venerdì 21 dicembre 2012

Buon Natale


La parola data




L’estate scorsa mi sono occupato di un progetto con delle persone anziane, uno spazio d’incontro e d’ascolto per permettere loro di raccontare la propria esperienza di vita e scoprirne il senso profondo, un’esperienza lavorativa molto particolare, nuova per me, perché non avevo mai organizzato qualcosa per delle persone adulte e avanti nell’età. In uno di questi gruppi, ho incontrato un uomo di 90 anni, calmo, sereno, ironico e soprattutto consapevole della propria storia e del proprio vissuto;  non si imponeva  ma se invitato, volentieri  apriva squarci di vita e ci poneva di fronte a delle letture dell’esistenza semplici e concrete. Fabbro da quando era ragazzino, mestiere appreso con passione nelle botteghe, artista perché la passione per il mestiere diventava espressione di sé. Quest’uomo mi ha raccontato molto della propria vita, si era creata una certa complicità e confidenza, non era per me il nonno da ascoltare con tenerezza, lo scambio era fluido e immediato. Un giorno mi ha raccontato della sua fede e del rapporto con Dio, per nulla bigotto il suo parlare, concreto e senza moralismi, così mi sono sentito libero di raccontargli di me, della mia scelta come laico consacrato. Visto che era capace di fare lumini ad olio, gli ho chiesto di realizzarne uno per la cappellina. E’ passata l’estate ed è arrivato anche l’inverno e il 19 dicembre abbiamo avuto la presentazione del libro dei loro racconti. Con mia grande sorpresa non lo vedo presente e un po’ mi dispiace, mi dicono che c’è una sorpresa per me, immaginavo i soliti regali di ringraziamento, preparo la faccia di circostanza, invece…
Raccontano che Ulderico per tutto questo tempo aveva chiesto di me, telefonava in comune quasi tutte le settimane, oppure andava di persona: “ma quando viene Amedeo devo dargli una cosa”; non era presente perché è venuto a mancare otto giorni prima di quest’incontro, così suo figlio ha voluto consegnarmi il regalo di suo padre: “ voleva proprio dartelo, ci teneva”. Non ricordavo assolutamente del lumino, spesso corro troppo, così anche gli incontri o i momenti forti che posso vivere con una persona rischiano di durare il tempo di un sorriso, ma Ulderico ha dato valore, spessore, significato alla sua promessa  e prima ancora ha dato forza e riconoscimento al nostro scambio. Questo suo gesto, questa sua attenzione, la sua costanza credo che abbia la forza dirompente della vita e di quanto le relazioni autentiche, libere, disinteressate possono trasformare, scuotere, provocare il nostro vivere abitudinario. Il lumino è quello che vedete nella foto, ora è nella cappellina del mio appartamento, segno concreto di come posso vivere in questo quartiere.     

“Gli incontri di ogni giorno costituiscono i fili di cui è intessuta l’esistenza: non posso lasciarne cadere nemmeno uno” 
  E. Von Broeckhoven  (gesuita e prete operaio, morto in fabbrica a soli 36 anni).





mercoledì 19 dicembre 2012

Il concorsone non lo sa


Al mattino appena sveglio sento  i bambini del palazzo che scendono per andare a scuola, si trovano tutti insieme alla fermata dello scuolabus, ci sono anche le mamme, i più piccolo hanno necessità di essere accompagnati, si mescolano colori, lingue, abitudini differenti, qui mi sembra che non ci sia una vera e propria maggioranza, c’è il mondo con tutte le sue sfumature. Gli stessi bambini li ritrovo poi a scuola quando come educatore lavoro su progetti interculturali e sui laboratori creativi, in questo caso mi rendo conto di quanto possiamo veramente essere capaci di creare relazioni e possibilità nuove per questi bambini. Mi fermo spesso ad osservarli, mi lascio contagiare dalla loro spontaneità che, attenzione, nei bambini non è sempre frutto della loro ingenuità, non sottovalutateli mai, sanno anche essere aggressivi e prepotenti, ma ciò che mi colpisce è la loro comunicazione; oggi ad esempio una bambina di origine cinese, arrivata da poco, comunicava attraverso gesti, sorrisi e parole in cinese, con un bambino nigeriano, il quale ha tenuto a comunicarmi che lei non parlava ancora in italiano, attenzione non mi ha detto che non parlava, ma che non usava la lingua comune, cioè l’italiano: complimenti bella sfumatura.

