venerdì 22 dicembre 2017

Lentamente solo lentamente

E se lentamente Tu prendessi la mia mano?

Non per farmi sentire la forza della tua stretta, né per condurmi verso un abbraccio avvolgente. Ora desidero altro Signore. Mi piacerebbe sentire lentamente la tua mano che si avvicina con estrema delicatezza, perché non è tua abitudine il forzare, né il tuo stile quello di invadere. Lentamente ho imparato a riconoscere il modo che hai di renderti presente: quello stare accanto che è contenere e abitare, che fa sentire il sapore dell’essere tornato a casa come un nuovo approdo, che ospita nello stesso momento in cui, infinitamente piccolo, si rende abbordabile e per questo ospitabile. Ecco con tutte queste sfumature muovi la tua mano verso la mia e gusta con me il piacere, la fatica e perché no, la resistenza nel portare la mia mano a diventar barriera della mia bocca, nel gesto del far silenzio, nel mettere a tacere ogni parola di troppo. Mi affascina il tacere, mi provoca, mi scardina ma soprattutto mi decentra, perché mi apre gli occhi, mi allarga lo sguardo e allunga l’orizzonte di ciò che vedo. Guardo chi mi è accanto nel vivere quotidiano, ascolto il “rumore” sordo e cupo che produce la fatica del vivere di alcuni vicini, poso gli occhi sugli altri anche quando questo non mi protegge dal mal- essere con cui vengo a contatto. Sospendo le parole e apro di più gli occhi, per le parole non dette, le richieste inespresse e gli incontri inaspettati. Metto a riposo le parole facili, invadenti e risolutive, quelle rassicuranti per quieto vivere o belle per far colpo…ma soprattutto fermo quelle che hanno l’arroganza di essere “le ultime parole”. Lentamente e solo lentamente, hai instancabilmente ripetuto lo stesso gesto con me: hai preso la mia mano e l’hai accompagnata verso la bocca, hai atteso che aprissi gli occhi senza aver paura e mi hai fatto stare bene nello scorgere l’umano che è in noi. In questa notte più lunga dell’anno, in attesa che la luce riguadagni spazio, scopro il Natale come la festa del tacere, di Te che mi dici che ne vale la pena non partire dalle parole ma dallo sguardo, dal saper guardare l’altro…parte di me.

Il Dio piccolo del Natale chissà che non sia la grande provocazione di questo tempo, dalle parole urlate e prepotenti e degli sguardi distratti?

Di lentezza ho bisogno, di parole a riposo e di sguardi profondi, che sanno finalmente esplorare e incontrare.

Buon Natale 2017

venerdì 1 dicembre 2017

1 dicembre 1916- 2017


fratel Charles de Foucauld non è un modello, è una bella provocazione per questo tempo.



lunedì 27 novembre 2017

Dammi oggi l'insalata quotidiana


Svegliarsi il mattino presto quando ancora il sole non ha fatto capolino all'orizzonte, il buio della notte è ormai agli sgoccioli e trattiene, con una particolare delicatezza, quell'abbandono dell’uomo ancora al suo riposo; sento qualche rumore nel palazzo, quelle delle tapparelle che lentamente si alzano, come a dar voce a quel sonno che stenta a cedere il passo all'obbligo di mettersi in moto per affrontare la giornata di lavoro, riconosco i passi e dalla direzione del rumore individuo che sono alcuni vicini indiani che all'alba, prima ancora del sole si mettono in moto per raggiungere il loro posto di lavoro: la raccolta delle insalate. Ore di lavoro al freddo e in ogni condizione, escono presto la mattina e rientrano a fine giornata, li incontro spesso al loro ritorno, quando con un italiano stentato e peggiorato dalla stanchezza, non rifiutano né un sorriso, né un dialogo di cortesia: “come stai? E la tua famiglia? Stanco?.

