domenica 24 dicembre 2023

Natale 2023

             


Dio è come un muratore, con l’equilibrio e la maestria ha tirato su una struttura di tubi innocenti, per arrivare fino al mio balcone e anche oltre. Si è arrampicato, giorno e notte, ha tolto e “scrostato”, modificato e ristrutturato. Io mi soffermo spesso a guardare i pezzi rotti, la polvere e i calcinacci. Provo fastidio in questa confusione del cantiere, e questo disagio  mi provoca, mi “ingabbia” in un “qui ed ora” troppo limitato a ciò che vedo, togliendo respiro e bellezza a ciò che invece potrebbe diventare questo “mio abitare”. Ormai è il “cantiere” la metafora che più mi accompagna, per una questione decisamente concreta: i lavori nel mio palazzo, eppure da ossessione si sta trasformando in opportunità, è una continua e costante metafora e un luogo concreto dove tutto si è capovolto.

E’ una casa precaria e di fortuna quella che gli evangelisti descrivono quando narrano la Nascita, un luogo abitato velocemente, anonimo e preso in prestito; la nostra fantasia l’ha resa però capanna o grotta, l’ha voluta a tutti i costi addolcire e riscaldare, forse perché ci resta continuamente uno sforzo sgradevole, pensare che nell’inutile quotidiano e nell’anonimato banale, si possa trovare e scovare il senso del nostro esistere o forse perché nella contraddizione che spesso viviamo e che ci stride dentro e provoca dolore d’attrito, tra quello che immaginiamo di voler essere e siamo, preferiamo spesso raccontarcela, piuttosto che vivercela in profondità. Dove l’uomo fa fatica a restare nel suo vivere quotidiano, Dio ci abita con profondo  agio e ci si addormenta come un bimbo inconsapevole, altro che poesia e stelline di Natale.

Francesco scese a Greccio e volle “vedere” cosa aveva provato Gesù la notte della sua nascita, volle vedere, sentire, toccare concretamente, volle lasciarsi destrutturare, smontare, raggiungere nella carne e si ritrovò tra la gente del posto. Charles de Foucauld si rese nomade tra i nomadi, si svuotò, lotto con le sue “macchinosità” mentali, si mise continuamente a rischio per raggiungere quel Gesù che lo aveva profondamente toccato…e si ritrovò tra i nomadi del deserto, che in altra maniera il Vangelo chiamava “pastori” e da loro ricevette l’annuncio della Buona Notizia. Entrambi trovarono “casa” tra la gente, e nelle pieghe profonde dell’umano esistere, trovarono faticoso e dolce allo stesso tempo, prendere dimora.


Allora mi dico che la mia casa va bene che sia ancora in questo quartiere, precaria e in manutenzione, con la sua impalcatura di tubi innocenti; quando la guardo a distanza mi chiedo: “ne uscirà qualcosa di bello prima o poi? Mah!”. E’ fondamentale fidarmi ed affidarmi, lasciare che Qualcuno ci lavori e “ci metta le mani”. Dio fa il muratore.

A proposito, due giorni fa spunta ancora il mio amico muratore (quello di mestiere), e nello scambio veloce ad un certo punto mi dice: “ io voglio essere sincero con Dio”…e fissandomi negli occhi dopo una breve pausa mi chiede: “tu vuoi essere sincero con Dio?”…avevamo concordato che si parla di Dio anche quando si parla profondamente di umano.

Bella gente …vi lascio non con l’augurio, ma con la domanda del muratore.  





