domenica 22 dicembre 2013

Discesa libera





“ Non si da un io isolato, puro e indipendente, ma piuttosto una rete vasta e universale di io, in cui posso trovare la mia autentica e giusta collocazione”
                                                                                                                                  Rowan Williams


Il tentativo di isolarmi o costruirmi un nido sicuro e caldo, è sempre dietro l’angolo e senza accorgermene faccio presto a costruire un muro di cinta, una barriera difensiva, un limite invalicabile che distingue, protegge e soprattutto mi mette al riparo dal               “com-promettermi” con gli altri; così ciò che sembra mettermi al sicuro, diventa pericoloso isolamento, ciò che sembra riscaldare, toglie lentamente l’aria, ed anche ciò che è ricerca assoluta di Dio rischia di essere ricerca di un’immagine illusoria di sé, magari più accettabile, più rassicurante, mentre in concreto potrebbe essere fuga dalla propria realtà.
Mescolarmi il più possibile, contaminarmi e lascare che altri mettano in crisi le mie certezze, entrare e ritrovarmi in quella “rete vasta e universale di io”, come la descrive R. Williams ( arcivescovo di Canterbury e Anglicano), questo mi appare oggi come una possibilità per dare senso, valore, spessore e sapore a questo esistere e con maggior forza, questo mi sembra oggi la grande provocazione di Dio, che sceglie di Incarnarsi.

Gesù non è il Dio che si distingue, non è il Dio incontaminato, non è il Dio inavvicinabile, ma il Dio che entra e abita  la vasta rete degli io umani, in essa si mescola, si contamina, si confonde, si fonde. E’ un Dio che scardina prima di tutto l’immagine che di Lui abbiamo costruito, un Dio che in punta di piedi e in assoluta fragilità è capace di stravolgere il piano della storia umana, nel momento in cui decide di essere tutt’uno con l’umanità stessa. Questo Natale è fatto per me di silenzio e incontri discreti, di passione per quello che vivo e accoglienza per quello che ricevo quotidianamente attraverso le relazioni, ma soprattutto sento che mi invita ad abbandonarmi dietro questo Dio, mai pienamente compreso e incontrato, che mi spinge, con Lui, ad entrare in profondità tra le masse. 

Vi regalo per quanto possibile, questi miei pensieri e questo sentire, sperando di condividere con ognuno voi la passione per questo tempo e per quest’umanità, con cui vale ancora la pena  com-promettersi.




venerdì 29 novembre 2013

Non ci si incontra per caso

Ricordo benissimo il periodo della mia vita durante il quale ho incrociato gli scritti di Charles de Foucauld, intorno al 1992, avevo 23 anni, quello che stavo cercando era la possibilità di vivere il Vangelo non dentro qualche istituzione particolare ( in quel periodo ero in seminario) ma in mezzo alle situazioni di vita le più concrete. A 23 anni non si ha l’abitudine di cogliere ed apprezzare il valore delle sfumature, si è spesso preda di un’energia tale che si è sicuri di poter cambiare il mondo, sono contento comunque di averla sperimentata quella frenesia, quella presunzione, quel desiderio profondo che forse celava anche altro. Mi ritengo fortunato perché non ho trovato mai nessuno che abbia screditato o disinnescato quell’entusiasmo, al contrario, ho avuto la fortuna di avere accanto adulti che hanno saputo pormi le domande giuste, quelle scomode, quelle che ti mettono in crisi con il chiaro intento di spingerti oltre e non bloccarti. Charles de Foucauld arrivava nella mia vita in un momento propizio, o forse ero in una fase del mio cammino che avevo le antenne giuste per sintonizzarmi e captare le sue intuizioni. Mi sono imbattuto nei suo scritti, letti voracemente: tremendi, un linguaggio intriso di devozioni tipiche di fine ottocento, una serie di ragionamenti e meditazioni a volte un po’ contorti, eppure nonostante l’enorme distanza tra me e il suo stile letterario, era come se intuissi che dovevo andare oltre, trapelava qualcosa di diverso tra le righe, mi risuonava dentro quella ricerca spasmodica di intimità e confidenza con il Dio che aveva incontrato da adulto dopo anni di distacco, mi risuonava dentro perché era ciò che stavo cercando: non una riflessione razionale su Dio, ma l’esperienza di Dio. Per lui tutto questo si manifestava con una vita molto impastava tra la gente, un equilibrio difficile e acrobatico per certi aspetti, tra ore di silenzio e visite continue di gente che bussavano alla porte del suo eremo, un equilibrio che forse non ha mai risolto e che la sua morte violenta ha solo interrotto, ma non riconciliato. Con il tempo ho appreso che quando un’esperienza di vita ti risuona dentro, ti colpisce, prende la tua attenzione, ha sempre a che fare con parti profonde di te stesso, tocca tasti dolenti, che chiedono di essere messi alla luce e di trovare una risposta; grazie alla spiritualità di nazareth che man mano andavo conoscendo e approfondendo, ho fatto l’unica scelta possibile e congruente con quello che sentivo in quel momento: fermarmi e lasciare il seminario, senza altra prospettiva concreta davanti a me. Non si trattava di lasciare un posto sicuro per un altro ancora più sicuro, certo ero sempre più orientato verso i piccoli fratelli, ma di concreto e deciso non c’era nulla.

 In questo mi sono sentito in buona compagnia con la storia di Charles de Fuocauld: non un identità, un ruolo da indossare, ma una scelta da compiere a partire dalla propria storia e dalla propria identità. E’ stato fondamentale non ritrovare più il volto di Dio, perché non lo potevo più possedere, era da incontrare di nuovo; è stato salutare ripartire dal concreto della mia vita, nuda e cruda come del resto è il quotidiano di ogni uomo e donna di questo mondo, e non ripartire da idealismi disincarnati pericolosamente preda di proiezioni interne. Il deserto è stato presente materialmente nella vita di fratel Charles, se non altro perché ha trascorso molti anni nel deserto algerino, ma il deserto è stata la cifra essenziale della sua esperienza di Dio e degli uomini, non certo il luogo della privazione, della penitenza, ma il luogo del nulla e dell’assenza, là dove “ ha origine ogni esistenza”, parafrasando Arturo Paoli. L’incontro con la sua storia, l’esperienza successiva con la fraternità dei piccoli fratelli del Vangelo, hanno profondamento segnato la mia vita, non mi hanno mai messo al riparo da incertezze o crisi, al contrario, mi  hanno radicato sull’importanza del vivere il silenzio e del vivere tra le masse relazioni di vicinanza e prossimità: il silenzio, per svuotare le mie ‘mani’, allentare le mie resistenze e rigidità, e per questo creare lo spazio favorevole all’incontro; le masse per mettere sempre i piedi a terra, per non idealizzare e disincarnare, per ritrovare l’appartenenza, per scoprire la forza della reciprocità. Dentro queste dinamiche, ritrovo l’annuncio del Vangelo, che non vuol essere solo annunciato da me, ma che mi viene annunciato dai miei vicini, dalle storie che incrocio e che mi vengono consegnate attraverso confidenze, quel Vangelo che è come un seme lanciato, che cresce e matura senza che nessuno si accorga, e per questo, nonostante tutto ( anche noi Chiesa), porta il Suo frutto, oltre i nostri limitati orizzonti.


martedì 26 novembre 2013

Fraternità fuori luogo


Domenica primo dicembre in occasione dell'anniversario di Charles de Foucauld, ci troveremo nel salone parrocchiale della chiesa della Faleriense, per un momento di fraternità e condivisione, lasciandoci ancora una volta provocare dalla spiritualità di Nazareth, l'appuntamento è a partire dalle ore 16.00 fino alle 18.00, ed è inserito nell'itinerario "spazi di fraternità". Per maggiori informazioni potete contattarmi amedeo.angelozzi@tiscali.it.