Ci si può accogliere semplicemente, guardarsi negli occhi e liberare il desiderio di avvicinarsi con rispetto, una stretta di mano che diventa il superamento di confini, abbassa le diffidenze e così sperimentare nella stretta una sorta  d’abbraccio profondo, l’espressione di un fidarsi reciproco. Ciò che più mi colpisce è quell’essere sempre anticipato nel chiedere “come stai?”, chi torna sfinito da lunghe ore di lavoro, che conosce poco riposo settimanale, logorato lentamente dal freddo e dall’umidità, piegato da gesti ripetuti all’infinito ma soprattutto svuotati da un ambiente che ti considera “forza lavoro” prima che uomo, chi vive questa fatica, ha il diritto che qualcuno gli chieda almeno: “come stai?”. Invece nel mio quotidiano è esattamente l’opposto: sono sempre loro ad anticiparmi. Mi immergo in questo potere delle relazioni, lasciandomi modellare da ciò che avviene, intensificato, concretizzato da gesti semplici, che trovano significato nell’ambiente in cui avvengono, perché il contesto ambientale  è una cassa di risonanza, lo spazio dei significati. La diffidenza, il distinguersi e il separarsi per appartenenze,  non mancano certo nel mio quartiere, in completo attrito con chi invece prova a guardare negli occhi, ad avvicinare, salutare ed incontrare. C’è di tutto e il contrario di tutto qui. Per me c’è principalmente la possibilità di addentrarmi nelle zolle più aride di questa terra che appare incolta, secca e incapace di generare. Il primo sentimento che mi abita e che spesso prevale in me è quello dell’impotenza, che nell’epoca dei super eroi non è sempre facile da accogliere, eppure è quel processo di spogliazione che ti libera; lentamente giorno dopo giorno sento che questa realtà mi spoglia: mentre procedo nel camminare, una mano o uno sguardo, una parola come un incontro inaspettato, mi tolgono lentamente un abito di troppo, ci si alleggerisce, o meglio si viene alleggeriti. Solo con la leggerezza si può camminare in punta di piedi nel quotidiano ferito che incontro, sono necessarie mani vuote per “toccare”. Mai come in questo momento ho necessità e desiderio del silenzio di Dio, come se fosse una mano estremamente delicata e decisa che si avvicina alla mia e mi accompagna in profondità nel solchi aridi di esistenze spezzate. Non tutto si riesce a narrare, molto va custodito. Dio mi ha preso per mano e guardandomi negli occhi mi ha fatto  innamorare della bellezza del “passo indietro”…è un passo di danza che mi ha aperto lo sguardo in avanti verso le relazioni.


Il mio amico indiano rientra quasi contemporaneamente a me dal suo lavoro, con la piccola differenza che lui esce alle 5:00, la prima cosa che fa è telefonarmi per accertarsi che sono a casa, ha preso per me al suo lavoro una confezione d’insalata già pronta, sa che mi piace e che mangio soprattutto verdura, è il suo gesto di attenzione, la praticità con cui narra la nostra amicizia e quando mi dice che non gli piace l’ambiente del nostro palazzo ci tiene a dirmi che però ci sono io. Io ho scelto di stare qui, lui no.


Il sole è appena spuntato e nel silenzio della mia cappellina, nel cuore del palazzo faccio risuonare dentro parole oranti antiche e nuove, così sorridendo nel cuore di Dio gli chiedo: dacci oggi la nostra insalata quotidiana.