venerdì 8 dicembre 2023

110 ...e storie


Nel giro di due giorni mi sono trovato come in gabbia, l’impalcatura è salita rapidamente da piano terra al quinto,  un incastro dietro l’altro, il palazzo si è trovato così impacchettato, per il suo maquillage di bellezza, in questo modo almeno all’esterno possiamo sembrare in ordine, ma dentro la vita scorre come sempre, a volte movimentata tendente all’agitato, altre volte con una tranquillità assonnata.  Dal mese di aprile scorso ad oggi ancora polvere, calcinacci, pezzi di polistirolo scuro da attaccare alle pareti per isolare e proteggere dal freddo, spero non dalle relazioni e dalle storie che qui scorrono con tinte in chiaro scuro. Nel quartiere la vita scorre sulla mano del tempo, che ogni tanto si stringe e spezza equilibri, per alcuni troppo precari; la fatica del vivere irrompe improvvisa, si manifesta palesemente con atteggiamenti e fatti che vanno oltre l’ordinario, e  i titoli di giornali ci ricordano che non siamo affatto un quartiere “sicuro”, “normale”, saremmo più da normare e normalizzare. Fortunatamente chi ha la “vista buona” e sa leggere tra l’anonimato, sa spingere oltre, riconoscendo tra ciò che “non va”, le storie silenziose di tanti:  donne che si prendono cura dei propri figli in un contesto non proprio, per cultura e lingua, che vanno oltre gli stereotipi in cui molte volte sono bloccate;  uomini capaci di affrontare con dignità le sfide inaspettate e inattese di un emigrazione, che aveva per sogno il bene per sé e la propria famiglia. Chi sa guardare la vita, non scende mai nelle secche della semplificazione, ma è come un marinaio capace di navigare nelle tempeste come nella bonaccia, sapendo che davanti a sé ha sempre il mare e il mare ha orizzonti sconfinati e non definibili, ha rotte da tracciare con prudenza, lungimiranza e saggezza, ha porti che rinfrancano, non come approdi chiusi, ma aperti ancora al navigabile. Qualcuno affonda, altri restano a galla, altri ancora solcano le acque sapendo mettere a favore delle proprie vele il vento che sempre soffia.

    Per mesi, dal mio minuscolo balcone  non vedo nulla, se non un impalcatura protetta da un telo bianco, la quale mi costringe a trattenere lo sguardo, a censurare la visuale, anche la luce del giorno è filtrata: vivere in una scatola.


Eppure.

    È passato il mondo davanti la mia finestra, si sono palesate storie in un istante e in un tempo breve, come narrazione “tascabili”. Incontri avvenuti  intorno ad una tazzina di caffè offerto e il tempo scandito dal giro ritmato del cucchiaino per far sciogliere lo zucchero e renderlo meno amaro quel caffè, come meno amaro poteva essere l’ascolto delle storie di vita. Gli operai su e già per l’impalcatura, si muovono rapidamente come su un terreno solido, sembrano non tener conto dell’altezza e dell’apparente fragilità, sono metafore di uomini e donne che nella fragilità e precarietà hanno imparato a mettere il piede nel punto giusto per non cadere.  Sanno camminare sull’orlo di un precipizio senza farsi prendere dalla vertigine che potrebbe bloccare, forse hanno appreso anche a muoversi in compagnia della vertigine, ne hanno fatto una risorsa. Li sento passare anche mentre prego nella mia cappellina, uno spazio pensato e realizzato per far abitare la preghiera in questo contesto e fare di questo contesto sociale, il cuore della relazione con “l’Infinitamente Presente”. Passano e ripassano mentre sono in ascolto della Parola, Lei stessa a volte precaria, capace di provocare vertigini e manifestare abissi, Parola che coglie contraddizioni, prende per mano per condurti nel cuore della vita, che non ti costruisce attorno una protezione, ma che ti invita ad aver coraggio per smontare le impalcatura, che troppo rigorosamente si sono costruite con la funzione di proteggere e difendere.