Vi aspettiamo.

mercoledì 13 novembre 2013

Piove senti come piove

Rientro in casa dopo una lunga giornata di lavoro e incontri, la mattinata è impegnata con dei ragazzi di una scuola media, nel pomeriggio incontro un gruppo di anziani per un progetto sui ricordi e con questo secondo impegno mi finisco le corde vocali, per farmi comprendere è necessario parlare a dei decibel decisamente sostenuti; termino il pomeriggio con un incontro in comunità d’accoglienza, stanco ma soddisfatto rientro a casa. La pioggia intensa di questi giorni ha creato molti problemi nel quartiere, grandi pozze d’acqua dappertutto, mi metto alla ricerca del posteggio sicuro, che vuol dire posizionarsi in modo tale che nessun albero o lampione precipiti esattamente sulla mia auto, sarà una fissazione ma le precauzioni non sono da sottovalutare, così cambio almeno quattro posti in pochi metri quadrati di parcheggio, mi auguro solo che nessun vicino mi abbia notato, anche perché ormai la mia auto è riconoscibile. Anche in una giornata così piovosa e faticosa dal punto di vista lavorativo, arriva un raggio di sole, caldo e diretto.

Il mio amico pachistano mi chiede un piacere, il suo italiano diventa pessimo quando deve parlare con un autorità o chiedere informazioni, è come se di colpo dimenticasse tutto, allora mi chiede di aiutarlo; ho uno scampolo di energia e quindi mi rendo disponibile. Mi accorgo in effetti che è preoccupato di qualcosa, è un po’ in ansia. Se posso, perché non rendermi disponibile?. Senza fare il super eroe ci si può affiancare con semplicità, e così cerco di fare. Al di là della questione specifica quello che mi colpisce è la confidenza che spontaneamente si crea mentre siamo in auto, e con molta naturalezza e come tra amici di vecchia data, incomincia a raccontarmi la sua vita, le difficoltà vissute nella sua esperienza di emigrato. Mi sembra di percepire altre voci, situazioni, esperienze, che ho ascoltato e  che si consumano nell’anonimato più assoluto, spesso sono affianco a noi, parallele ai nostri quotidiani, ma assolutamente invisibili eppure profondamente dolorose e piene di coraggio. Non distinguo assolutamente se queste storie appartengono ad un immigrato o ad un italiano, di fronte a chi vive con fatica la propria esistenza, c’è solo l’umano da scorgere e rispettare. Ci sono parole che non posso dimenticare questa sera, che mi aiutano a comprendere in profondità la mia storia, la mia scelta e soprattutto mi fanno toccare il valore immenso della prossimità; questa persona si spende per gli altri senza misura, perché qualcuno ha fatto con lui la stessa cosa quando era veramente nel bisogno, non ha altro criterio per giustificare la sua generosità, mi dice:_ se preghi è una cosa tra te e Dio, se aiuti qualcuno è una cosa che riguarda te, l’altro e Dio. Mi viene in mente il versetto del Vangelo “ Chi aiuta uno di questi piccoli è come se lo facesse a me”, condivido questo pensiero con lui, mi guarda e mi dice:_ è vero. Quando torniamo all’uomo e alla sua dignità, inevitabilmente siamo nel cuore di Dio, e ci siamo insieme, musulmano e cristiano, come questa sera. Questa persona è una vera provvidenza per me, perché grazie al suo impegno ho trovato casa a Lido Tre Archi e così ho potuto iniziare questo nuovo inserimento, è stata la mano di Dio, dopo un anno e con la confidenza e la libertà che abbiamo ora posso esplicitarlo con naturalezza; “quando ti vedo e posso dirti qualcosa mi sento in pace, perché sento di potermi fidare”, questo mi risponde.

Buona notte Signore, per oggi ho il cuore sazio.


mercoledì 30 ottobre 2013

Un anno tra virgolette

Non ricordo esattamente quando ho iniziato a tenere sempre a portata di mano un quaderno, su cui trascrivere quello che vivevo, sperimentavo, scoprivo, probabilmente intorno ai 16/17 anni, è stata comunque un’abitudine che non ho mai tralasciato  e che tra le altre cose quando ero con i piccoli fratelli del Vangelo ho apprezzato con maggior vigore, visto che all’interno della fraternità mensilmente giravano i diari dei vari fratelli che permettevano ad ognuno di condividere le esperienza anche se dispersi in tutti i continenti. Credo che il valore maggiore di un diario personale sia quello di poter rintracciare nel tempo il filo conduttore che lega la propria storia, permette di dare senso al proprio vissuto e scoprire costanti e novità che alla fin fine sono comunque inserite in un quadro esistenziale ben preciso. A me personalmente ha anche permesso di appassionarmi alle scelte, al mio cammino e ad avere cura nel non disperdere il bello che è stato seminato nel mio percorso e comprendere con la giusta distanza di tempo, anche le esperienze più difficili. Proprio oggi, intenzionalmente, e con una certa emozione apro la pagina del  30 ottobre 2012: un anno fa mettevo piede in questa nuova casa e iniziavo il mio inserimento a Lido Tre Archi. Un momento importante per me, un desiderio che si concretizzava dopo moltissimi anni, un tempo di novità che mi poneva di nuovo di fronte alla fatica del cambiamento e dell’inizio di ogni nuovo progetto. Sono fortunato perché ho avuto sempre la presenza costante e nutriente di alcune persone che hanno saputo accompagnare diverse tappe della mia vita e così anche in quest’occasione le stesse persone si sono rivelate fondamentali per affrontare questo cambiamento con uno sguardo e un atteggiamento che non tradisse il mio progetto di vita personale, ma ritrovasse una fedeltà e una coerenza che non sempre sono facili da incarnare. A notte fonda e nel silenzio dell’appartamentino che dovevo imparare a sentire mio, due sms arrivano quasi contemporaneamente: “buon inserimento e tanta pace”; mentre l’altro: “Notte buona…possa tu sentire il battito del cuore di Dio nella tua vita, in quella del quartiere in cui vivi e in tutta l’umanità”. Certamente mi hanno riscaldato il cuore, hanno dato colore alla solitudine di quel momento, mi hanno permesso di puntare lo sguardo sulla dimensione dell’abbandono. 