martedì 3 ottobre 2017

L'unica ricchezza...l'ascolto

Per mesi tutte le mattine appena alzato avevo preso l’abitudine di accendere whatsapp, non certo per sentirmi alla pari con gli adolescenti digitali, né tanto meno per riconnettermi con il mondo dopo essermi sprofondato nel cuscino per una lunga notte, nulla di tutto questo, accendevo whatsapp semplicemente per vedere le “cartoline” colorate e luccicanti in maniera eccessiva, che  mi arrivavano dall'India. Si, per più di tre mesi, puntuali e rigorosamente diverse mi sono state spedite delle immagini con la scritta “Good Morning” dal mio amico e vicino di casa indiano, che finalmente aveva potuto concretizzare il suo desiderio di ritorno a casa e conoscere suo figlio, nato da appena un anno. In molte occasione ho ascoltato e custodito la sua fatica di diventare padre e non poter materialmente abbracciare il proprio figlio, la fatica di un desiderio portato in totale solitudine, il peso di accettare una distanza fisica che si tingeva di rabbia quando la mancanza di soldi ostacolavano ogni possibilità di acquisto del biglietto di volo. Non posso minimamente immaginare quello che un uomo può provare nel suo intimo, quale dolore sordo lo abita e quanto crudele possa essere l’impotenza che si prova  in certe situazioni, ho sempre cercato di ascoltare il più possibile, di limitare le parole di conforto e vivere il mio silenzio come accoglienza profonda;  ho sempre provato, questo si, uno sconfinato rispetto per la dignità e la capacità di resistenza del mio amico, per quel suo essere comunque fedele alla sua storia, accogliendo il concreto della vita senza rassegnazione o disperazione, reagendo con un sguardo speranzoso che gli dava la certezza  che prima o poi sarebbe riuscito a mettere insieme i soldi necessari per rientra a casa e stare con suo figlio. Mi risuonava il suo dolore sordo, mai il suo lamento, la resistenza per non spezzarsi,  mai lo scoraggiamento, lo sguardo rivolto all'orizzonte mosso dalla certezza che prima o poi il desiderio trova accoglienza: “è Dio che mi darà una mano” mi ripeteva. Lui mi affidava questi suoi vissuti perché si sentiva sostenuto dal mio ascolto e dalla mia vicinanza, “so che ci sei tu nell'appartamento sotto e questo mi fa stare contento” mi diceva, ed io mi sentivo accompagnato, trasformato, provocato da quel suo gesto semplice di fiducia: aprirmi la porta e consegnarmi il suo quotidiano. Il Vangelo mi ha sempre ricordato che non si è maestri, ma fratelli, è in questa dimensione relazionale che si coglie la dinamicità della vita, si sperimenta la moltiplicazione del nutrimento reciproco, conservandone sempre ceste in avanzo, buone nei tempi di carestia relazionale.
Non so se è mai realmente possibile entrare nel vissuto di una persona, forse non è nemmeno  salutare farlo, il rischio potrebbe essere quello di occupare uno spazio e di invadere un vissuto; c’è una soglia che non si può mai varcare, si può per contro restare sull'uscio o meglio dietro una porta socchiusa ed ascoltare completamente muti e con il respiro trattenuto,  i suoni che il mistero dell’altro generano nella sua parte più nascosta ed inaccessibile.  Si vive l’impotenza di poter agire, si accoglie e si abita la realtà del limite, la chiarezza del confine e il mistero di una persona.
L’umanizzazione della nostra vita passa allora non tanto nell’essere utili agli altri, ma nel perdere giorno dopo giorno la pretesa di sentirsi  importanti per gli altri; nell’entrare in punta di piedi nel vissuto di chi incontriamo, ci si trova allora lentamente spogliati, semplificati, invitati a lasciare, piuttosto che “attrezzarsi” per saper stare nella relazione. C’è un vero mistero ed è l’insieme della storia e dell’esperienza  di chi ci permette di essere ospiti nel proprio vissuto e questo mistero si può sfiorare, guardare, ascoltare accogliere solo da “poveri”. 

Nel tempo della velocità, delle competenze multitasking, della ricerca spasmodica della continua novità, del tutto e subito, mettersi nell'ottica lenta e senza tempo del “perdere per incontrare” può risultare incomprensibile, eppure sento la necessità profonda di avventurarmi con decisione in quest’ottica dell’esistere e decidere con passione che vale la pena lasciarsi accompagnare dall'altro in un continuo decentramento da sé. 


lunedì 2 ottobre 2017

Quando scopri che la solitudine è abitata da Dio, la pienezza della vita che incontri ha le tonalità forti e ricche del noi.

Non incensi più il tuo IO, risuoni in armonia con il Noi.