L’altro è anche come lo vediamo e percepiamo, l’idea o l’immagine che ci facciamo di lui, né condizionerà inevitabilmente anche la relazione, se per esempio per me l’altro “non parla”, equivale a dire che non è capace, ha un handicap, ma se non parla una lingua specifica, vuol dire che al momento la deve ancora  apprendere, ma resta il fatto che è una persona capace di parlare, di ragionare, di esprimere pensieri e sentimenti attraverso un altro idioma, in breve si riconosce la persona nella sua interezza, nella sue capacità, nella sua storia, non parlare in italiano è un particolare che non lo svaluta. E’ chiaro che questa ultima riflessione il piccolo nigeriano non l’ha prodotta, ma come tutti i bambini, l’ha vissuta.
Mentre osservo, condivido subito con l’insegnante la considerazione che faccio e il nostro diventa uno scambio, non solo professionale, ha una sfumatura particolare: loro sono nella scuola da molto tempo, conoscono il quartiere e le famiglie, si interessano di tanti aspetti e non solo della didattica, in questo contesto ho la possibilità di vivere l’impegno educativo che lascia i panni del freddo intervento professionale e si fa contaminare dalla realtà e interagendo con essa trova le migliori strategie per promuovere il ben- essere dei bambini.
Con queste insegnanti e il personale ATA  vivo un’ amicizia, mi hanno arredato la nuova casa, hanno appoggiato da subito il mio progetto d’inserimento, sanno della mia scelta come piccolo fratello e ne condividono i passi; devo dire che sono state loro a farmi amare questo quartiere, mi hanno insegnato ad entrare con delicatezza nelle situazioni più difficili, non mi hanno mai indicato le povertà, ma i gesti che rimettono in campo la dignità. Sono a Lido3Archi per apprendere, non per fare, per saper riconoscere il positivo, non per mostrare la mia azione. Gesù dice agli apostoli. “Vi precedo in Galilea” e la Galilea è la regione delle genti, delle diversità, del mescolamento, Lui è già presente, ci abita da sempre.

Rientro a casa e mi immergo nel silenzio, nel cuore a cuore con Dio sento che solo così,  lentamente, sarò capace anche dello stesso cuore a cuore con questa gente…ma tutto questo il Concorsone non lo sa. 





venerdì 14 dicembre 2012


Quello che le donne non dicono


Mescolarmi, questa è la parola che più di ogni altra in questo momento della mia vita, risuona nella mia mente, non ancora nel mio cuore, in quanto passare dal pensiero razionale a quello emotivo, è necessario che l’esperienza venga integrata, è come la goccia d’acqua, sappiamo bene che con il tempo scalfisce e modifica la roccia, ma il risultato non è immediato; intanto senza forzare le situazioni provo a mescolarmi.

La riflessione di oggi parte da un fatto pratico, da una telefonata di un assistente sociale, sapeva della mia presenza nel quartiere, del mio lavoro con i bambini immigrati a scuola, per questo mi chiedeva  di intervenire in una situazione delicata. Una donna immigrata ha un bambino che presenta una grave disabilità, l’ostacolo della lingua non permette né a lei, nè agli operatori del servizio di poter comunicare e interagire correttamente nella gestione della situazione. Non sono un mediatore culturale e questo lo chiarisco subito, ma mi rendo conto che forse la prima cosa da fare  è individuare e attivare una rete di relazioni; molto spesso accede che le realtà sono già organizzate e le risposte sono presenti, basta osservare e individuare, mentre la nostra mentalità interventista, ci porta a non vedere le potenzialità esistenti per poterci percepire indispensabili. Decido quindi di non buttarmi troppo in avanti, ma di passare per altre strade. Il pachistano che mi ha certato l’appartamento conosce molte situazioni ed è molto attivo nel quartiere, è veramente una risorsa per tanti immigrati, infatti scopro immediatamente che non solo conosceva la realtà di questa donna, ma si era in qualche modo già attivato. Nel giro di una giornata eccoci tutti insieme a parlare con la donna e cercare insieme soluzioni possibili.