Si, penso che ci si possa abbandonare, lascare andare, mollare gli ormeggi e semplicemente smettere di camminare con il freno a mano tirato, e questo è possibile solo quando ci si fida profondamente; appena arrivato nella nuova abitazione, come ho sempre fatto, organizzo un piccolo angolo per la preghiera, il silenzio, il cuore a cuore con Dio nel quotidiano, è comunque la dimensione e l’esperienza più importante per me, è ciò che mi permette di entrare a fondo nella realtà che scelgo di vivere, mi aiuta a “disperdermi” non a perdermi, aprendo il Vangelo provo a fidarmi a lasciarmi prendere per mano dalle parole che trovo scritte: “Il Regno di Dio è un granello di senape…è come il lievito impastato nella massa” Lc 13,18-21. Anche oggi il Vangelo del giorno è esattamente lo stesso, mi sembra una strana coincidenza, oppure sono delle virgolette che racchiudono il senso e lo stile che ho cercato di vivere in quest’anno, ed a  queste parole mi abbandono volentieri, mi fido, mi appassionano, come anche mi spaventano un po’, ma non posso fare a meno di accogliere ancora l’invito a “impastarmi con la massa”, non perché mi senta seme, assolutamente, ma perché credo che  riconoscersi, mescolarsi, meticciarsi, compromettersi, con questa massa, sia il modo migliore per sentirsi dentro il cuore di Dio. Oggi a distanza di un anno è ancora importante che mi lasci consumare dal silenzio vissuto qui, dall’ascolto della realtà, dallo stare giorno dopo giorno negli incontri spontanei e informali, anche in questo caso si tratta di abbandonarmi, lasciarmi prendere per mano dagli altri per trasformare insieme questa realtà.


martedì 15 ottobre 2013

Spazi di fraternità

Quando si parla di spiritualità di Charles de Foucauld, si fa riferimento spesso al Nazareth, la vita nascosta, anonima e quotidiana di Gesù, un tempo lungo di vita completamente immersa nella storia del suo tempo e del suo clan famigliare. Su questa dimensione Charles de Foucauld ha fondato la sua scelta di stare sempre tra gli uomini come uno di loro, attraverso la relazione quotidiana, di vicinanza e amicizia, scegliendo di "gridare il Vangelo con la vita". Per chi segue questa spiritualità   nazareth vuol dire scegliere la vicinanza agli ultimi, l'abitare gli ambienti popolari, l'occuparsi con gli altri delle trasformazioni che la nostra società e il nostro tempo chiede, nell'ottica della giustizia, delle opportunità di vita dignitosa garantita a tutti e nella fraternità vissuta oltre ogni confine. "Nazareth non è comunque il luogo caldo e intimo, ma è sempre il luogo significativo per gli altri" diceva il benedettino Davide Semeraro, e quando si dice "significativo" si intende un luogo dove gli uomini e le donne cercano il loro riscatto. Quando si incontra la spiritualità di Nazareth non si trova solo la contemplazione intimistica e solitaria di Dio, ci si ritrova nel cuore di Dio per essere pienamente nel cuore degli uomini, per questo motivo e con questo atteggiamento proponiamo insieme alle piccole sorelle Jesus caritas di Fermo uno spazio di confronto, ascolto e sopratutto un luogo di fraternità che ci faccia appassionare non tanto a stare bene tra noi, quanto a vivere con passione il nostro tempo, le nostre relazioni e l'impegno verso la comunità allargata, non solo quella ecclesiale. Spazi di fraternità è quindi una serie di incontri sul tema dell'abitare, lo spazio il tempo e il silenzio. Aiutati da alcuni amici che si sono resi disponibili per arricchire la riflessione, ci ritroveremo secondo il calendario che troverete qui sotto pubblicato. Il primo incontro è per domenica 27 ott, dalle ore 16.00 alle 18.00 presso la parrocchia 
S. Cuore a Porto Sant'Elpidio
Per informazioni e potete contattarmi o contattare le piccole sorelle a Fermo. 

giovedì 10 ottobre 2013

Andare a fondo



donna Tapirapè
“Convertirla? Il proselitismo è una solenne sciocchezza. Bisogna conoscersi e ascoltarsi”. Mi è sembrata una frase diretta e senza possibilità di interpretazioni dietrologiche che poi rischiano di sminuire la portata e la forza del pensiero espresso, che in questo caso è quello di papa Francesco a colloquio con Eugenio Scafari.
Ho pensato a questa frase quando ho letto della notizia della morte di una piccola sorella di Gesù che da oltre 60 anni ha vissuto presso una comunità di Indios in Brasile precisamente i Tapirapé, notizia che vi invito a leggere nel link che ho posto sotto. Una vita intera senza vedere mai una conversione alla propria religione e un Battesimo, nella logica del proselitismo un vero e proprio fallimento, nella logica del Vangelo?

Immergere nella dimensione di Dio gli uomini e le donne che incontriamo,  questa è per me al momento attuale la domanda più scomoda e difficile, perché mi chiede di “conoscere e ascoltare” come dice papa Francesco, prima di tutto Dio e allo stesso tempo chi incontro. Noi cristiani siamo una minoranza e il rischio di ogni minoranza è quello di voler essere maggioranza trasformando tutti a propria immagine, anche Israele era un piccolo popolo sperduto che aveva il privilegio di diventare benedizione per tutti. 

ps Genoveva dal 1952 con i Tapirapè
Piccola sorella Geneveva ha ridato vita ad un piccolo popolo, ha scoperto insieme a loro nel ripetersi quotidiano del giorno dopo giorno, il valore pieno e assoluto di uomini e donne definite da un appartenenza culturale e religiosa per nulla inferiore a nessun altro popolo, questo suo stare, abitare, mescolarsi, contaminarsi, disperdersi ha creato vita e definito uno spazio sacro, la vita e l’esistenza di una popolazione, uomini e donne concrete: non li ha forse battezzati? Non si è immersa nella logica di Dio insieme a loro, sconfinando oltre ogni confine predefinito? Per me restano domande aperte, e mi spingono a rileggere e vivere la fede, la ricerca di Dio, la vita con altri in un orizzonte non ancora pienamente scoperto, eppure affascinante. Leggendo l’articolo ho sentito e percepito il cuore della spiritualità di nazareth; così  riprendo il largo, anzi no, il basso, verso il basso dei solchi delle nostre comunità dove senza nessuna pretesa, gettati come semi, cresciamo nella passione di sentirci reciprocamente appartenenti.