lunedì 21 agosto 2017

Non per quiete

Ci sono giorni in cui sento che il cuore desidera allontanarsi, prendere le distanze, in cui è forte il bisogno della solitudine, del rallentare e di dare un ritmo non nevrotico allo scorrere dei giorni. Nulla di triste, né tanto meno è l’insoddisfazione a spingermi a ricercare questa solitudine, nemmeno la stanchezza delle relazioni o l’insofferenza per questo tempo culturale che tanto urla e muove passi scomposti verso l’affannosa ricerca della continuo novità, no non è da qui che nasce l’esigenza e il desiderio di un tempo di eremitaggio . Il mio cercare giorni stracolmi di silenzio, o quel tempo lento che cerca di trattenere l’intimità, ha un’altra motivazione, è un altro il desiderio che mi muove: l’incontrare e il ritrovarmi in un Tu, che non ha limiti, che non ha misure, che non chiede e non stravolge, ma nella voce di un vento leggero si rivela come l’inizio della vita e il grembo di tutti gli inizi. Non scappo mai quando salgo in eremo, sarebbe il passo peggiore che potessi compiere, in questo caso lascerei spazio alle mie paure, a ciò che non voglio riconoscere in me come fragilità o incompiuto, quanto più fuggo da me tanto più la solitudine diventa cassa di risonanza di ombre non accolte e riconosciute, a cosa servirebbe? Semplicemente aumenterebbe il vuoto dell’isolamento. 

Preparo lo zaino quasi sempre all'ultimo istante, lo faccio alzandomi presto la mattina, ci metto dentro poche cose, l’essenziale per pochi giorni, per contro pongo molta più attenzione nel prendere  i libri che mi accompagneranno, scelgo parole pensate e scritte da altri che arricchiranno la sete di ascolto, apriranno gli orizzonti a partire dallo stare fermo in adorazione e nello spazio essenziale di una piccola casa che è eremo, spazio essenziale che unifica e raffina l’ascolto. Scelgo sempre le parole che mi accompagneranno, so che risuoneranno in maniera particolare e quindi curarne la scelta vuol dire prendermi cura di me, di ciò che sarà nutriente; non lascio da parte la Parola né i piccoli libri dove da anni raccolgo le preghiere che mi raccontano e dicono del mio cuore a cuore con Lui.
Ogni volta che salgo all'eremo Angela Paola ad Amandola, vengo sempre  accolto e accompagnato da sguardi, voci e incontri che mi tengono i piedi ben piantati per terra: le persone del posto riconoscono la mia auto e non mancano di fermarsi il primo giorno e darmi il ben venuto e spesso, anche se pur brevemente, mi consegnano il loro quotidiano sapendo che lo porterò nella preghiera, non è un atto magico o una sorta di superstizione, credo al contrario che quando la vita degli altri la fai risuonare nel cuore di Dio in totale abbandono, senza nulla chiedere né forzare, la ricolleghi in un flusso di vita piena e buona e nel momento che fai questo ti riconosci parte della vita degli altri, muovendoti in nuove relazioni. Il volto, le parole e i saluti delle persone mi indicano il modo sano di entrare in un tempo di solitudine.
In questo silenzio mi ritrovo nella certezza di stare costantemente con Te e non c’è nulla che interrompa per un attimo questo sentire tangibile e fragile allo stesso tempo, perché non è un esercizio del pensiero, tra me e te Signore c’è un abitarci reciproco e costante, che si vive, non si pensa.
Accidenti se risuonano le parole che ho ascoltato nei mesi, se irrompono le relazioni conflittuali come ospiti indesiderati, insieme alle fratture della mia storia, le ferite degli altri con cui sono entrato in contatto; come si amplificano nel silenzio dell’eremo le negligenze di questo tempo e come appaiono false le parole urlate che sono fumo negli occhi e che costantemente bombardano le nostre orecchie, inquinando l’ascolto, mentre veniamo ubriacati di immagini, per convincerci che ciò che si vede è verità, mentre è solo ciò che si ascolta nel profondo e in uno spazio di disponibilità e nell'esercizio di un pensiero critico e costantemente confrontato con altri pensieri,   che possiamo avvicinarci un po’ alla realtà e alla verità di questo mondo.