    


In questi mesi il mondo si è affacciato sul mio balcone, mi è venuto incontro e così per un istante si è fermato per consegnarmi la vita e alla vita. È entrato fisicamente nella mia casa, non dalla porta, ma dal balcone. Gli operai si sono susseguiti con un cambio abbastanza rapido, ma non è mai mancata l’occasione di conoscerli e scoprire le loro storie. Ciò che mi ha colpito è il modo schietto e spesso confidenziale, con cui hanno raccontato di loro, delle fatiche, dei sogni infranti, della durezza del lavoro, delle famiglie distanti. Così ho scoperto chi, laureato in lingue, si trova da immigrato a poter lavorare solo in un cantiere, ma non demorde, mi chiede infatti di poter venire a casa a parlare per qualche consiglio, mi chiede addirittura di correggergli una traduzione in italiano che ha prodotto; negli occhi la determinazione e perché no, anche la caparbietà e l’orgoglio di potersi riscattare il prima possibile. Ma anche chi più semplice, ci tiene ad arrivare davanti la mia finestra tutte le mattine per formulare le poche parole che conosce in italiano: “come stai?”, “buon giorno”, “tutto bene?”, e poi quel “grazie, grazie”, ripetuto più volte solo perché un giorno ho offerto un caffè e dell’acqua fresca in piena estate. Ma c’è anche il papà italiano che si ritrova a fare questo mestiere pur avendo anche lui studi e laurea alle spalle, ma per la famiglia ha dovuto rinunciare a tutto…chissà che altro conserva dentro. E poi l’immancabile domanda anche da parte loro: _ ma tu perché vivi qui, come puoi starci?. È una fortuna non saper dare risposta e sentire dentro che si è al posto giusto.




domenica 29 ottobre 2023

Eremo a piccole dosi

  


 Da giorni, da mesi in realtà, che mi pongo la domanda: come mai sento forte il desiderio di stare ritirato, da solo.

    La questione in sé potrebbe avere un fascino ed essere contemporaneamente “trappola”, potrebbe aprire una nuova prospettiva, allargare gli orizzonti, sviluppare un cammino, oppure semplicemente celare una fatica, un malessere, costruire in dettaglio il piano di una vera e propria fuga. Ho centellinato con parsimonia i tempi di solitudine che spesso ho vissuto e curato, i giorni o le settimane di eremitaggio sono per me  spazi fondamentali da vivere, eppure questa volta ci sono entrato in punta di piedi. La solitudine usata come  mezzo per fuggire è un rischio che non voglio correre e soprattutto  ho imparato a classificarla come “malsana” proprio attingendo alla millenaria sapienza della vita monastica e della tradizione eremitica. In eremo si va per stare da solo con il Solo, non per fuggire  relazioni e  situazioni,  ancor meno si va per isolarsi.

    Ma la questione mi intriga, mi muove, mi scomoda e mi infastidisce, quindi parla di me e mi raggiunge in profondità.

    Non ho ancora trovato una risposta a questa inquietudine, per questo la frequento ancora e mi lascio contattare da essa.  So che richiede tempo, che necessità di silenzio come anticamera di un incontro; bisogna coltivare zolla zolla, scavare e zappare con cura il terreno arido in cui mi sono ritrovato, anche questo è deserto. Ci si spoglia, perché si tolgono gli abiti delle risposte scontate, si resta con l’essenziale.

  Si resta, appunto, si resta lì dove si è approdati.


    Questa volta è l’attesa a scavarmi a fondo, a generare e rigenerare un terreno che forse si prepara ad una nuova semina. Come il vino nuovo necessita di botti nuove, così una nuova semina non può produrre frutto in un terreno secco e indurito. A volte ci vogliono colpi di zappa decisi e profondi, occorre “rivoltare la terra”.

  Probabilmente e dico probabilmente, non sono le relazioni che vorrei fuggire, ma le modalità con cui viviamo oggi le relazioni che non vorrei più assecondare come se fossero inevitabili.








domenica 20 agosto 2023

Dalla parte sbagliata

 


Sono dalla parte sbagliata”. Nel momento in cui cerchiamo di comprendere il senso di ciò che facciamo o quando ci fermiamo, dopo un lungo vagare, per cercare di comprendere a quale meta realmente stiamo approdando, una sensazione del genere può emergere dal profondo. Se la questione proviene dal  nostro intimo, come questione esistenziale, come ricerca di senso, allora è più o meno accettabile la fatica insita nel cercare la risposta, anzi per certi aspetti è gratificante, ma se ad un certo punto e inaspettatamente, la questione non emerge dal sé, ma arriva come uno schiaffo dall’esterno, beh allora la questione è totalmente differente.

