casa mi sento subito accolto dalle lingue che si intrecciano e dai vicini che subito mi bussano: “ben tornato, tutto bene?” Ma fuori l’arabo della famiglia algerina si intreccia alla voce potente della nigeriana, che parla al telefono con livelli di decibel tali da sopperire la carenza di campo telefonico, sono certo che se il suo telefonino non avesse quelle indispensabili “tacche”, la sua voce comunque può arrivare nitida al suo interlocutore senza l’utilizzo della tecnologia; poi l’urdu, parlato dal balcone alla strada per dirsi come è andata la giornata, certamente non propizia per la vendita in spiaggia, visto l’improvviso acquazzone che ha lavato via l’ultima domenica di agosto. Ma anch’io scendo in strada ed è lì che mi sento chiamare da alcuni bambini, dal tono della voce e dall’atteggiamento, comprendo che devo fermarmi:  “ sai, non vengo più a scuola quest’anno, fra qualche giorno vado in Inghilterra con la mia famiglia”. Certo l’immediatezza della notizia e il sorriso del bambino sembrano sottolineare l’avventura di un cambiamento, accolto quasi come gioco, ma so che in genere non è così, i bambini tengono spesso per se ciò che non sanno decifrare come sentimento. “Tu come ti senti”- gli domando, posso permettermi questa irruzione, mi conosce da tempo, -“Ho paura, devo lasciare tutti e lì non conosco nessuno”. 

Non può scegliere, come sicuramente non possono scegliere i suoi genitori, che hanno preso questa decisione per rincorrere ancora un futuro migliore, che stenta beffardamente ad arrivare. "Sai già come si fa, puoi riuscire ancora”, l’unica cosa che sono riuscito a dire, del resto ha le sue risorse, perché dovrebbe perderle proprio ora, ma quel suo “ho paura”, mi risuona dentro in maniera autentica e forte, sento di doverlo custodire come qualcosa di molto prezioso e sottilmente doloroso. Non è il primo bambino costretto all’ennesimo sradicamento dal quartiere e forse non sarà l’ultimo, come lui tanti adulti, uomini, donne, vecchi, ormai sembra la costante di questa epoca: sradicati per violenza, per fame, per speranza, per guerre, nessuna di queste sono motivazioni che partono dal cuore, sono imposizioni. Loro, i bambini, non hanno possibilità né di fare capricci, né di decidere, e quando si oppongono portano motivazioni per nulla banali: “ a scuola vado bene ora, sono ben inserita, come posso farcela in un altro paese dove non conosco la lingua”, questo ha detto una ragazza alla propria madre, la quale mi diceva:   “ come possiamo partire ora?”. Rientro in casa, due minuti ed ecco il suono del campanello, l’indiano che abita nell’appartamento sopra al mio con un italiano stentato, mi chiede come deve fare per iscrivere i suoi figli a scuola, sono arrivati da qualche mese, ma non ha mai provveduto alla loro iscrizione, provo a fornire qualche informazione e indico l’indirizzo della direzione didattica, la sua faccia però è eloquente nel mostrare disorientamento, e mi dice:” allora, io esco dalla via, qui casa…”. Ok, risolviamo il problema, mercoledì prossimo andiamo insieme in direzione, guido io. Lo so sono banalità, sono punti di vista, sono quotidianità come molte altre, e ben venga che sia così, del resto le situazioni straordinarie sono rischiose, troppo lontane dal reale e spesso troppo roboanti per saper contenere la saggezza e la profondità di incontri immediati e semplici. Dio abita d’abitudine qui. Incomincio lentamente a sentirmi un “NOI” in questo luogo, a sentirmi del posto e non l’ultimo arrivato, ma da dove mi viene questa sensazione? Non so decifrarla, penso che dipenda da come lentamente, molto lentamente, le persone mi stanno prendendo per mano e mi stanno invitando, a modo loro, e forse anche inconsapevolmente, ad entrare in questo spazio umano. Vado in crisi, molto spesso perdo il buon umore, mi sento perso e disperso in questa mia scelta da costruire giorno dopo giorno, dove i riferimenti li devo segnare in autonomia, ben venga comunque questa precarietà, è un opportunità anche questa, ma quando sento la dimensione del “NOI”, c’è poco da dubitare: Dio abita d’abitudine nel NOI.