Durante l’incontro non devo fare assolutamente nulla, sono solo una presenza rassicurante per la donna, mi conosce come educatore della scuola e per il corso d’italiano che abbiamo fatto insieme, mi sorride e sembra contenta della mia presenza, almeno così percepisco. Ho una grande possibilità, quella di ascoltare ed osservare, mi accorgo che lentamente emerge in questa donna la fatica e il peso di una situazione che in un altro contesto, quello del paese d’origine, avrebbe condiviso con altri della propria famiglia, il fatto poi di non comprendere la lingua non gli permette né di chiedere, né di avere quindi informazioni precise su come comportarsi, fa come può forse per istinto, questo lo dice e lo ammette con delicatezza. La malattia o la disabilità di un figlio è una fatica e una ferita per tutti, ogni cultura poi sviluppa una propria visione della malattia, dandogli un preciso significato, ma lei è qui in un altro contesto, in un doppio isolamento: fuori dalla sua cornice culturale e lontana dagli affetti famigliari. Mentre si parla cerco di osservarla, e in due o tre occasioni incrociamo lo sguardo, gli faccio cenno di non aver paura, gli faccio notare che non è sola e che stanno trovando il modo per aiutarla. Quanti pensieri terrà chiusi in sé, quante parole non dette, quante richieste nascoste. Mi chiedo come possa apprendere una nuova lingua, quando la sua mente è impegnata su altri fronti, come possa tirar fuori le risorse necessarie per integrarsi nel nuovo contesto, quando tutto rimane chiuso dentro e non c’è nessun canale per poterlo fare emergere; quest’aspetto della migrazione è poco visibile e poco considerato, ma per alcune donne immigrate è una dimensione molto presente nel loro vissuto, sono sentimenti non detti.
C’è anche del positivo e lo individuo subito: la rete di sostegno emerge immediatamente, è fatta di altre famiglie della stessa nazionalità, della disponibilità del servizio a coniugare la propria risposta con la realtà culturale della donna, fino ad arrivare al coinvolgimento delle insegnanti che immediatamente si trasformano in compagne di viaggio di queste donne. Mi piace sentirmi parte di questa rete, disperso tra gli altri, mi piace soprattutto della possibilità che mi è stata data di restare in silenzio e di essere una presenza amica; mi torna in mente un passaggio che ho scritto nel mio progetto di vita: “per me essere testimone del Suo silenzio significa amare alla Sua stessa maniera: abitando nel silenzio il mistero di ogni uomo” 
e l’abitare genera sempre un cambiamento.