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mercoledì 25 settembre 2013

Il libro...verde

Questa mattina avvicinandomi alla mia libreria mi cade lo sguardo su un piccolissimo libricino verde, è lì da un anno, da quando ho fatto il trasloco e sono arrivato in questa nuova casa, mi incuriosisce perché in effetti non ricordo assolutamente il suo contenuto. Apro, osservo la mia scrittura decisamente ordinata, sbircio velocemente e noto che sono una serie di pensieri numerati, sembra avere lo stile della “bella copia”. Spontaneamente sorrido, ma è piuttosto legato al ricordo che subito emerge , quasi a rivivere dopo un lungo letargo; in effetti pur non avendo la data, so bene che il contenuto l’ho scritto nel 1999, dopo il rientro dalla Francia e all’inizio del mio percorso qui a Fermo. Nero su bianco ho cercato di scrivere quale era il mio desiderio di vita, la mia scelta, una sorta forse di “regola di vita”? probabile, anche se non ho mai amato questa terminologia, preferisco “progetto di vita”.  Nonostante l’esame che incombe, non posso perdermi questo piacere: sedermi per terra e leggere. C’è veramente tutto quello che in questi anni ho cercato, desiderato, messo in dubbio, rafforzato, difeso, tutto quello per cui mi sono appassionato e che ha caratterizzato fortemente la mia vita. Continuo a leggere e ad ogni frase emerge anche un ricordo, l’immagine di un incontro, la forza di un’esperienza, la durezza di un errore, mi accorgo che forse inconsapevolmente quello che cercavo di fare in quel momento, era evidenziare le tracce lasciate lungo il mio cammino per evitare che qualcosa andasse perso, ma soprattutto la consapevolezza che le proprie scelte non vengono astrattamente dall’alto, ma germogliano lentamente ai margini della strada percorsa. Più entro nella mia storia personale, più cerco di scorgere le sfumature vissute, gli incontri, le relazioni e  più emerge, senza nessuna forzatura, il senso di quanto ho avuto in dono di vivere. Ed è questo che apre il cammino. Lo apre ancora oggi e lo rende concreto, saporito, appassionato.  

Oggi ho un “progetto di vita”, che racchiude il senso della mia scelta, è un po’ un ponte tra quanto ho sperimentato e interiorizzato in questi anni e quanto desidero ancora vivere, è il passato che prende per mano il futuro per spingerlo in avanti, sono le parole per dire che quanto ho vissuto, è stato proprio bello, per questo scelgo ancora di viverlo impastandolo con quello che verrà. Nel libricino verde rintraccio due parole fondamentali: silenzio e relazione. Possono sembrare in contraddizione tra loro, non conciliabili, come se  l’una escludesse l’altra, eppure sono intrecciate profondamente tra loro, non sono nemmeno due facce della stessa medaglia, sono lo stesso lato della medaglia, meticciate e ben distinte. Il silenzio nutre ogni relazione capace di intimità e vicinanza, il silenzio nella relazione evita l’invasione, il superamento prepotente dei confini, smaschera il desiderio di possedere e utilizzare l’altro. La relazione poi garantisce al silenzio di non cadere nella solitudine, nella fuga, nel vuoto, nell’autoreferenzialità, nel bastare a se stessi. La relazione e il silenzio ci mettono nella condizione di “sconfinare”, di andare oltre, senza arrivare per primi, ma arrivare sempre con altri. Oggi personalmente non riesco più a distinguere se questa dimensione della “relazione e silenzio” appartiene alla sfera dei rapporti umani, o al mio  rapporto con Dio, sinceramente non mi interessa nemmeno più distinguerli: nel cuore di Dio e nel cuore degli uomini non per rintracciare distinzioni ma per immergersi in una pienezza.

amedeo.angelozzi@tiscali.it


domenica 8 settembre 2013

Veglia per la Pace

Lettere delle monache Trappiste di 'Azrei in Siria

Cani muti

Veglia per la pace
“Non possiamo essere cani muti”, scriveva Charles de Foucauld addirittura ai parlamentari francesi, di fronte alla  tolleranza che la sua nazione mostrava in relazione  al fenomeno della schiavitù, che lui ben vedeva in Algeria; di fronte alla violenza e al sopruso, non si può restare indifferenti. Ogni violenza, ogni azione di potere, va smascherata, va denunciata, anche quella che si veste con la “divisa” dell’intervento umanitario, e su questo le parole di Francesco in piazza San Pietro sono state immediate, decise, senza nessun tipo di sfumatura che desse spazio a interpretazioni di comodo. Quando ad intervenire sono le armi, il linguaggio di fondo è la morte e la distruzione dell’altro, con un orizzonte di senso del genere, non si potrà mai costruire una relazione che porti vita, che crei reciprocità, che sappia accogliere la diversità, che faccia dell’incontro delle differenze  il segno della vita che scorre e si sviluppa nella sua pienezza. Credo che prima di tutto si tratti di chiamare per nome gli atteggiamenti, le azioni compiute, le responsabilità, svelare le logiche di fondo delle azioni intraprese e non rimpallarsi la responsabilità o peggio ancora, sviare l’attenzione su chi ha compiuto il gesto più violento o brutale. Non ci sono limiti in questo, non ci sono misure, non c’è un massimo di sopportazione: ci sono logiche che hanno nel loro cuore la promozione e il benessere della comunità e logiche di potere che hanno per obiettivo  il controllo, la sopraffazione, l’imposizione del proprio ordine e del proprio sistema. Lo ha ripetuto il papa, ma non sono sue parole, potrebbe anche averle dette senza essere papa, perché ha semplicemente ripetuto quello che nel Vangelo è stato scritto da secoli: la logica del Regno e quindi di Dio è la fraternità, che non ha nulla a che vedere con atteggiamenti buonisti o naif, che rischiano di sfociare nel fanciullesco e nel banale ( e in questo noi cristiani siamo stati efficacissimi nel svuotare di senso il messaggio di Gesù, direi di disinnescarlo), ma è la logica della giustizia, dell’equità , dell’affermazione della dignità di ognuno a partire dal più piccolo. E’ un cammino lungo a mio parere, è una sfida continua, perché a me sembra che questa logica e questa prospettiva del vivere, metta radicalmente in discussione quello che stiamo facendo  a livello planetario, nazionale, fino al nostro piccolo quotidiano. Non si tratta di banalizzare le relazioni, non basta dire: “dobbiamo volerci bene”, perché quando si è dalla parte di chi subisce, queste parole risuonano come un’ulteriore sferzata ed umiliazione, si tratta al contrario di crescere nella libertà di saper chiamare le proprie responsabilità per nome, e chiamarle apertamente di fronte all’altro. In Sud Africa nel periodo del dopo Mandela, è stato istituito un tribunale per la riconciliazione, un lungo lavoro alla ricerca della verità, con lo scopo di mettere in luce i fatti;  vittime e carnefici, uno di fronte all’altro, gli uni di fronte alla storia, al vissuto, all’ esperienze dell’altro, per saper chiamare per nome quanto era accaduto, ognuno per la sua parte.

