Vorrei davvero tanto che le
parole ritrovassero una loro umiltà profonda, quella capacità di comprendere
che si è parte di un insieme e non il centro dell’insieme, umiltà è quel
viaggio profondo, lento e a tratti resistente, che ci porta lì al punto d’incontro
tra ciò che siamo realmente e ciò che sentiamo di essere, l’umiltà è un bacio e
un abbraccio che si produce in noi, è un “far luce”, uno svelare e
quindi un gesto leggero, rispettoso, libero e meravigliato di chi sfila via un
velo che ha coperto per troppo tempo il vivere; l’umiltà è una riconciliazione profonda che ci
apre gli occhi sul reale e ci fa cogliere in profondità la vita e soprattutto la
vita di relazione. Le nostre parole
hanno allora bisogno di baciare e abbracciare il silenzio, in un gesto sensuale e generativo che porta
inevitabilmente altrove, nei terreni inesplorati dell’umano. Il silenzio quando
non è voragine che ingoia, quando non è assenza disperata o negazione di
contatto, diventa grembo e spazio donato, diventa acqua fresca di sorgente, calore che non inaridisce e
fuoco che non consuma, ma plasma e modella. Al suo contatto la parola torna a generare, apre e
spalanca l’orizzonte, coglie in un suono l’inaspettato, nel senso racchiude un indicazione,
ma non soffoca nessuna sfumatura; la
parola pronunciata nel cuore del silenzio è un suono preciso che sa includere
in se la pluralità dei significati, per questo la parola si nutre del desiderio
di essere accolta.
Sento il bisogno profondo che l’abbraccio
tra silenzio e parola, avvenga coraggiosamente in questo oggi, irrompa
inaspettatamente in questo tempo, spezzi schemi e certezze, provochi e penetri
come inciampo nella corsa folle della nostra comunità umana chi rischia di
chiamare nichilismo libertà.
In quel sabato Dio e l’Uomo si
fanno compagnia nell'essere privi di orientamento e nel punto più alto d’intimità
ritrovata, il sepolcro non può che essere vuoto.