Ieri uscendo di casa, incrocio una vicina di origine africana, con lei ho sempre avuto scambi comunicativi veloci, ma comunque ci si conosce da tempo ; come da copione ormai scontato, prima o poi, quando l’incrociarsi lo permette e ti concede quel secondo in più di scambio verbale, arriva la fatidica domanda? – ma tu sei sposato? Hai figli?.

Come posso in pochi istanti riassumere un vissuto, un viaggio intenso, fatto di pause, corse in avanti, inciampi, domande scomode e scelte appassionate? Farfuglio qualcosa alla meno peggio, complicando per altro la situazione e soprattutto mi auto-inganno pensando che la risposta palese e quella d’effetto, sia la più comprensibile, che possa acquietare ogni perplessità, sciogliere ogni dubbio, ed illuminare come se fosse un nuovo kairos la persona che ho di fronte: non sono sposato perché tra noi cattolici, qualcuno decide di legarsi a Dio solo. Così di colpo riporto tutto al caos primordiale.


Ma qualcosa dello show  e del film che mi stavo proiettando dentro, non va, la macchina da spettacolo si inceppa, il copione non viene rispettato e il “bello della diretta” fa altro.

TU NON SERVI A NULLA”. La frase diretta, fortemente sostenuta e rafforzata da un espressione facciale di disgusto inappellabile, chiude ogni possibilità di incontro.

Quante volte ho pensato al valore che la mia scelta personale poteva rivestire? In quante situazioni ho percepito Dio dentro ogni passo che concretizzavo? Quanta fatica poi nel discernere, nel comprendere e nel cercare la persona giusta con cui confrontarsi, ma di colpo qualcuno ti dice che sei “dalla parte sbagliata”, anzi sei proprio un errore, per te e per gli altri.

L’incontro è difficile, l’uscita da sé è molto complicata, perché là fuori non c’è l’isola deserta con la natura rigogliosa dei Caraibi, ci sono gli altri. In un tempo dove ci si anestetizza a piccole dosi con le frasi dei saggi, dove la ricerca della felicità a tutti i costi e a basso mercato è sempre possibile e a portata di mano, come i vestiti che imitano l’alta moda ma a 9,99 €, il “TU NON SERVI A NULLA” è un tuffo salutare nella complessità della vita umana, è un’uscita dal film proiettato dalle tue illusione e un “ben tornato a casa” dopo le ferie d’agosto.

Eppure.

E’ questa frizione vissuta, è questa apparente incomunicabilità che diventa terreno fertile, il momento opportuno, l’oggi della tua ricerca di senso; questo terreno ruvido è dove poggi i piedi per iniziare la vera emigrazione, dal “costruirti” la vita,  al viverla. Il nostro umano è questo, è anche questo. “L’altro è l’indesiderato” diceva lucidamente Lévinas, chissà quanto silenzio, quanto tempo abitato nelle relazioni sono serviti al filosofo per giungere ad una sintesi così efficace. Si l’altro è l’ospite inopportuno, che arriva bruscamente, è l’imprevisto fastidioso che cambia il piano del tuo viaggio, è lo sguardo e la prospettiva che ti infastidisce, ma non per questo è da scartare e meno veritiera.

Abituati a fotografarci da soli alla ricerca della luce che ci illumina meglio, lasciare la fotocamere in mano ad altri è un rischio a cui, non solo non siamo più abituati, ma non vogliamo proprio correre: io mi autodetermino.

  


 Si può scegliere di scappare o si può accogliere il “GRAFFIO”; l’altro è una presenza dolce, è una possibilità, è ricchezza e nutrimento fin tanto che rientra nel nostro schema predefinito, o semplicemente sa stare nell'inquadratura del nostro selfie.

