Ricordo benissimo il periodo della mia vita durante il quale
ho incrociato gli scritti di Charles de Foucauld, intorno al 1992, avevo 23
anni, quello che stavo cercando era la possibilità di vivere il Vangelo non
dentro qualche istituzione particolare ( in quel periodo ero in seminario) ma
in mezzo alle situazioni di vita le più concrete. A 23 anni non si ha l’abitudine
di cogliere ed apprezzare il valore delle sfumature, si è spesso preda di un’energia
tale che si è sicuri di poter cambiare il mondo, sono contento comunque di
averla sperimentata quella frenesia, quella presunzione, quel desiderio
profondo che forse celava anche altro. Mi ritengo fortunato perché non ho
trovato mai nessuno che abbia screditato o disinnescato quell’entusiasmo, al
contrario, ho avuto la fortuna di avere accanto adulti che hanno saputo pormi
le domande giuste, quelle scomode, quelle che ti mettono in crisi con il chiaro
intento di spingerti oltre e non bloccarti. Charles de Foucauld arrivava nella
mia vita in un momento propizio, o forse ero in una fase del mio cammino che
avevo le antenne giuste per sintonizzarmi e captare le sue intuizioni. Mi sono imbattuto
nei suo scritti, letti voracemente: tremendi, un linguaggio intriso di
devozioni tipiche di fine ottocento, una serie di ragionamenti e meditazioni a
volte un po’ contorti, eppure nonostante l’enorme distanza tra me e il suo
stile letterario, era come se intuissi che dovevo andare oltre, trapelava
qualcosa di diverso tra le righe, mi risuonava dentro quella ricerca spasmodica
di intimità e confidenza con il Dio che aveva incontrato da adulto dopo anni di
distacco, mi risuonava dentro perché era ciò che stavo cercando: non una
riflessione razionale su Dio, ma l’esperienza di Dio. Per lui tutto questo si manifestava
con una vita molto impastava tra la gente, un equilibrio difficile e acrobatico
per certi aspetti, tra ore di silenzio e visite continue di gente che bussavano
alla porte del suo eremo, un equilibrio che forse non ha mai risolto e che la
sua morte violenta ha solo interrotto, ma non riconciliato. Con il tempo ho
appreso che quando un’esperienza di vita ti risuona dentro, ti colpisce, prende
la tua attenzione, ha sempre a che fare con parti profonde di te stesso, tocca
tasti dolenti, che chiedono di essere messi alla luce e di trovare una risposta;
grazie alla spiritualità di nazareth che man mano andavo conoscendo e
approfondendo, ho fatto l’unica scelta possibile e congruente con quello che
sentivo in quel momento: fermarmi e lasciare il seminario, senza altra
prospettiva concreta davanti a me. Non si trattava di lasciare un posto sicuro
per un altro ancora più sicuro, certo ero sempre più orientato verso i piccoli
fratelli, ma di concreto e deciso non c’era nulla.
In questo mi sono sentito in
buona compagnia con la storia di Charles de Fuocauld: non un identità, un ruolo
da indossare, ma una scelta da compiere a partire dalla propria storia e dalla
propria identità. E’ stato fondamentale non ritrovare più il volto di Dio, perché
non lo potevo più possedere, era da incontrare di nuovo; è stato salutare
ripartire dal concreto della mia vita, nuda e cruda come del resto è il
quotidiano di ogni uomo e donna di questo mondo, e non ripartire da idealismi
disincarnati pericolosamente preda di proiezioni interne. Il deserto è stato
presente materialmente nella vita di fratel Charles, se non altro perché ha
trascorso molti anni nel deserto algerino, ma il deserto è stata la cifra
essenziale della sua esperienza di Dio e degli uomini, non certo il luogo della
privazione, della penitenza, ma il luogo del nulla e dell’assenza, là dove “ ha
origine ogni esistenza”, parafrasando Arturo Paoli. L’incontro con la sua
storia, l’esperienza successiva con la fraternità dei piccoli fratelli del
Vangelo, hanno profondamento segnato la mia vita, non mi hanno mai messo al
riparo da incertezze o crisi, al contrario, mi hanno radicato sull’importanza del vivere il
silenzio e del vivere tra le masse relazioni di vicinanza e prossimità: il
silenzio, per svuotare le mie ‘mani’, allentare le mie resistenze e rigidità, e
per questo creare lo spazio favorevole all’incontro; le masse per mettere
sempre i piedi a terra, per non idealizzare e disincarnare, per ritrovare l’appartenenza,
per scoprire la forza della reciprocità. Dentro queste dinamiche, ritrovo l’annuncio
del Vangelo, che non vuol essere solo annunciato da me, ma che mi viene
annunciato dai miei vicini, dalle storie che incrocio e che mi vengono
consegnate attraverso confidenze, quel Vangelo che è come un seme lanciato, che
cresce e matura senza che nessuno si accorga, e per questo, nonostante tutto (
anche noi Chiesa), porta il Suo frutto, oltre i nostri limitati orizzonti.