martedì 11 dicembre 2012


I numeri che non contano

Leggere è sempre una grande possibilità che regalo alla mente e al cuore, in questi giorni mi sono imbattuto in un bel libro "Chiedi alla sabbia, sulle tracce di Charles de Foucauld" di Raffaele Luise, un testo che parla non solo di fratel Carlo, ma di una realtà di Chiesa molto sconosciuta, ma a mio parere, molto profetica, parlo appunto della comunità cristiana che si trova in Algeria. Una piccola minoranza, per nulla intimorita da questa dimensione così ridotta e fragile per molti aspetti, e sopratutto libera da qualsiasi sentimento di proselitismo o rivendicazione, ciò che traspare da questi cristiani è il desiderio di essere e riconoscersi fratelli nell'umanità, con gli altri uomini e donne di diversa tradizione religiosa. Questo mi sembra profetico, il loro non sentirsi grandi o piccoli, il loro non rivendicare, ma unica preoccupazione di questa comunità è "saper essere" testimoni del messaggio evangelico, che si traduce nella costruzione di una fraternità condivisa tra le diversità. Le voci di questi profeti sono spesso sconosciute alla maggior parte delle persone, sono anche poco comprese, del resto a cosa serve stare in un paese a maggioranza musulmana e non poter aumentare il numero dei convertiti, cosa vuol dire abitare in un paese e rinunciare alla propria visibilità? Cosa vuol dire essere una minoranza? La Chiesa d'Algeria ha dato una risposta a quest'interrogativi, attraverso uno stile comunitario e una presenza concreta, questo è ciò che mi interessa, una Chiesa non intenta ad assicurarsi un futuro, ma interessata a generare vita negli altri, perché per questo è nata (cito una frase di fr Michael David Semeraro). Mi ha sempre colpito la testimonianza di alcuni piccoli fratelli o piccole sorelle che avendo vissuto in questo territorio, raccontavano della bellezza di una Comunità, che è fortemente radicata tra la gente, molti raccontano che nei momenti più difficili degli anni novanta, quando erano frequenti gli attentati o le stragi di stranieri in Algeria, le persone comuni hanno manifestato un senso di profonda gratitudine verso i cristiani, ancora oggi uomini e donne musulmane portano fiori sulle tombe di questi religiosi uccisi, c'è un continuo pellegrinaggio, non ha chiedere miracoli, come potremmo pensare, ma a celebrare la forza dell'amicizia e della vicinanza, vissuta in un momento difficile.


Pierre Claverie
 Il vescovo di Orano, Padre Claverie è una di queste voci potenti, perchè con la concretezza del suo vivere, con la passione per la gente, ha intessuto come un artigiano paziente ed appassionato, relazioni significative tra musulmani e cristiani, anche lui uomo scomodo e per questo ucciso in un attentato nel '96 dopo i Trappisti di Tibhirine. Sentite cosa scriveva: " Non vi è umanità che al plurale. Quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare a nome dell'umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell'esclusione. Nessuno possiede la verità, ognuno la ricerca, ci sono sicuramente verità oggettive, ma vanno al di là di tutti noi e alle quali non si può accedere che attraverso un lungo cammino, spigolando nelle altre culture, negli altri tipi umani, in ciò che gli altri hanno acquisito, hanno cercato nel loro particolare cammino. Scoprire l'altro, vivere con l'altro, capire l'altro non significa perdere la propria identità, rigettare i propri valori, significa invece concepire e preparare un umanità al plurale".
Sento in queste parole risuonare la forza del Vangelo, quella passione di Gesù di dare vita e non la preoccupazione di stabilire leggi divine o morali, sento che queste parole aprono un cammino concreto, sono uno strumento che può orientare il mio vissuto  qui nel quartiere dove le pluralità sono nei volti, nei suoni e spesso anche nei profumi delle cucine, ma sono parole che mi spingono otre, mi fanno guardare con speranza il futuro che sarà certamente plurale, perchè lo è già adesso. Ma questo sguardo non si assume immediatamente, deve passere per un lungo cammino, nulla posso dare per scontato.
Nella chiesa di nostra Signora d'Africa ad Algeri si trova questa scritta: "Nostra Signora d'Africa prega per noi e per i musulmani", nell'umanità ci ritroviamo tutti.









