sabato 6 gennaio 2024

Siamo echi di chi ci ha sognato

     


E’ tempo di ri-mettersi in cammino, così il movimento necessario da compiere è quello di saper abitare il proprio cuore, non per contemplare se stessi, ma per essere disponibili e attenti a ricevere quella “parola che viene dall’altrove”. Quando lei arriva, quel dimorare stabile in sé stessi non è semplicemente una quiete, non è rifugio o nido caldo, diventa paradossalmente il luogo della partenza e l’inizio del rischio. La “parola che viene dall’altrove” è ciò che non puoi calcolare né ben definire, non corrisponde necessariamente alle tue attese o aspettative, è la parola di altri, per questo è meraviglia, è sconosciuta, imprevedibile, inaspettata, è destabilizzante e allo stesso tempo generativa, perché segna e indica un orizzonte non più manipolato da te: ti conduce in un altrove, dove potrai finalmente trovare casa e riconoscere il tuo volto.

Per mettermi in cammino sento estremante necessario ricevere questa “parola”, che non è mia, ma la ricevo.

                Posso guardare le mie mani, osservare i miei piedi, riuscire a guardare più o meno consapevolmente la forma del mio corpo, ciò che non posso assolutamente fare è mettermi di fronte al mio volto e conoscerlo; il volto è la parte di me che è quotidianamente assente dai miei occhi e quindi non è alla portata del mio controllo. Ho bisogno dell’altro per consapevolizzare il mio sguardo e l’identità del mio viso oppure devo ricorrere a mezzi specifici, come il riflesso in uno specchio.

Ciò che sento e percepisco di me non sempre corrisponde a ciò che gli altri mi rimandano “guardandomi in viso” e molte volte mi sembra che anche lo specchio inganni.


Dobbiamo allora correre il rischio, di lasciarci guardare e di “riceverci” attraverso gli sguardi, i gesti e le parole dell’altro; occorre ascoltarsi, certo; essere consapevoli di noi stessi, sicuramente; non lasciarci condizionare e ingabbiare dall’ambiente esterno e culturale, senza dubbio;  ma  se non assaporassimo l’impotenza e la vulnerabilità che è insita nella scelta di riceversi dall’altro, il rischio è quello di bastare a noi stessi e di definirci come il “senso” e il “perimetro” migliore del nostro esistere, e chiunque può comprende che questo è davvero poco, oltre ad essere semplicemente narcisistico.

È in questo orizzonte e in questa dinamica del “riceversi dall’altro”, che sento emergere, come da una sorgente profonda e già presente in me, il desiderio costante di abitarmi come luogo “già abitato”, lo spazio visitato da una Parola,  la quotidianità fecondata dall’essere ospite e ospitante nello stesso momento. In questa stanza silenziosa, intima e dai confini incerti, non cerco l’ eco alla mia voce, non riverbero me stesso, non ho l’obiettivo di bastarmi, al contrario, mi lascio raggiungere, interrogare, destabilizzare, mi lascio abitare non da un “me” pacificato, non saprei che farcene sinceramente,  ma da un “noi” in cammino.


La Sua presenza è costante, il Suo raggiungermi è molto spesso “l’avermi atteso e preceduto”, è una delicatezza smisurata la fedeltà con cui Lo ritrovo nella mia storia, Lui è una carezza e un abbraccio mai chiuso, mai sufficiente, non è il “fine ultimo”, è piuttosto un eterno inizio; è apertura, è domanda, è eco di altre voci, per questo Lui è quella “Parola venuta dall’altrove”: dall’umano che ha sognato e consegnato a noi perché ne completassimo il capolavoro.