    Anche la cananea è stato un graffio per Gesù, anche Dio si rende vulnerabile, fa in Gesù l’esperienza di essere graffiato; ma il racconto di questo “graffio” sperimentato da Gesù, Matteo lo conclude con un dato di fatto esistenziale: “in quell’istante la figlia guarì” (Mt 15, 28). La guarigione non è solo di Gesù ( che fa un passaggio di visione, pensiero e sentire a 360 gradi), né della cananea ( che era già in movimento verso un altro, in questo caso specifico verso Gesù che voleva incontrare), la guarigione si estende ad altri, ai “figli e figlie”, come a dire la lasciamo in eredità, la trasmettiamo, ossia la mettiamo in un “oltre noi” come vita piena. E’ in questa inaspettata conclusione del Vangelo che risiede un ulteriore “graffio”.

    Tu non servi a niente”. Io sono andato a destra e lei a sinistra, forse distanti, forse opposti, sicuramente contrariati, un po’ anche incazzati. “In quello stesso istante guarì”.



domenica 4 giugno 2023

Vuoto a rendere

 


L’altro è l’indesiderato” così si esprimeva Emmanuel Levinàs, un espressione che risuona spesso nella mia testa e provoca immagini e sensazioni  contrastanti, genera un sussulto di vita mentre ne colgo una sorta di graffio profondo. Non riesco assolutamente ad immaginare la mia vita e la mia scelta di vita in particolare, senza cogliere in ogni istante che ho vissuto, una presenza, una relazione; alcune hanno generato dei veri e propri capovolgimenti, hanno aperto strade e possibilità inaspettate, altre hanno prodotto ferite, evidenziato vulnerabilità, colto fragilità profonde e contraddizioni: ogni tratto che mi caratterizza non è altro che una parte di me che custodisce il volto di chi ho incontrato. La costruzione della nostra identità è come un lavoro costante e paziente, tenace e a volte caparbio, di chi, come un artigiano, sa costruire a mani nude e a volte con pochi strumenti, una “custodia” dove non solo  collochi ciò che l’altro può deporre, ma ne prendi cura perché la muffa e “la tignola non consumi” il dono che ti è stato consegnato. Se per un solo istante fermo il tempo che scorre, rallento la corsa del quotidiano e parcheggio nella dimensione del silenzio e del vuoto, non posso far altro che constatare che il mio “io” non ha mai generato e creato se stesso, il mio “io” è suo malgrado, il frutto di una libertà, quella di lasciarsi plasmare, toccare, generare da altri, non certo della presunzione del “farmi da solo”. Plasmare vuol dire anche raggiungere l’altro toccandolo, avvicinando le mani, entrando in contatto, come l’artigiano quando modella la creta: avvicinando e quasi sfiorando quell’impasto di acqua e argilla, il vasaio deve avere cura perché la sua forza non spezzi, non imponga un “modello”. Con la creta l’artigiano si mette in relazione, ne sogna la forma, ne desidera un’armonia, ne immagina una bellezza, ma deve intercettare anche le possibilità che quella piccola zolla di creta può realizzare: anche un vaso è frutto di una relazione e se è piena e armonica, il vaso trova la sua identità, non nella bellezza, non  nell’armonia, né nella sua unicità, ma nel suo  essere “vuoto che accoglie”; una relazione è nutriente, ci libera e umanizza se ci renda capaci di essere recettivi, vulnerabili, abbordabili e capaci di perderci in altre relazioni. Siamo sognati nell’impasto di relazioni costanti, crete fragili e vulnerabili, soggette a modellarsi su forme rigide che si spezzano o armonie che sanno coniugarsi con mille altre, senza il bisogno di emergere o distinguersi per narcisistiche originalità.

  


 Ogni volta, ogni momento in cui forte è il desiderio di intimità con la Presenza, mi colgo nel volto inafferrabile ed elusivo di Dio; nelle “mani” del vasaio non mi trovo affatto manipolato, mi sorprendo piuttosto del suo “tatto” e della delicatezza con cui mi sfiora. Come una “brezza di vento leggero”,  così è il suo essere in relazione con me ed è questa relazione che mi plasma, non il suo potere manipolativo; Lui non mi trattiene, perché non trattiene la vita in sé, ma la genera in sovrabbondanza in me. E tutto questo  è paradossalmente anche “indesiderato” , in quanto chiede lo sforzo di perdermi, di emigrare dall’auto-referenzialità, assumendo la ferma decisione che “non si basta a se stessi”.