venerdì 7 dicembre 2012

L'Assekrem


Le dune di Lido3Archi

Charles de Foucauld aveva la possibilità di ammirare un paesaggio e vivere in un luogo decisamente disarmante dal punto di vista spirituale, parlo del deserto. Non ho ancora avuto la stessa possibilità anche se resta un desiderio profondo, quello di poter trascorrere un tempo negli stessi luoghi dove lui ha vissuto, per lasciarmi provocare da quell'esperienza di svuotamento e di infinito che il deserto appunto provoca. Ma non c'era solo questa dimensione nella sua vita, accanto al silenzio profondo, all'ambiente geografico, rude ed essenziale, fratel Carlo aveva anche la possibilità di vivere una relazione con gli altri che inevitabilmente era condizionata dall'ambiente; gli uomini e le donne con cui aveva scelto di vivere, ossia i Tuareg erano, potrei dire, "impastati" di deserto, così per entrare in relazione intima, fraterna con loro, lo stesso de Foucauld non poteva che fare la stessa esperienza: camminare nel deserto, saper vivere nel deserto. Credo profondamente che non si incontra Dio senza incontrare l'altro, non c'è un prima, né un dopo, ma una contemporaneità dell'esperienza, anche quando l'incontro con l'altro è conflittuale e duro, anche in quel caso, e senza fuggire da esso, posso fare autentica esperienza di Dio e dell'altro. Piccola sorella Magdeleine scriveva: "...Vorrei raggiungerlo nella preghiera insieme a tutte le creature, senza per questo dovermi separare da esse."
(periferia di una grande città)
Negli anni tutte le fraternità e le persone che hanno scelto di vivere la spiritualità di Nazareth, hanno ritrovato il deserto o il paesaggio dell'Assekrem in cui visse fratel Carlo, nelle città, nei quartieri e nelle periferie dove hanno deciso di vivere; ci sono contesti sociali in cui il "deserto" in effetti, si manifesta attraverso il disorientamento, lo svuotamento, la perdita dell'orizzonte, metaforicamente parlando, ma allo stesso tempo, con molta gradualità, si apprende anche a scorgere, in queste realtà sociali ed umane, segni di speranza, gesti minimi di cambiamento. Questa prospettiva mi interessa, e più che una semplice prospettiva si tratta di stile di vita, di modalità nell' essere in relazione, di incontri e scambi che avvengono nel quotidiano,perchè sono convinto che la spiritualità non è mai distacco dal reale, ma la strada maestra che ci fa mescolare concretamente nella realtà degli altri come della nostra, e ci fa riscoprire il senso dell'appartenere alla famiglia umana. 
Da 12 anni cerco di portare avanti questa scelta e questo stile, mi sento ancora all'inizio, ora con questo nuovo inserimento né riscopro la passione.

Concludo con un passaggio del libro di Giorgio Gonella, piccolo fratello del Vangelo:
"Dobbiamo mettere ben in chiaro: chi è stato rigenerato dal deserto resta con il suo carattere e la sua personalità. Il cambiamento è a livello della sua visione, della sua ottica di fede, del suo sguardo, anche se questo dovrebbe inevitabilmente avere un qualche impatto su tutta la sua personalità. Questo atteggiamento si esprime non soltanto nel contatto con le persone incontrate, ma anche nella relazione con le cose, con gli oggetti più banali del quotidiano"







martedì 4 dicembre 2012

Per capire inizio con il silenzio

"Sono qui per cercare di capirli" scriveva Charles de F. ad un amico per fargli comprendere quale era lo scopo della sua scelta e della sua presenza in una regione e in mezzo un popolo completamente isolato.
In questo momento sento importante quest'atteggiamento che fratel Carlo integrò dopo molti anni di permanenza nel deserto e dopo continui cambiamenti, importante per cercare di capire il contesto, o le persone con cui si è scelto di vivere, questo non è un dato di fatto immediato, ma prima di tutto è un processo, un lungo processo, che parte necessariamente da un azione molto semplice: " mollare la presa".
Si tratta allora di fare spazio, e non "dare" spazio, in quanto dare è sempre un atto di potere, mentre il "fare spazio" è  riconoscere che ci sono spazi che appartengono ad altri; ma mollare la presa vuol dire per me, anche non determinare per forza le situazioni. La tentazione di controllare è sempre forte, ed è in genere frutto di insicurezza e di poca fiducia, per capire l'altro è necessario che io abbia fiducia e che sia chiaro in me che non lo conoscerò mai fino in fondo, liberandomi così dalla pretesa di possederlo.
Nella mia scelta di vita, quest'aspetto assume anche la dimensione dell'attesa, dell'imparare a stare senza far nulla, del rispettare i miei tempi e quello degli altri; mi sembra in effetti questa la dimensione del seme, che gettato nel solco, attende: che si amalgami con la terra, che arrivi la goccia giusta, che il sole non sia troppo forte...e soprattutto è necessario che il seme si fidi che il terreno che lo accoglie è un terreno fecondo.
Mi chiedo allora se ho lo sguardo libero per riconoscere questo terreno ( il quartiere), come terreno fecondo e non solo arido e pieno di difetti, se ho fiducia in me e negli altri per lasciarmi andare ad un meticciamento con questa realtà, e se sarò capace di tanto silenzio per saper accogliere e riconoscere i segni giusti di questa nuova tappa.







