mercoledì 29 maggio 2013
sabato 25 maggio 2013
Piramidi e Kimono
Lo spazio della cappellina che ho creato nel mio appartamento
è volutamente piccola ed essenziale, mi piace che anche nella sua forma,
accompagni la mia ricerca di silenzio e di intimità con Dio in questo contesto ben preciso e
caratterizzato dalle sfumature culturali e religiose le più diverse;
dall’inizio della mia esperienza con i piccoli fratelli del Vangelo ho
acquisito questa sensibilità e questa priorità, di avere cioè un luogo nella
casa che sia adibito alla preghiera; Charles de Foucauld ne faceva il centro
del suo eremitaggio e il punto di partenza per dare senso ad ogni relazione che
costruiva con i vicini, mi ha sempre colpito e provocato allo stesso tempo,
questa sua ricerca del silenzio e del cuore a cuore con Dio come fonte del suo
saper stare con gli altri, come grembo che genera l’incontro tra diversità, era
l’unico cristiano in un contesto culturale e religioso completamente differente
dal suo.
K., il ragazzo
indiano che conosco, invitandomi un giorno nel suo appartamento, mi ha mostrato
la sua stanza e mi ha detto che lì lui pregava, nella parete sopra il letto
campeggiava una grande immagine di una divinità induista, è incredibile come in
questo palazzo ci sia veramente di tutto: la mia cappellina, la preghiera
induista di K. le famiglie musulmane dei pachistani, le ragazze che vengono
fatte prostituire, il vicino travestito, i canti pentecostali ad alto volume
della famiglia nigeriana e tanto altro che probabilmente ancora non conosco; comprendo
perfettamente quando nella Bibbia si legge: “… si chiamò Babele, perché là il
Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su
tutta la terra”
Gen 11,9.
L’incontro è possibile anche con questa diversità così evidente e distante? Posso lasciarmi contaminare da mondi e realtà umane le più disparate e anche in conflitto tra loro, senza disperdermi? Istintivamente risponderei subito di “sì”, ma è rischioso in quanto posso cadere nella trappola del buonismo e dell’esotismo, ossia l’esaltazione esasperata e sovrastimata del differente da sé, che poi altro non è che un etnocentrismo al contrario, preferisco provare a starci in questo condominio babele e prima di tutto “starci in silenzio”, contemplando questa diversità abitata e voluta di Lui. Il quotidiano mi offre subito uno spunto interessante, anzi un esempio concreto, che ha un nome ben preciso: Kazumì, è una delle prime persone che ho conosciuto a Porto Sant’Elpidio è di origine giapponese e da 31 anni vive qui in Italia, ha coniugato con la fantasia e la precisione di un artigiano la sua cultura di origine con quella del paese che l’ha ospitata, il suo è stato un decentramento culturale non semplice, sperimentato in un momento storico durante il quale l’immigrazione era ancora sconosciuta in Italia, per questo, come racconta spesso, la sua diversità era visibile, troppo visibile. Con lei e forse grazie a lei e alle sue attenzioni, sono andato a visitare una famiglia egiziana, perché come mi dice spesso Kazumì, occorre sostenere, incoraggiare e incontrare concretamente le persone che vivono la fatica dell’inserimento. La delicatezza e la concretezza con cui questa donna giapponese ha incontrato, ascoltato e individuato immediatamente il vissuto della donna egiziana, è stato l’esempio più concreto di come le diversità possono generare percorsi d’incontro non banali, ma reali, di come l’uniformità non è necessaria per il dialogo e di come soprattutto il riconoscersi un po’ nella storia e nel vissuto dell’altro, questo si, permette un ritrovarsi nell’appartenenza comune: quella umana. Sono ben consapevole che esistono situazioni in cui la conflittualità è ben più difficile da vivere, il quotidiano mi mostra anche il suo lato più violento, le tinte forti del disprezzo e del pregiudizio, dell’arroganza frutto di un sentimento presunto di superiorità, atteggiamenti questi che non sono estranei a nessuna cultura e a nessuna religione, pur consapevole di questo, non voglio togliere lo sguardo però dalla delicatezza di Kazumì e dalla sua capacità di saper incontrare nel quotidiano le persone, riconoscendo sempre una qualità positiva nell’altro.