 C’è un interessante film su questo processo di riconciliazione, non ricordo il titolo purtroppo, ma mi ha colpito una scena: un vecchio dopo aver raccontato le violenze subite, si gira e guarda negli occhi i responsabili delle sue vessazioni e dice loro: se non mi dite perché lo avete fatto, come posso perdonarvi?. Personalmente mi sento vessato e indignato da quello che dicono i potenti delle nazioni, perché continuano a mascherarsi da lupi e agnelli, ma mai rinunciano al loro potere, che dicono esercitare in nome e per il bene del loro popolo; nessun uomo o donna, nessun minore, chiede di essere messo nelle condizioni di guerra che vediamo quotidianamente, nessun popolo chiederebbe di essere nutrito di rabbia, odio, disprezzo per un altro popolo o realtà culturale o religiosa, è come dire che gli uomini e le donne che si sentono appartenenti ad una comunità,  chiedessero di vivere in una continua tensione e paura dell’altro. Non ho mai delegato nessuno a nutrirmi di odio. La veglia a Roma mi ha colpito profondamente per due aspetti: il primo il profondo silenzio, posso assicurare che era intenso e forte, mi viene da dire che esprimeva il desiderio di “chiarezza”, ossia dire chiaramente da quale parte stiamo, non riferita alle fazioni, ma alla logica dei rapporti umani che desideriamo tra nazioni e popoli;  il secondo aspetto  credo che sia stato ancora più profetico, non eravamo lì per fare un sacrificio che ammorbidisse il cuore di Dio e in tal modo si prendesse Lui la responsabilità e il potere di far cessare le guerre, Dio non ha il cuore duro che può essere ammorbidito dalle nostre rinunzie o flagellazioni, è ancora un pensiero perverso di Dio questo, eravamo lì perché la Parola di Dio ci grida e consegna  una responsabilità ben precisa: “ Caino dov’è tuo fratello?”

amedeo.angelozzi@tiscali.it


lunedì 2 settembre 2013

Il riso mancato

ORE 23.33…se metto anche solo una mollica in bocca esplodo. Mentre in macchina rientro a casa dopo aver cenato con amici, mi raggiunge al cellulare il mio vicino pakistano: _ “ maestro Amedeo, sei a casa, ti porto il riso!”. Beh il tono è scherzoso, “maestro” è ormai un modo simpatico anche per chiamarmi, identificarmi, in effetti mi aveva promesso il riso due giorni fa, tanto che con la persona che avevo a casa come ospite abbiamo gioito per il fatto che non dovevamo preoccuparci della cena, invece?... alle 22.30 ancora nulla, a quel punto soluzione decisamente di cultura italiana: spaghettata. Questa sera invece il riso è pronto in tempo e si scusa perché non aveva mantenuto la promessa, del resto i tempi della preparazione si erano allungati e non gli sembrava il caso di disturbarmi quando ormai era molto tardi, ma questa sera sono ospite a casa loro, tutti uomini, più o meno parenti che dopo una giornata di visite e incontri tra amici connazionali, ecco che finalmente mangiano. Siamo seduti per terra, piatto abbondante, salsina di yogurt con menta e non so cos’altro, carne di pollo. “La moglie di un mio amico ti conosce e mi ha detto che piace a te riso con colori, quello dolce, vero?”  bene, penso tra me, mi sto facendo una bella reputazione; capisco immediatamente che si tratta di una mamma della scuola, una giovane donna, laureata, che ho conosciuto quando non parlava assolutamente italiano, poi coinvolgendola a scuola ha avuto il desiderio di apprendere la lingua e così corso dopo corso, ora è riuscita a sostenere anche l’esame d’italiano B2, e si esprime decisamente bene. Occorre andare molto al di là di quello che appare per scorgere persone con potenzialità, desideri e capacità che non immaginiamo o che semplicemente i meccanismi di semplificazione e stereotipi ci impediscono di vedere, e questa donna è sicuramente una di quelle. Lo scambio che abbiamo avuto mi ha permesso di allargare il mio sguardo, di allenare i miei occhi ad andare oltre, sempre oltre, senza cedere alle semplificazioni opposte, ossia al pericolo dell’esotismo, in cui tutto ciò che è straniero è bello. Scopro sempre di più come sia necessario non giungere mai a conclusione, non dire mai “ora ho compreso”, c’è sempre un passo ulteriore da compiere. La complessità va rispettata per quello che è, si caratterizza sempre per  sfumature e tonalità differenti. Non possiamo fare a meno della “complessità” pena l’esclusione dalla possibilità di incidere in questo tempo, essa ci richiede un cambio di mentalità profondo e a mio parere ci chiede prima di tutto di cambiare posizione: dall’individualismo, al senso di comunità, di appartenenza reciproca. Se ci apparteniamo reciprocamente, allora non smetteremo mai di conoscerci, di meravigliarci, di consegnarci reciprocamente lo spazio perché in ognuno la vita si realizzi in pienezza. Ogni volta scopro che il mio comprendere è limitato, che vedo quello che desidero vedere, che rischio di leggere la realtà per come la immagino o la desidero, non per quello che essa è realmente, sento che devo avere questa profonda consapevolezza, per evitare voli pindarici e false idealizzazioni;  mentre la quotidianità, il restare qui anche nel silenzio, nella presenza discreta, nel tessere relazioni con lentezza, con pazienza, anche il non fare assolutamente nulla, tutto questo mi permette di entrare nelle pieghe di questa complessità, spingendomi ad andare oltre, credo che alla fine noi siamo “quell’oltre” gli uni per gli altri, se le nostre relazione non sono caratterizzate dall’uso oggettivo che facciamo di chi ci sta accanto. 
San Damiano Assisi

Scrive Enzo Bianchi: “Il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’alterità, per farne risuonare la parola e, al tempo stesso, ci dispone all’ascolto intelligente, al parlare misurato, al discernimento di ciò che brucia nel cuore dell’altro e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello”. Dopo la serata che ho vissuto,  e altri incontri di questa settimana, mi piace chiudere la giornata con queste parole di Bianchi, mi indicano la direzione ancora da percorrere, mi riscaldano il cuore, mi motivano, mi spingono ad appassionarmi ancora una volta alla mia scelta, alla mia storia; accendo una piccola candela in cappellina e mentre finalmente questa sera c’è più silenzio nel quartiere, mi piace accompagnare nel cuore di Dio tutta questa strana, colorata, complessa umanità…e spero di digerire il riso con tutto il resto.
amedeo.angelozzi@tiscali.it