lunedì 3 dicembre 2012

Non solo il freddo era pungente

Sentirsi impotente mentre si ascolta una persona che ti comunica la sua situazione attuale, in questo momento di crisi, non è certamente semplice, l'impotenza poi si accentua quando guardandosi intorno, metaforicamente parlando, ci si scopre soli: di fronte alle difficoltà economiche, alle fatiche quotidiane, alle ingiustizie che si sperimentano, ognuno continua a vivere nel totale anonimato. Nè la società civile, nè la comunità cristiana e non so se altre comunità religiose hanno un atteggiamento differente, sono in grado di mobilitarsi per reagire, per mettere insieme le risorse necessarie, o mobilitare l'energia dirompente che si chiama solidarietà, per poter garantire concretamente a tutti la possibilità di una vita dignitosa (chiarisco che per solidarietà non intendo "elemosina", ma la mobilitazione dell'intera comunità in vista di un bene comune a partire dagli ultimi).
Probabilmente non siamo più abituati alla povertà, alla mancanza di denaro, assuefatti ormai al facile soddisfacimento di ogni bisogno, una sorta di desensibilizzazione che anch'essa è frutto di un'abitudine consolidata: "voglio, me lo compro".
Le abitudini, lo sappiamo, se non sono comunque "monitorate" diventano automatismi che ci mettono fuori dalla realtà e non favoriscono cambiamenti; mi è successo spesso in questo ultimo periodo, di parlare con persone che mi raccontavano la difficoltà di arrivare a fine mese, di rischiare di perdere il lavoro, o di averlo perso, con l'inevitabile aumento della preoccupazione, e il disorientamento per non saper affrontare la precarietà che è sempre più un dato di fatto nella propria quotidianità. Proprio questa mattina di fronte all'ufficio postale del quartiere, ho incontrato una donna, di origine polacca da molti anni in Italia, ci conosciamo da diversi anni, mi ha raccontato la sua storia, e il lavoro che ha perso, le tasse e bollette che invece arrivano puntuali e sempre con un aumento di tassazione, cosa fare per poter garantire dignità, studio e futuro per i propri figli. Non credo sia l'unica donna straniera che viva questo momento difficile, troverà nella sua stessa situazione anche diverse donne italiane.
Al di là del fatto concreto, dell'incontro personale che ho vissuto oggi, mi domando come la nostra società, i nostri politici e le nostre comunità di fede stanno reagendo a questo tempo di crisi: lasciamo che ci piombi tutto addosso, come un destino inevitabile, in balia di un tiranno nascosto che ci mette sull'orlo del precipizio e che ci toglie anche la speranza di un cambiamento? o incominciamo ad avere il coraggio di chiamare le cause di questa crisi, per nome? E' possibile che chi ha, ne avrà ancora e chi ha poco gli sarà chiesto anche quel poco, con la nobile scusa del bene comune?
Non sono esperto di economia, ne di politica e probabilmente queste domande sono luoghi comuni e discorsi di molte persone nel quotidiano, ma probabilmente proprio per questo motivo sento la necessità di chiedere, approfondire e perchè no, anche di rivendicare e indignarmi, perchè come m disse un amico prete: "indignarsi è una virtù".
Ho trovato interessante a questo proposito l'intervento del Prof. Mancini all'assemblea CVM, consultate il sito e l'articolo che è pubblicato su www.informazione.tv