Gen 11,9.
L’incontro è possibile anche con questa diversità così evidente e distante? Posso lasciarmi contaminare da mondi e realtà umane le più disparate e anche in conflitto tra loro, senza disperdermi? Istintivamente risponderei subito di “sì”, ma è rischioso in quanto posso cadere nella trappola del buonismo e dell’esotismo, ossia l’esaltazione esasperata e sovrastimata del differente da sé, che poi altro non è che un etnocentrismo al contrario, preferisco provare a starci in questo condominio babele e prima di tutto “starci in silenzio”, contemplando questa diversità abitata e voluta di Lui. Il quotidiano mi offre subito uno spunto interessante, anzi un esempio concreto, che ha un nome ben preciso: Kazumì, è una delle prime persone che ho conosciuto a Porto Sant’Elpidio è di origine giapponese e da 31 anni vive qui in Italia, ha coniugato con la fantasia e la precisione di un artigiano la sua cultura di origine con quella del paese che l’ha ospitata, il suo è stato un decentramento culturale non semplice, sperimentato in un momento storico durante il quale l’immigrazione era ancora sconosciuta in Italia, per questo, come racconta spesso, la sua diversità era visibile, troppo visibile. Con lei e forse grazie a lei e alle sue attenzioni, sono andato a visitare una famiglia egiziana, perché come mi dice spesso Kazumì, occorre sostenere, incoraggiare e incontrare concretamente le persone che vivono la fatica dell’inserimento. La delicatezza e la concretezza con cui questa donna giapponese ha incontrato, ascoltato e individuato immediatamente il vissuto della donna egiziana, è stato l’esempio più concreto di come le diversità possono generare percorsi d’incontro non banali, ma reali, di come l’uniformità non è necessaria per il dialogo e di come soprattutto il riconoscersi un po’ nella storia e nel vissuto dell’altro, questo si, permette un ritrovarsi nell’appartenenza comune: quella umana. Sono ben consapevole che esistono situazioni in cui la conflittualità è ben più difficile da vivere, il quotidiano mi mostra anche il suo lato più violento, le tinte forti del disprezzo e del pregiudizio, dell’arroganza frutto di un sentimento presunto di superiorità, atteggiamenti questi che non sono estranei a nessuna cultura e a nessuna religione, pur consapevole di questo, non voglio togliere lo sguardo però dalla delicatezza di Kazumì e dalla sua capacità di saper incontrare nel quotidiano le persone, riconoscendo sempre una qualità positiva nell’altro.
martedì 21 maggio 2013
domenica 19 maggio 2013
domenica 12 maggio 2013
Una lingua per giocare e una per litigare
Pomeriggio assolato, splendido, i colori risaltano, i
palazzi non certo frutto di ricerche architettoniche particolarmente ispirate
al bello, sembrano quasi assumere un aspetto più colorato, ma al solito sono i bambini
e le persone che escono come formichine nei giardini pubblici, a rendere
l’ambiente sicuramente più piacevole e vivace. Mentre cerco la motivazione per
studiare o forse sarebbe più esatto dire, mentre mi forzo nello studio in vista
di un prossimo esame, sono colpito dalle voci fragorose dei bambini sotto casa,
stranamente tutti parlano italiano, non resisto è sicuramente un buon motivo
per interrompere lo studio di Leopardi e verificare se quei bambini li conosco.
Nel piccolo cortile antistante, un nutrito gruppo di bambini di famiglie
cinesi, lo hanno invaso o occupato abusivamente scavalcando la recinsione, li
conosco quasi tutti, sono un gruppo misto di maschietti e femmine, improvvisano
e organizzano una partita di pallone, tutti parlano un buon italiano ed il
gioco si svolge con le regole concordate in italiano. Come i ogni gioco sano
che si rispetti arriva anche il momento della contrapposizione e del conflitto,
il più piccolo viene escluso o
manipolato per ottenere una facile vittoria, immancabile è il piano del mal
capitato, ed ecco che cambia la lingua della comunicazione, i sentimenti più
forti, viscerali, le emozioni della rabbia e della tristezza, come anche la
ribellione per un ingiustizia subita, vengono immediatamente espressi nella
propria lingua madre: il cinese.