Questi giorni sono abitati anche dai fatti, lascio entrare anche le parole che vengono usate per dare notizia, la mia preghiera è anche con il giornale. Nel ripetersi ormai vuoto e monotono di liturgie laiche, che scimmiottano sacralità volutamente accantonate, parole di circostanza che tendono a ritirare su l’umore dei popoli dopo l’ennesimo attentato, mi innervosisco, mi irritano, provo ribellione, e sento che il Vangelo mi spinge ad avere coraggio come lo ebbe Gesù in un giorno qualsiasi quando entrato nel Tempio gettò  i banchetti dei cambiavalute al vento. Cosa vuol dire “non cambieremo il nostro stile di vita”, se dietro a tanta retorica non si chiarisce a quale “stile” ci si riferisce, perché si sbandiera la libertà e i diritti, le uguaglianze e le opportunità per tutti, nascondendo altro, molto altro, come gli interessi, le violenze, le armi vendute, gli sfruttamenti selvaggi di popolazioni intere, lo sradicamento di convivenze sagge e mature tra culture e religioni, per impiantare guerre e contrapposizioni fomentate in nome di interessi economici di altre nazioni, le nostre nello specifico. Il silenzio dell’eremo , ho scoperto, non è anestetizzante, non ti acquieta l’animo, non ti inebetisce, non ti disincarna lo sguardo puntandolo sull'attesa di un paradiso oltre il tempo della vita carnale, il silenzio dell’eremo, ma soprattutto il sentirsi abitati da Dio, mi pongono in maniera disarmante di fronte ad una scelta: quale stile di vita intendi assumere? Quello che ingozza il tuo IO o nutre gli orizzonti del NOI?


venerdì 23 giugno 2017

Prima della calura

Liberare completamente le mani, averle vuote  e mantenerle vuote, restando per un po’ di tempo immersi nel silenzio e lasciando che il silenzio stesso modelli la posizione delle mani, che assumono la forma di una ciotola, che non si preoccupa di portare, ma di accogliere, non tiene conto della misura che può contenere, perché anche solo un granellino che viene posto al suo interno, la colloca nella dimensione dell’accoglienza.
Prima che il sole arroventi le ore della mattinata, mi piace alzarmi presto e godermi il silenzio e l’inattività delle prime ore del giorno, il quartiere sembra ancora approfittare della quiete degli uomini per lasciare alle spalle chissà quali storie e situazioni della notte precedente, ho imparato ad ascoltare e riconoscere i rumori della notte, ad incrociare i volti cogliendo nello spazio di un “ciao” situazioni, storie e vissuti che non è facile narrare, ma come quel piccolo granello si può imparare ad accogliere perché in qualche maniera qualcuno lo prenda in custodia, senza giudicare, senza aver paura, senza allontanare ed è proprio per non banalizzare, sottovalutare o disperdere queste piccole consegne, che ho bisogno di quel tempo silenzioso del mattino in cui con le mani poste a forma di ciotola, attendo che venga deposta una Parola. Non c’è fretta, non può esserci spazio per la “pretesa”.
Monastero di Bose- San Masseo- Assisi
Ho percepito così, quasi di passaggio, il ritrovarmi io un piccolo granello accolto e contenuto, non misurato o messo alla prova di qualità, come i prodotti da supermercato, mi sono trovato nel cuore di un grembo che custodisce un mistero e lascia tempo e spazio adeguato per il tempo della maturazione. C’è una profonda reciprocità tra il desiderio di accogliere e l’essere stati accolti, un legame profondo, un generarsi a vicenda. Dio è principalmente un incontro. Un incontro che “custodisce il mistero dell’altro” parafrasando Massimo Recalcati. “La nostra vita è generata da incontri…Noi non siamo il semplice prodotto passivo di quegli incontri ma, come ha sempre ribadito Sartre, la possibilità di fare qualcosa di ciò che quegli incontri hanno fatto in noi[1].
Siamo il frutto della creatività generata dalla visita dell’altro; non siamo quindi originalissimi, non abbiamo l’esclusiva del copyright del nostro “IO” e non siamo la “svolta rivoluzionaria” che questo mondo attende da secoli, ci possiamo rilassare.
Fin tanto che non mi libero dalla logica che devo difendere e rivendicare il copyright del mio IO e della mia storia, non potrò mai cogliere il valore dell’incontro, con il rischio di manipolare, forzare, determinare, rapportare tutto a me, misurare, classificare, tutto quello che avviane nella relazione con gli altri. Credo che tutto questo non faccia altro che radicalizzare l’isolamento, svalutando l’appartenenza reciproca, trasformandoci in isole irraggiungibili e sempre più desertificate; non sarà che il mito e il valore dell’autodeterminazione, lo abbiamo trasformato in “non aver più bisogno dell’altro”
percepito ormai come ingombrante? Tutto questo non ha forse elevato a indici di piena libertà la “mediocrità” ? [2].
Monastero di Bose- San Masseo Assisi
C’è un gusto profondo che mi lascia l’aver accolto ogni mattina quella piccola Parola consegnata inaspettatamente nella mia “ciotola”, c’è una vitalità che si genera e rigenera in una maniera sempre nuova anche se contenuta in un ripetersi costante di gesti , in un per sempre della mia scelta di vita che è il grembo che non fagocita ma accoglie e matura; quella Parola non è mia, eppure legge in profondo quello che sento e vivo, entra fin dentro le giunture e le fa vibrare, sono le parole che mi mancavano per dire ciò che contiene la mia vita. Se apprendo l’arte del saper stare in questa dimensione, non mi resta difficile essere consapevole dove questa relazione con Lui mi ha condotto.
Allento le mani, le lascio andare, provo ad accogliere nell'essere accolto, mollo l’attesa del “grande grande evento”, dell’esperienza finalmente emozionate e mi gusto il quotidiano, il giorno dopo giorno apparentemente anonimo…inaspettatamente si generano incontri che mi portano molto vicino ad un umanità che la mediocrità generale non sa più riconoscere.