Il Vangelo mi spingi a non distogliere lo sguardo da questa realtà, che tra le altre cose è anche la mia, del resto anch'io  devo fare i conti con il mio piccolo salario, la spiritualità di Nazareth perde completamente di senso, diventa spiritualismo scialbo se non si lascia contaminare da questo quotidiano; questa mattina mi sono sentito impotente, probabilmente perchè ho subito pensato che la signora voleva chiedermi di cercarle lavoro 
( solito problema legata alla sindrome del salvatore), quando invece lei non ha chiesto questo e al contrario, abbiamo condiviso di più i nostri vissuti, riconoscendoci e sentendoci alla pari, ho sentito che l'impotenza si è trasformata in movimento, in vicinanza, è stato allora che mi sono accorto della rete di relazioni e conoscenze comuni che possono diventare risorsa.










sabato 1 dicembre 2012

Charles de Foucauld, in costante movimento


Charles de Foucauld moriva il 1 dicembre del 1916 a Tamanrasset in Algeria.
Questo è il giorno in cui tutte le fraternità lo ricordano, ma per evitare di rendere tutto un po’ museale, o di dipingere il personaggio come un eroe, o un santo da stampare in serie in formato tascabile, sarebbe bene che ci lasciamo ancora provocare dalla sua esperienza. Una vita fatta di continui cambiamenti, di ricerca costante del suo ideale di vita, ma soprattutto fatta di passione per il suo “Beneamato Gesù”, come lo chiamava. Chiaramente oggi leggendo ancora i sui scritti, che avevano il solo scopo e obiettivo di essere appunti personali, beh! Ci fanno sorridere per la loro forma e il loro stile linguistico, in molti passaggi risentono del devozionismo dell’epoca, ma se si passa a leggere quella che è stata la sua esperienza e la sua risposta al Vangelo, scoperto molto tardi nella sua vita, allora possiamo comprendere quanto fosse fuori le righe del suo tempo. Per me lo è ancora: cosa dice alla comunità dei cristiani oggi, quando parla di nascondimento, di lavoro manuale, di mescolarsi nella massa, di apostolato dell’amicizia, di non essere distinto dagli altri in nessuna maniera, “ ma essere in tutto come Gesù a Nazareth”?

La nostra comunità cristiana e la nostra Chiesa è in profonda crisi, e negarlo vuol dire non leggere la realtà e non saper vivere il presente, rispondere alle sfide attuali con un ritorno in dietro nelle forme, nelle strutture e nelle riflessioni teologiche, mi sembra una mancanza di fiducia nel Vangelo stesso, o ancor peggio significa a mio parere, spendere tutte le energie per imbalsamare e mummificare il Vangelo. Charles de Foucauld dopo un lungo tempo di crisi e di vuoto, di indifferenza verso la fede e gli uomini di fede, riscopre una presenza, che prima di tutto si incontra nella piccolezza e nell’impotenza, e in particolare la scopre nella vicinanza all’altro.

All’inizio la sua scelta di vita religiosa lo ha spinto ad andare nei luoghi e tra le persone che non erano evangelizzate, pur parlando di un annuncio semplice, fatto nel silenzio e nella presenza dell’Eucaristia, era comunque completamente immerso in quella mentalità e visione dell’annuncio,  che rispondeva ad un binomio molto semplice: predicare il Vangelo e convertire. Ciò che a mio pare ha modificato e trasformato completamente la sua visione, il suo pensiero e la sua prospettiva e per questo ha profondamente mutato il suo relazionarsi con gli altri, è stato il lasciarsi contaminare dalla gente.
Man mano che ha saputo abitare i luoghi, incontrare uomini e donne di culture e religione diversa, inoltrandosi fisicamente nel cuore del deserto verso le popolazioni più povere e isolate, la sua fede, il suo rapporto con Dio e gli altri si è trasformato: non la conversione, ma la conoscenza dell’altro; non l’apologia della propria fede, ma la condivisione dell’esperienza di Dio, non più il battezzare ma l’immergersi insieme nella dimensione di Dio.
Di seguito altri testi per approfondire

Charles de Foucauld


Charles de Foucauld