Quando le emozioni che proviamo sono forti, quando è
l’istinto che prevale sui nostri comportamenti, quando sentiamo che dobbiamo
difenderci, allora i tanti modi per esprimere quello che sentiamo è ben
sintetizzato nell’unico idioma che non
incontra nessuno sforzo nell ‘uscire dalla nostra bocca, è la lingua madre. Le
espressioni linguistiche che con maggior efficacia esprimono la nostra
identità, che sanno dare voce alla nostra intimità, che sembrano nate con noi,
sono le espressione della lingua che ci è stata trasmessa da nostra madre.
Quando ero in Francia e ho avuto dei
colloqui con un psicologo per meglio rielaborare l’esperienza che stavo facendo
in fraternità e superare alcuni momenti di difficoltà che stavo vivendo,
ricordo molto bene come per esprimere gli aspetti più intimi di me,
incominciavo inconsapevolmente a parlare
in dialetto e mi accorgevo del cambio della lingua solo dall’espressione
smarrita dello psicologo, che fino a quel momento mi aveva sentito parlare in
francese.
Osservando ancora dal
mio piccolo balcone, scorgo nel grande prato vicino casa che altri bambini
hanno invaso lo spazio e il pallone li ha aggregati immediatamente, anche in
questo caso li conosco quasi tutti, sono albanesi, nigeriani, ivoriani e
pachistani, li sento ridere e scherzare in italiano, un buon italiano. Osservo
tutto questo e resto in silenzio perché come adulto ho desiderio di nutrirmi di
questa ricchezza,di lasciarmi contagiare da questa realtà, che supera enormemente il nostro mondo di
adulti. Ieri pomeriggio il comune ha organizzato una festa interculturale, al
solito musica e cibo che vengono messi uno al fianco dell’altro, con
l’illusione di operare per l’intercultura, ma in realtà noi adulti non siamo
così capaci e flessibili a lasciare le nostre rigidità e i nostri etnocentrismi
, per questo tutto resta “fianco a
fianco”, ma nulla si compenetra; conosco diverse persone, molte sono del
quartiere, il mio amico pachistano mi ha invitato a partecipare, lui cerca
veramente di mettersi al servizio di tutti, e con un italiano compromesso dall’emozione, dice una frase a mio parere la
più provocatoria di tutta l’iniziativa: i nostri figli sono qui, tutti insieme,
noi dobbiamo aiutarli a vivere insieme sempre; so di questa sua convinzione
perché ne abbiamo parlato spesso, ma poi basta poco per verificare che è
autentico, poco sotto suo figlio è seduto e parla con estrema confidenza con un
suo amico cinese, anche loro parlano correttamente italiano, scherzano in
italiano e appena si accorgono di me mi salutano e dai loro sorriso percepisco
che sono contenti di vedermi li, ci tengono a ricordarmi i laboratori che hanno
fatto con me a scuola, entrambi sono in
Italia da quando erano molto piccoli per questo il loro italiano non ha nemmeno
un inflessione dialettale o accento straniero.
Mentre i grandi sgomitavano per presentare al meglio la loro
cultura ed è comprensibilissimo, i più giovani nella loro spontaneità e
naturalezza mostravano silenziosamente, ma efficacemente che il cambiamento è
già in atto.
lunedì 6 maggio 2013
Contemplare con i piedi o contemplare i piedi?