sabato 17 agosto 2013

1 , 2, 3, Za -za


Zumpapà non è certamente la nuova disciplina estiva  che utilizza il ritmo musicale per tonificare il corpo , no, è il zum-pa-pa e za-za della musica mandata a tutto volume al centro sociale, immancabile tutte le sere in una cornice impreziosita dalle lucette di natale, è semplicemente fantastico, …se non devi scrivere la tesi e studiare. Ancora più caratteristico è il fruttivendolo ambulante napoletano, che mentre gira per le vie del quartiere, con il microfono praticamente incollato alle sue corde vocali, improvvisa melodie improponibili stile Mario Merola, una sorta di lamenti e ululati non meglio specificati e gracchiati dall’altoparlante, che in effetti possono anche  essere la colonna sonora di una splendida giornata di sole, ma se poi metti che il tipo, tutti i giorni percorre ogni centimetro del quartiere, beh!  Speri che prima o poi l’impianto di amplificazione gli faccia semplicemente cortocircuito e con una piccola e innocua fiammata, gli metta fuori uso il giocattolo, in fondo deve vendere la frutta non certo partecipare ad “amici di Maria de Filippi”. Ma del resto anche queste sono note di colore in questo spazio in cui la gente si mescola, si incontra, si ignora, si cerca, si scontra, si nasconde. Con l’estate il quartiere ha cambiato immagine, sembra quasi un centro vacanze dove la quotidianità è caratterizzata dall’andirivieni casa/ spiaggia, che i vacanzieri ripetono come se fosse l’ingresso e l’uscita da una fabbrica, sempre con gli stessi orari,  eppure anche se siamo in numero maggiore, le distanze restano e non ci si incontra, è uno stare gli uni accanto agli altri senza mai intersecarsi veramente, chi era qui anche durante l’inverno è quasi indifferente all’arrivo di così tante persone, sanno che sono di passaggio, continuiamo a vivere parallelamente . Mi sembra lo stesso paradosso delle grandi città, più si è in tanti più si rischia l’isolamento e le distanze. Riscopro allora la forza delle piccole attenzioni che si possono avere nei confronti delle persone, nulla di speciale o di straordinario, si tratta di sperimentare il semplice “essere presente all’altro”, e così è stato con alcuni vicini, anche nei giorni di fine Ramadan.  

Nella mia vita mi sono trovato in alcune occasioni completamente spiazzato e disarmato di fronte ad esperienze non sempre facili da affrontare, per abitudine o per cultura, direi anche molto cattolica, ho provato imbarazzo a non saper fare o dire qualcosa per sostenere, per  essere d’aiuto, quel senso del dovere che porta a rispondere alla logica dell’essere utili per gli altri, poi lentamente ho incominciato ad accogliere “la mia incapacità”, il silenzio per l’assenza di ogni parola, ho lasciato l’ansia del dover essere utile e significativo per gli altri e mi sono attardato nell’unica posizione che era possibile: essere presente.  Pensandoci non è così immediato il passaggio e non è poi così scontato trovarsi bene anche in questa posizione, essere presente all’altro è prima di tutto un mettersi in povertà, un mettersi a nudo, un mettersi “con” l’altro e quindi non è “per me, per te, per questo, per quello”, no…è un restare “con”, in totale apertura e liberi dalle aspettative e da qualsiasi tornaconto personale. Mentre scrivo questi pensieri, mi tonano in mente delle persone ben precise che mi hanno fatto sperimentare questo “essermi accanto”,  qualcosa di non tangibile ma allo stesso tempo profondamente nutriente. Credo che sono state proprio quest’esperienze, e delle persone ben precise, che nel tempo si sono manifestate nel dono prezioso e totalmente gratuito dell’amicizia, a determinare oggi  il fulcro della mia scelta di vita, “l’essere presente”. Non è un punto d’arrivo, una meta da raggiungere, un grado della perfezione, un idolo  da conquistare a tutti i costi o un immagine di sé che si vuole assumere, è piuttosto un camminare lento,  un appassionato ascolto di sé, uno spazio creato per l’ascolto dell’altro, un interiorizzazione dei propri limiti e una consapevolezza della propria storia. Charles de Foucauld scoprì il senso profondo della sua scelta di Nazareth quando abbandonando la frenesia del fare per gli altri, dello scrivere e riflettere per abbozzare piani di evangelizzazione o pianificazione degli incontri, completamente disarmato e vulnerabile, lasciò a sé stesso e agli altri la possibilità d’incontrarsi in quello che erano semplicemente: lui uno strano francese, cristiano, monaco nel deserto e con la mentalità borghese e militare, e loro dei nomadi del deserto, poveri materialmente, orgogliosi e ben radicati nella propria cultura, nella propria fede e nella concretezza di come si sopravvive nel deserto. “L’essere presenti all’altro” è sempre nella reciprocità, non è mai sbilanciato e non è mai un equilibrio di potere e di volere…è una sorta di danza armonica, ma di quelle tradizionali dove al centro c’è il gruppo e l’appartenersi, dove mai nessuno emerge…quasi quasi un zum- pa-pa 
amedeo.angelozzi@tiscali.it


martedì 30 luglio 2013

eremo Angela Paola

L'eremo Angela Paola, si trova ad Amandola, è un luogo costruito e messo a disposizione per chi voglia fare esperienza di silenzio e solitudine nella spiritualità di Charles de Foucauld. Un luogo che negli anni ha visto la presenza di diverse persone, come alcune piccole sorelle di Gesù le quali hanno trascorso periodi lunghi di preghiera e solitudine prima di riprendere la loro presenza nei diversi contesti culturali e sociali. Per chi desidera fare quest'esperienza può contattare il monastero delle Benedettine che ne garantiscono la custodia.
Personalmente sono molto legato a questo posto, e annualmente riesco a trascorrere almeno una settimana di solitudine e silenzio.

