Partecipando ad un incontro organizzato al Centro Culturale San Rocco a Fermo, ho potuto riscoprire un testimone della fede che ancora oggi ha molto da dire, un profeta che continua a provocare, a porre domande, a suscitare speranza, è padre Ernesto Balducci.
Dopo qualche giorno per posta elettronica, d.Mario mi spedisce questo documento, leggendolo mi sono convinto che quando le riflessioni sono autentiche e frutto dello sforzo di compromettersi fino in fondo con la realtà che si vive, allora le parole non restano vuote e superano il limite del tempo, restano attuali, perchè sono pronunciate da chi sa guardare nel cuore degli uomini, sono per questo parole di fede, sono parole profetiche:
DOBBIAMO VIVERE INSIEME
(Ernesto Balducci dal Secolo XIX del 26 gennaio 1992)
Il
moltiplicarsi degli episodi di «razzismo» in tutta l'area occidentale (ma
bisogna prepararsi: ne avremo presto anche nell'Est europeo, in fase rapida di
omologazione) pone uno dei problemi radicali con cui deve confrontarsi ogni
progetto politico, da quello di una semplice amministrazione civica a quello
della Comunità europea. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle simbologie e
dalle fraseologie, spesso antisemitiche, che rimandano al razzismo ideologico
hitleriano. Niente di strano che gli
automatismi del razzismo prebellico continuino a funzionare: essi forniscono
l'orizzonte immaginario di maniera a cui ricorre preferibilmente
l'incultura. Ma l'impianto della nuova
forma di razzismo, che io chiamo «fascismo etnologico», e, a mio giudizio, del
tutto diverso.
Esso ha radici nell'ancestrale paura del diverso, e trova
le sue ragioni immediate nella difesa della condizione di privilegio
minacciata dall'arrivo di nuovi ospiti, gli immigrati dal ,Sud. Essi
non sono più gli immigrati di altri tempi, destinati prima o poi all'assimilazione
dentro la cultura che li accoglieva. Quando essi arrivano, trovano già uno
spazio culturale omogeneo a quello d'origine. Il fatto nuovo è che la società
capitalistica, in forza della stessa legge di mercato che ha fatto la sua
fortuna, è costretta a ospitare vere e proprie comunità etnicamente aliene
dalla sua cultura. [...]
Io sono tra quelli che ritengono inevitabile e, alla
fine, provvidenziale un'Europa multietnica, ma mi rendo conto che questa
previsione è un lusso da intellettuale, che rischia di mettere a pié pari la
drammaticità del processo che la metamorfosi presuppone. E infatti il processo non avviene all'interno di una
cultura della solidarietà, come quella che, grazie a Dio, sta crescendo negli
ambienti cristiani; avviene dentro una cultura della competizione, giunta al
massimo della sua diffusione. I protagonisti degli atti di neorazzismo sono
infatti quasi sempre dei «balordi», che recepiscono e trasmettono a livello
istintuale una provocazione che andrebbe mediata da una cultura illuminata.
Sono i prodotti tipici della «pedagogia» televisiva, in cui dominano i forti e
i bravi; in cui, per dirla tutta (penso agli spot televisivi), il modello
d'uomo è un mammifero vorace, dai muscoli efficienti, pronto al successo quale
che sia.
Questa ideologia, svuotata di ogni lume di ragione, fa
presa con la voglia di affermazione il cui sbocco preferito appunto, l'atto
aggressivo contro il diverso. Infatti, se si spoglia l'uomo di ogni struttura
culturale resta in lui la paura dell'altro, la percezione che la propria
identità e messa in rischio dalla presenza dell’alterità.
Che siano, in molti casi, i poveri, i disoccupati, i
sottoproletari, gli emarginati di casa nostra a farsi protagonisti di gesti
deplorevoli non deve far meraviglia: sono
proprio gli incolti a subire i riflessi di insicurezza causati dalla presenza
dei diversi. Con una proiezione elementare essi riversano su chiunque
rappresenti la diversità, magari con il colore della pelle, la brutale
aggressività con cui scongiurare la paura, capovolgendola nel trionfo. La bravata li solleva subito al rango
degli uomini di successo, i veri eroi della cultura dominante.
Detto questo, mi si permetta di definire col massimo
della semplicità la questione etico-politica sollevata dalla cronaca del
neorazzismo in un momento come questo, in cui l'Europa, a dispetto dei suoi
trionfi, soffre di una drammatica assenza di progettazione del proprio futuro.
Dato per scontato che la presenza dei gruppi etnici diversi dal nostro si farà
più massiccia, si aprono due vie: quella della lenta assimilazione, di modo che
in una o due generazioni gli immigrati diventino in tutto come noi, fuori che nel
colore della pelle; o quella della convivenza tra gruppi etnicamente e
culturalmente diversi. Come ho detto, io credo che la via giusta — una via che
ci porta oltre il mondo moderno, in una postmodernità dal profilo
inafferrabile — sia quella della convivenza. Ma se questo è vero,
dobbiamo affrettarci a predisporre gli strumenti necessari — a cominciare dalla
scuola — perché questo futuro si avveri senza traumi. Sarà anche giusto
mettere in prigione i balordi dalla testa rapata, ma quel che occorre è una
rapida instaurazione della cultura della diversità. Le culture che si chiudono
su di se sono condannate a morire. La nostra non fa eccezione.