[1] M. Recalcati, “Il segreto del figlio, da Edipo al figlio ritrovato”; ed Feltrinelli, pag. 70.
[2] Cfr. A. Deneault; “La mediocrazia”; ed. Neri Pozzi, Vicenza 2017.

sabato 15 aprile 2017

L'ubriacatura di Dio

Non è stato così tanto difficile entrare nel cuore delle situazioni umane che nel tempo ho incrociato, nemmeno troppo faticoso provare a relazionarmi con esse, quello che nel tempo si è rivelato un vero  punto di snodo, una difficoltà, un ostacolo faticoso da superare, è stato accogliere l’inutilità della mia presenza, della mia azione, la certezza che spesso l’unico passo da compiere fosse quello indietro, per far spazio a chi mi stava davanti. Ciò che appare come sconfitta, incapacità, non azione è spesso la porta d’ingresso per andare nel cuore stesso dell’esistenza umana; non si tratta più di entrare di prepotenza nelle storie e nelle situazioni, nemmeno di farsi paladino di una giustizia o di un orizzonte di senso che spesso è più appannaggio del proprio io, che il risultato di un ascolto comune del reale, non si tratta nemmeno di una sorta di rinuncia, di un “fate voi”, è altro, decisamente altro.

Il tempo che stiamo vivendo non mi piace, l’ubriacatura da individualismo assoluto che ormai inzuppa ogni scelta personale e comunitaria, non mi fa scorgere nulla d’interessante, incomincio ad essere veramente stanco delle prepotenze, degli atteggiamenti arroganti, del livello sempre più aggressivo che spesso si respira anche nelle situazioni più banali, rafforzando l’idea che per essere visibili, presenti e riconosciuti fosse necessario aggredire e vincere sul pensiero dell’altro, sempre e comunque. La manipolazione costante della realtà, per cui tutti sanno, smascherano e rivelano ciò che è nascosto, ci sta rendendo simili a quei bambini arroganti e decisi a vincere a tutti i costi, che hanno come unico obiettivo il “far tana”, dimenticando che il gioco prevedeva al contrario, qualcuno più coraggioso che riusciva nell'impresa più importante: far “tana libera tutti”; quest’ultimo obiettivo lo abbiamo completamente dimenticato.

Dio invece si è ubriaco del “tu” e in questa vertigine, che solo un innamorato può comprendere, si lascia accompagnare fino in fondo nelle contraddizioni degli uomini;  non manipola, ma si pone in relazione, non determina per arrivare per primo a segnare il territorio, ma accoglie il rischio dell’ateismo ( cioè che non venga riconosciuto) per fare spazio alla lentezza, alla creatività e alle infinite sfumature del conoscersi.

Mi affascina questa follia di Dio, mi fa provare fatica perché spesso, molto spesso non riesco a credere, ossia a dare fiducia che veramente esista questo Dio e che questa è la sua logica nell'essere presente; continuamente mi mette in crisi, ossia mi fa scorgere che sono necessari cambiamenti, mi scomoda perché quando sperimento la relazione con Lui, in questa sua dimensione di ubriaco dell’uomo, non posso che scegliere di scardinare le dinamiche attuali di questo mondo, ma a partire dalla logica del “passo indietro”, che scopro è il passo necessario per riposizionarmi a fianco degli altri uomini.