Un eremo per non fuggire

Ferie lunghissime quest’anno, tempo dedicato soprattutto allo studio, quindi  libri, pagine che sfoglio continuamente, fogliettini di appunti ovunque,  ma fortunatamente la mia casa è piccolissima, 26 metri quadrati e questo mi agevola nella concentrazione, ho sempre amato le piccole abitazioni; ma non c’è solo questo perché nella vita quotidiana c’è sempre l’imprevisto, se all’imprevisto lasciamo la porta aperta. Spesso  per me questo vuol dire, incontri inaspettati, relazioni che si approfondiscono senza nessun tipo di pianificazione, ”possibilità” che si presentano per vivere più a fondo nel mio contesto, ed è con quest’atteggiamento di fondo che vivo questo tempo estivo, dove con la complicità il caldo e delle giornate vissute all’aperto, ho avuto qualche occasione in più per lasciarmi contaminare, coinvolgere e interrogare dagli incontri. La dimensione dell’abbandono è fortissima nella mia vita di fede, nel mio vivere e intrecciarmi con Dio, l’abbandono è sempre frutto di una fiducia smisurata, di un intimità che non è mai intimismo, che non si vive sempre ma sempre è possibile sperimentarla, soprattutto sento che l’abbandono non è un punto d’arrivo, ma lo spazio, la dimensione, l’orizzonte di senso che permette il viaggio e la ricerca, quella di Dio, che non è “mai abbastanza” come diceva Carretto. La mia esperienza e la mia storia mi dicono comunque che tutto questo non è mai staccato dall’incontro con l’altro, non c’è un prima o un dopo, prima Dio poi gli uomini o viceversa, ma una contemporaneità, un “accadere allo stesso tempo” con  mille sfumature diverse che danno la percezione di essere  immersi in una pianezza di vita; per questo sento necessario vivere, o meglio provare a vivere la dimensione ” dell’abbandono fiducioso”  anche nella relazione con gli altri, così anche qui, come con Dio, non è mai un arrivo, ma un camminare, uno svelarsi, un entrare in conflitto, un accogliere il cambiamento, un ridare la giusta proporzione al mio sentire, alla mia persona e alla mia visione della vita. Nel concreto  questo si traduce prima di tutto nel “saper stare” nell’ambiente che mi accoglie e di cui mi sento parte;  nell’ aprire la mia casa sia per scambiare due chiacchiere ma anche per provare ad insegnare l’italiano in maniera informale ad un vicino che mi chiede questo favore; nello scambio di parole con la vicina di casa che non nomina mai il suo lavoro, mentre mi fa mille domande sul mio;  nell’ accogliere i saluti e garantire rispetto e accoglienza, nella chiarezza degli atteggiamenti che non confonde ciò che è malavita, sfruttamento con il malessere, la povertà e l’essere vittima e in questo non scendere mai a compromesso, essere per contro lucidi ed attenti; nell’entrare in relazione con quelle forze positive che possono generare vita e cambiamento in quest’ambiente, cercando quindi di coinvolgermi con altri che in questo quartiere provano ad essere creativi e attivi, affiancandomi a loro, coinvolgendomi, con- promettendomi: in tutto questo l’abbandono a Dio a agli uomini non solo è possibile, in tutto questo è soprattutto tangibile.
Intrecciarsi con gli altri

C’è un elemento che potrebbe apparire fuori contesto, ma che lega e rende possibile quanto espresso fin qui:  è il silenzio, che è  la modalità per raggiungere il punto dove si genera  il senso della mia vita e allo stesso tempo è  il “grembo” che si rende gravido della passione di Dio e che mi spinge ad uscire verso la novità. Senza l’esperienza e la frequentazione del silenzio penso sia difficile per me tenere i piedi per terra, ben chiaro che l’esperienza di deserto e solitudine va comunque sempre liberata dalle ambiguità che potrebbe generare.
Il silenzio anch’esso, è il luogo dell’esperienza e non della conquista, in esso non si possiede nulla, non si afferra, ma ci si inoltra, ci si spinge in avanti, ci si avventura, ci si appassiona al cammino più che alla meta. In questi giorni sono stato in Eremo ad Amandola, un posto che amo particolarmente e che vi consiglio di frequentare, qui non per fuggire ma per abbandonarmi.

amedeo.angelozzi@tiscali.it





martedì 9 luglio 2013

pellegrinaggio a piedi 2013

Ai miei compagni pellegrini che in 10 anni mi hanno permesso 
di vivere l'esperienza del "mettersi in cammino"



Al confine

Pianoro del Castelluccio
Dopo quattro giorni intensi di cammino, dove la fatica, il procedere a volte lento altre più deciso, dove il silenzio cedeva sovente il posto alla confidenza e alla consegna discreta della consapevolezza dei propri cambiamenti all’altro, eccomi di ritorno a casa, con una sensazione difficile da descrivere: mi sento da un lato come scavato e svuotato e allo stesso tempo rafforzato e motivato nel mio procedere quotidiano. Appena a casa non mancano segni di particolare accoglienza che mi ricordano che qui le relazioni hanno lo stesso ritmo del cammino/pellegrinaggio appena concluso,  le due esperienze si intrecciano e si arricchiscono reciprocamente di significato, l’una è metafora dell’altra. Durante il cammino ricevo un sms di G. “Maestro posso venire questa sera a studiare italiano?”, mi fa sempre sorridere quando mi chiamano maestro, spero che non crei comunque distanza anche se  al momento non sembra così, ci diamo appuntamento al mio ritorno. Nonostante la stanchezza la pseudo lezione d’italiano è piacevole, in particolare perché ci permette di parlare apertamente di tanti argomenti, di conoscerci pur nella differenza d’età che non è poca, ma probabilmente la scelta di emigrare e di affrontare quindi un progetto migratorio da solo, ha reso G. sicuramente più adulto rispetto a dei suoi coetanei; amerebbe continuare i suoi studi ma è qui da solo e quindi mi precisa che il primo impegno è quello del lavoro. Ci sono altri pachistani che con i loro genitori  sono qui da molti anni, così questo permette loro di studiare, ma lui non può. Spontaneamente il discorso tocca spesso le nostre rispettive esperienza religiose, con un rispetto che non ha assolutamente nulla di forzato o di convenevoli formali che in genere inquinano l’autenticità, e questo ci permette ancora una volta di intrecciare la curiosità di conoscere e di farsi conoscere. E’ un equilibrio per certi aspetti non facile da vivere, perché ciò che siamo e abbiamo è naturalmente percepito da noi stessi come bello, unico, importante, ma la reciprocità richiede di lasciar da parte le misure del “più bello”, del “più importante”, per dare spazio alla dinamica della complementarietà e dell’aggiungere: a quello che ho conosciuto e vissuto fino ad ora, aggiungo quello che tu mi stai donando, per andare oltre, non certo per arrivare ad una verità assoluta, ma per procedere con maggior passione. 
Fioritura al Castelluccio
Mi sono reso conto come non è semplice non cedere ai paragoni, percepire la propria identità attraverso il meccanismo della differenza dall’altro è spesso inconsapevole e quindi automatico, ma questo atteggiamento mentale e psicologico crea semplicemente un muro, un confine di separazione netta che non genera nessun cambiamento, non fa procedere, ma blocca, irrigidisce, rende la propria esperienza di vita immobile, e intenta semplicemente a ripetere se stessa, in una posizione di continua difesa e misurazione. Durante certi incontri come quello vissuto l’altra sera con G. esiste il confine, è chiaramente sperimentabile la differenza di prospettiva, come anche, pur nella diversità, si possono rintracciare degli elementi comuni  nell’esperienze di Dio quasi coincidenti. In tutte queste sfumature la reciprocità ci rende capaci di abitare la linea di confine, che diventa chiarezza, sforzo di comprensione, ascolto profondo, decentramento da se stessi. Scopro che questa dimensione è fondamentale per me e per la mia scelta di piccolo fratello, la mia opzione di vita contemplativa nel cuore del quartiere e delle masse è prima di tutto il modo per vivere, abitare e lasciarmi trasformare dalle esperienze possibili su questa “linea di confine”.