La notizia che è stato creato un ministero per
l’integrazione, guidato e affidato alla competenza di un ministro donna di
origine congolese, ha scatenato reazioni e commenti di contenuto talmente basso
e privo di livello minimo d’intelligenza e coscienza della realtà, che ci
permette di prendere consapevolezza di quanto l’attuale contesto culturale
italiano sia in questo momento fuori dal quadro internazionale, fermo ad un provincialismo incapace di
cambiamento e privo di strumenti efficaci
per interagire con quella che è la dimensione multiculturale di molte nazioni;
la globalizzazione, la migrazione dei popoli e delle culture, la capacità di
essere interconnessi da una parte all’altra del globo con un semplice clik, ha
dato il via ad un processo di meticciamento inarrestabile, essere fuori da
questo meccanismo, continuare ad arroccarsi dietro alle battaglie di difesa di
un identità culturale, non è altro che il segno di un’ incapacità nell’affrontare
sia i cambiamenti che l’evoluzione naturale della storia . Leggevo e ascoltavo
per radio in questi giorni come è aumentato il numero dei giovani che hanno
ripreso ad emigrare fuori dall’Italia, in cerca di possibilità lavorative e di
vita, anche loro si uniranno alle migliaia di giovani che nel nostro paese sono
arrivati con le stesse speranze e le stesse fatiche, sia gli uni che gli altri,
saranno elementi di cambiamento nei contesti che abiteranno e che abitano. Come
più volte ho scritto e condiviso, il mio contesto di vita attuale è un micro
cosmo interculturale, dove in uno spazio non eccessivamente grande, si
intrecciano culture, lingue, tradizioni, religioni, speranze, cambiamenti,
disagio sociale, malavita e…quotidianità. I bambini della scuola del quartiere,
interagiscono tra loro con naturalezza, sono abituati alle diversità
linguistiche, a casa la lingua dei genitori e a scuola l’italiano, molti di
loro sono nati qui e questa è la realtà che conoscono e dove lentamente
crescono, una realtà molto diversa da quella dei loro genitore, ma anche molto
diversa da quella che abbiamo conosciuto noi nella nostra infanzia. Un giorno
dal mio balcone ho osservato la naturalezza con cui una ragazza cinese
scherzava con l’amica indiana, mentre tornavano a casa dopo la scuola, loro
sanno vivere insieme fin tanto che noi adulti non li travolgiamo con le nostre
paure, i nostri pregiudizi e le nostre rigidità culturali. Qualche anno fa una
mamma africana raccontava alle maestre come nel primo viaggio in africa della
propria figlia, che era nata in Italia, abbia dovuto portare con se la pasta
perché la bambina non riusciva a mangiare sempre il cibo tradizionale e dopo una settimana lì, la bambina ha esclamato: “- ma
qui sono tutti neri?”, mentre noi continuiamo a scandalizzarci e strapparci le
vesti per un ministro italiano d’origine congolese, le nuove generazioni hanno
già fatto il salto in avanti.
Per alcuni aspetti quest’ambiente è una frontiera, una zona
di rottura e fratture, d’incontri faticosi, conflittuali e allo stesso tempo è
lo spazio della novità, del cambiamento, della società che modifica se stessa e
gli individui, delle culture che si mescolano, ma soprattutto è il luogo in cui
le nuove generazioni, con il loro meticciamento, rendono visibile il futuro. E’
qui che il Vangelo mi spinge a mettere radici, è qui che prende forza
l’indicazione che Gesù risorto da ai suoi discepoli, quando dice loro “vi
precederò in Galilea”, la Galilea delle genti. E’ in luoghi e contesti come
questi che sento la necessità di vivere in silenzio nelle relazioni quotidiane,
per essere testimone del cambiamento possibile, per esercitare lo sguardo e
scorgere i segni dei tempi, ossia fatti, persone, incontri che indicano
profeticamente la direzione che porterà benessere e pienezza di vita per tutti.
In questo mese riscopro il senso anche della scelta della vita contemplativa,
che è elemento essenziale della spiritualità di nazareth, contemplativi in
questi contesti sociali significa essenzialmente saper guardare e riconoscere
la vita, vuol dire abitare anche i conflitti e le fatiche e in essi scorgere la
novità che ogni crisi genera. Essere contemplativo nel cuore del quartiere mi
spinge a non semplificare la realtà, a non spiritualizzarla, il cuore a cuore
con Dio diventa esperienza profonda e concreta nel momento in cui i piedi sono
ben piantati per terra e le mani raggiungono liberamente l’altro lì dove è.
Oltre al bello e alle speranze che i bambini e i ragazzi del quartiere mostrano
nella loro spontaneità, vedo anche la violenza, il degrado che alcune persone
vivono, le fatiche delle donne immigrate, anche questi sono luoghi da abitare
nel silenzio.
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