Un Dio così ubriaco del desiderio dell’uomo, mi sembra si possa scorgere in tutta la sua provocazione, nel Gesù dei Vangeli, che fino in fondo entra nella violenza che gli uomini sono capaci di mettere in atto, arriva fino “agli inferi” che il cuore umano è capace di concretizzare…ed è quella scelta di discendere, del fare il passo indietro, di viverlo e basta, che è capace di scardinare, rompere, spezzare, frantumare la logica di morte. Questo Gesù allora, non può che generare vita e vita in abbondanza, oltre ogni limite del tempo.

Buona Pasqua di Resurrezione, ubriacati anche noi di passione per l’umanità.

mercoledì 1 marzo 2017

Lui è dove non lo aspetti

Approfitto della pausa nel pomeriggio per sistemare alcune questioni pratiche della vita quotidiana e poi dritto in casa, il sole quasi primaverile di questa giornata e il suo modo di illuminare le due stanze che ho preso in affitto, mi spinge a godere di una sensazione particolare, fatta di un misto di calma e calore, ho bisogno di entrambe per questo non me le lascio sfuggire; le giornate che lentamente si ubriacano di luce, non sono percepite immediatamente, il crescere del giorno è un movimento talmente lento e nascosto, che richiede una sosta prolungata, una pausa di sospensione e una disposizione alla meraviglia, per consapevolizzare che la notte cede il passo al giorno. I movimenti profondi di un cambiamento non avvengono se non nel progredire lento e in quel “non tangibile” o  “non afferrabile”, che sono in netta contraddizione con la legge del “tutto e subito” che oggi qualifica l’esistenza di molti. Mi piace che questo mercoledì delle ceneri si apra con questa percezione che mi fa pensare a quella voce di un vento leggero, che il profeta Elia ha colto come la qualità della presenza di Dio. In un tempo dove tutti scagliano su chiunque parole pesanti e spesso violente prescindendo da qualsiasi ascolto o riflessione, un tempo della radicalizzazione dei pregiudizi, delle posizioni individualiste, delle generalizzazioni assunte a dati scientifici, delle verità affermate a forza di slogan e opinioni scambiate per pensieri generati dalla riflessione attenta e articolata. Questo mi sembra il tempo degli individui che si ritrovano nella massa delle persone giuste, mai dalla parte sbagliata.

La luce cresce lentamente in questi giorni e non fa rumore, la sua abbondanza non è calcolata, te ne puoi accorgere quando è da tempo oltre misura, dilata il giorno e coinvolge la vita, non si aspetta riconoscenza perché è un dono. Mi faccio accompagnare da questo ciclo della natura e in esso mi sembra di scorgere la narrazione dell’essere di Dio; nella mia storia personale molte volte ho dovuto fare i conti con quella prepotenza di volermi a tutti i costi dalla parte del giusto, mi sono spesso arroccato e irrigidito, alla fine imprigionato, nel percepire la fragilità e il limite come mancanza e non come opportunità, come parte di me e della mia storia; anche nelle relazioni ho spesso sbilanciato la mia posizione verso lo sforzo del sentirmi perfetto, nel tendere ad una coerenza che assomigliava più ad una corazza che ad un continuo tentativo di far baciare pensieri e azioni concrete.
Poi lentamente l’incontro che non ti aspetti:  la fragilità di Dio, il limite del suo silenzio, il vuoto del suo grembo, il deserto del suo continuo esodo, mi hanno lentamente preso per mano e condotto nel cuore della mia umanità. Oggi sento il bisogno di appartenere, la forza del legame, la possibilità che mi offre una relazione, la fatica che genera un incontro, il limite che la reciprocità mi sbatte in faccia e la vita che si genera dallo stesso limite non per  contrapposizione ma per interazione. E’ un continuo sentirmi preso per mano, con quella delicatezza che è simile al giorno che aumenta lentamente e con decisione, con il passo di chi non ti impone la meta, ma immerge il tuo cammino in un “esserci” che cura e che apre al possibile.