    Quando lasci che Lui affondi le sue mani nella creta del tuo io, senti che ti sta preparando ad affondare te stesso e la tua esistenza nella creata fragile dell’umanità; costruisci con il silenzio quel vuoto che accoglie il volto dell’altro, ti spogli di pretese, smonti pezzo pezzo le rigidità che fanno da ostacolo all’incontro con il fratello, congedi te stesso dall’idolo del tuo IO e ti metti in cammino, giorno dopo giorno, ti lasci gettare come un minuscolo seme non più preoccupato di quello che dovrà diventare, ma semplicemente assetato di relazione, perché la relazione è acqua fresca che arriva nel deserto.

  


 Cos’è e come comprendo la scelta di vivere da piccolo fratello oggi? Beh direi: un vaso di creta, nelle mani del Vasaio e i suoi artigiani, gli uomini e le donne di questo tempo.






domenica 9 aprile 2023

Alle prime luci

   


Di buon  mattino una donna si è alzata e pur disorienta si è messa in cammino. Un misto di delusione, dolore e allo stesso tempo di testardaggine che non la vuole rassegnata alla prepotenza e all’arroganza che ha visto in azione verso il suo Signore. In totale solitudine e alle luce del primissimo mattino, cammina; non molla il suo desiderio, non tralascia nemmeno per un istante di ascoltare ancora quelle domande profonde che le hanno permesso di incontrarlo e farsi presente all’Altro, lasciando cadere ogni tipo di resistenza. Non può ammettere a sé stessa che la vita sperimentata in quel primo incontro, sia stato solo un impasto di sentimentalismo e consolazione a buon mercato. Gli altri, la maggioranza, ormai lo decretano un affabulatore; lei, che lo ha incontrato all’incrocio delle domande urgenti della vita, non vuol cedere. Così, con testardaggine, continua a cercare, comprendere e incontrare. Immagino che l’affanno del camminare soffocava a fatica le domande ancora inespresse, il desiderio e forse anche il bisogno che un Amore non può essere a “scadenza” ma per sempre e questo dava vigore al suo procedere. “ Li amò fino alla fine dei giorni”, anche lei aveva compreso quel suo modo di esistere, lo comprese talmente in profondità che lo sentì vibrare come la scintilla del primo giorno della creazione, ritrovò sé stessa lì in quel modo di esistere e di essere in relazione,  si senti liberata ancora una volta: per questo non fuggì, né tradì, anche se le sue domande erano ancora prigioniere di dubbi e incertezze. 

Si alzò di buon mattino, quando ancora la poca e flebile luce, sembra non farcela a sovrastare il buio consolidato di una notte troppo lunga; anche la delusione era convincente come una prova scientifica, un ragionamento razionale e lineare, ma non le bastava, non la liberava, era come “la parola ultima” che castra ogni ulteriore domanda. Incontrarlo non era mai stato per lei all’insegna della parola definitiva, piuttosto aveva aperto un spazio di infinito, capace di accogliere l’esistere nelle sue molteplici forme, lui il suo Maestro le aveva aperto gli occhi sull’umano restituendole il suo nome. Eppure tra le mille questioni che affollarono la sua mente in quel primo mattino, non si rese conto che voleva trovare conservato il suo Amato in una tomba: “lo hanno portato via”.

L’Uomo è stato portato via dalla tomba, è l’annuncio di Pasqua, sussurrato in solitudine, alle prime luci dell’alba, ad una donna ancora in cammino tra le sue domande;

     


Il primo giorno della settimana, Maria Maddalena venne al sepolcro di buon mattino, quando ancora c’era tenebra e vide la pietra tolta dal sepolcro  GV 20, 1.