Racconta fr. Christian (monaco in Algeria ucciso nel ’96 con altri monaci) di un dialogo che aveva con un giovane musulmano del villaggio dove era situato il monastero, unica presenza cristiana in un contesto completamente musulmano:” E’ da tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo. L’immagine la usiamo quando sentiamo il bisogno di dialogare in profondità. Una volta per scherzo, gli chiesi: -e in fondo al nostro pozzo, cosa troveremo?. Mi ha guardato, tra il sorridente e il rattristato: - Ti poni ancora questa domanda? Sai, quello che si trova in fondo a questo pozzo è l’acqua di Dio”
amedeo.angelozzi@tiscali.it






mercoledì 3 luglio 2013

Metti in circolo le idee

Grazie Amedeo
per questi spunti. A commento mi viene da proporre una preghiera di don Tonino Bello che mi è stata donata in questi giorni da una persona cara. 
L'ultimo versetto, "da soli non si cammina più", mi sembra molto in sintonia con quanto ci scrivi.
Un caro saluto
Giorgio



La lampara
Signore, dai a questi miei amici e fratelli
la forza di osare di più,
la capacità di inventarsi,
la gioia di prendere il largo,
il fremito di speranze nuove.
Il bisogno di sicurezze li ha inchiodati
a un mondo vecchio...
Dai ad essi, Signore, la volontà decisa
di rompere gli ormeggi,
per liberarsi da soggezioni antiche e nuove...
Stimola in tutti, nei giovani in particolare,
una creatività più fresca, una fantasia
più liberante
e la gioia turbinosa dell'iniziativa...
Una seconda cosa ti chiedo, Signore.
Fa' provare a questa gente che lascio
l'ebbrezza di camminare insieme.
Donale una solidarietà nuova,
una comunione profonda,
una "cospirazione" tenace.
Falle sentire che per crescere insieme
non basta tirar fuori dall'armadio del passato
i ricordi splendidi e fastosi di un tempo,
ma occorre spalancare la finestra del futuro,
progettando insieme, osando insieme,
sacrificando insieme.
Da soli non si cammina più.
Don Tonino Bello

martedì 2 luglio 2013

La curiosità ci farà incontrare

Giornate splendide, finalmente il sole ha ripreso il suo posto di lavoro e garantisce alla stagione calore e caldo secondo la norma; il quartiere si trasforma, almeno in apparenza, grazie all’arrivo dei vacanzieri,  gli accenti si mescolano, anche se combinazioni linguistiche e geografiche sono sempre meticciate, infatti non è difficile sentire l’inflessione calabrese sulla bocca della signore che però vive a Milano, sono le prove concrete della nostra immigrazione interna, nessuna cultura può veramente dirsi né pura né sedentaria.
In queste settimane mentre preparo esami e tesi per chiudere il tutto a novembre prossimo, cerco di dare spazio anche al silenzio, ad una sorta di eremitaggio nel cuore stesso del quartiere,  sento che è importante rileggere il mio progetto di vita e lasciarlo contaminare, provocare, arricchire e anche modificare dal nuovo ambiente sociale e culturale, ma prima di tutto sono le relazioni che possono veramente portare un cambiamento reale, sono esse che mettono in luce quanto sto vivendo e possono anche dare una nuova direzione. Più faccio silenzio, più mi sento spinto ad approfondire gli incontri, a superare i confini, a sperimentare il decentramento, ogni volta che oso quest’esperienza non mi sento disperso  al contrario, pongo un tassello importante alla consapevolezza della mia identità. Questa giornata è sicuramente uno di questi tasselli: rientrando nel pomeriggio dopo la mia corsa sulla pista ciclabile, mi si avvicina S. con altri bambini suoi amici, sono tutti a scuola con me nei laboratori, con lui poi ho lavorato tantissimo, mi chiede dove abito e vuole venire a trovarmi, così mi accompagna fin sotto casa, “domani verrò, ci sei?”, è deciso nella sua richiesta, dal canto mio ho cercato tutte le scuse per tutelarmi, ma poi alla fine mi son detto che si tutela colui che si sente in pericolo, così alla fine mi lascio andare, mi faccio pochi problemi,  son qui per incontrare e stare con loro, non per barricarmi, mollo le difese e indico il mio appartamento. In serata ecco che suona il campanello di casa, con la bocca impastata di dentifricio, provo a urlare dal bagno un “eccomi”, che praticamente è soffocato dall’acqua del rubinetto che scorre in bocca, in certe situazioni poi tutto diventa complicato, non trovo infatti nemmeno l’asciugamano, “chi sarà?” classico dilemma quando proprio non aspetti nessuno.  Non ricordavo di aver dato disponibilità al ragazzo pachistano del primo piano per fare insieme un po’ di lezioni d’italiano, e lui nonostante la stanchezza di una giornata di lavoro come muratore eccolo alla mia porta, apprendere la lingua per lui è troppo importante per non affrontare anche questo sacrificio. Sono contento di accoglierlo nel mio mini alloggio di 26 metri quadrati. Mi ritrovo mio malgrado a fare lezioni di italiano come L2, faccio soprattutto leva sul ricordo dei miei primi mesi in Francia quando appena entrato in Fraternità dopo il lavoro nei campi, mi ritrovavo a studiare il francese, una fatica immensa, con il cervello che mi urlava “basta”. 

E’ un incontro piacevole il nostro, sento che nasce da un riconoscimento reciproco, che nasce da un bisogno espresso  apertamente e dalla mia disponibilità poco calcolata, credo in effetti che “ci dobbiamo riconoscere e apprezzare” per poterci veramente incontrare. Il dialogo si è allargato a più argomenti, probabilmente contaminato dalla curiosità reciproca, questa invece più nascosta, meno esplicitata, ma poi come ogni cosa non detta, condiziona comunque la relazione; così inevitabilmente siamo approdati alle nostre rispettive religioni, quella musulmana e quella cristiana: entrambi abbiamo posto l’uno all’altro quanto per noi è importante, senza la prepotenza della propaganda o della difesa, “mi fa piacere che conosci qualcosa della mia religione- mi ha detto- anch’io conosco della Bibbia”, “ sono curioso di sapere come preghi”. Ci siamo ritrovati su un punto: il silenzio nella preghiera.
Mentre chiudo questa giornata rileggo quanto ho scritto sul mio progetto personale: “nella vita quotidiana sarò costantemente di fronte ad ogni uomo, la capacità di uno sguardo libero e liberante mi farà riconoscere in ognuno la presenza di Dio; questa è per me il frutto e il senso della mia scelta di vita contemplativa e di piena intimità con Dio, che nelle relazioni mi chiama ad essere un piccolo fratello.”

amedeo.angelozzi@tiscali.it
Quando l’altro nella sua diversità ti permette di comprendere te stesso, allora veramente ci si scopre appartenenti alla stessa razza umana, l’unica.