venerdì 23 settembre 2016

Chi fa da se...fa tristezza

 In un angolo della mia casa, sosta silenziosa e quasi inerme, la mia chitarra, non ricordo nemmeno il suono che è capace di produrre tanto è il tempo che non la utilizzo, sono una quelle attività che si fanno da giovani e si consumano come abbuffate che poi diventano indigeste e non ti va nemmeno più di avvicinarle, così è stato per la mia povera chitarra: suonata alla meno peggio, con un particolare accento sul “peggio”, sottoposta a vibrazioni esagerate per il metodo “fai da te”, trasportata ovunque e lasciata a destra e sinistra, nelle mani di chiunque. La mia chitarra è un regalo di un gruppetto di giovani che negli anni dell’attività parrocchiale, pensarono bene di munirmi di qualcosa di più decente rispetto a quella che possedevo in  precedenza, che almeno avesse la dignità di essere classificata come chitarra. Questa mattina il suo essere ferma nel suo angolo mi ispira, la tiro fuori dalla sua custodia di jeans (rigorosamente fatta a mano) e guardo la sua “cicatrice”. In un angolo della cassa di risonanza è ben visibile la rottura subita e la successiva riparazione da parte di un liutaio. Non è la “rottura” che attira la mia attenzione, né la metafora della ferita, ma la perdita della capacità di essere “cassa di risonanza” che quel pezzo mancante provocherebbe se non fosse stato riparato.
Sono anni che cerco nel mio quotidiano di curare, accogliere, rendere attivo il “silenzio” come cassa di risonanza della vita e degli incontri; per me, nel tempo, è diventato come lo spazio fecondo che accoglie e genera, una dimensione radicata lentamente e divenuta parte naturale della mio essere, riconosciuta come presente sin dall'inizio del mio esistere e non come luogo ricevuto dall'esterno o creato artificialmente; il silenzio è diventato sempre di più un talamo nuziale, dove la carnalità, il contatto, si nutre, si lascia trasformare, rigenerare, superare dalla dimensione dall'esperienza di intimità, che non è fame vorace, ma esperienza sempre possibile quando il “voler possedere” cede definitivamente il posto al “lasciarsi ricevere” e “saper ricevere”.  Il silenzio è questo luogo in me, con la sua fragilità, la sua delicatezza, la sua necessità di cura, la sua attrazione e la sua passione.
Il silenzio è anche il custode e la forma della mia scelta di celibato, a condizione che in esso si realizzi, sperimenti un “essere coniugato”. La mia chitarra se non fosse passata di mano in mano, se fosse restata gelosamente protetta e custodita al riparo da tutto e tutti, se non fosse stata toccata da mani differenti che l’hanno fatta “vibrare”, beh! Sicuramente oggi non aveva quella vistosa riparazione e il suo suono sarebbe stato differente: pulito, chiaro, affinato e voce di un solo io, quello del suo unico e geloso proprietario. E’ l’illusione subdola e convincente dell’essere “perfetto”, in cui i risultati sono sempre splendidi, ma è quella perfezione che a lungo risulta “innaturale”. A me sembra che questo sia oggi, lo spartito che va per la maggiore, che è capace di fare tutte le melodie, con una sola nota: l’IO. A dirla tutta, a me questo tipo di musica che va per la maggiore…non mi piace.
Meglio stonare, avere un suono poco limpido, affaticarsi nell'armonizzarsi con altri, ed affinare l’orecchio nel cercare quell'accordatura che non arriva mai, ma è sempre possibile; meglio il NOI faticosamente raggiunto da un' orchestra, in cui la mia chitarra ammaccata, zitta zitta potrebbe anche suonare, che l’IO solista che a forza di distinguersi non sa più godersi una barretta tra pari a fine concerto .


E grazie soprattutto a quel discreto Liutaio, artigiano rigoroso, paziente, delicato, che non vede i pezzi rotti e inutili, ma genera nuove possibilità…le sue mani hanno reso, la mia chitarra ferita, ancora capace di suonare un NOI.







martedì 13 settembre 2016

Prepara la valigia e ...mettiti in cammino

...E’ tempo di prendere di nuovo la valigia e prepararla, è il tempo della decisione appassionata, dell’abbandonarsi senza misura alla reciprocità con Dio e gli altri, è il tempo in cui il “fidarsi” ha il sapore fresco, gustoso e irrinunciabile dell’essere stato accolto; è il tempo in cui matura il desiderio profondo che ciò che si è vissuto, scoperto, sperimentato non abbia scadenze, ma diventi il grembo che genera novità nel ripetersi del giorno dopo giorno, in un sempre che non spaventa. Apro la valigia e non è da riempire, c’è di tutto: volti, situazioni, incertezze, vulnerabilità e incoerenze, poi ci sono “parole” consegnate, sguardi amplificati dal silenzio, storie che hanno chiesto ascolto; ci sono anche vecchi appunti di progetti mai realizzati. Li guardo, non li tocco, mi do il tempo per sentirli ancora vivi in questo oggi; poi mi accorgo che la valigia ha ancora dello spazio “vuoto”. Non voglio riempirlo, preferisco custodirlo…è la parte più importante del viaggio fin qui vissuto, è il posto che Dio si è ritagliato nella valigia consumata da questi anni, è lì che sento risuonare il mio desiderio più profondo, è lì che non percepisco il tempo, ma colgo lo spazio per un incontro senza tempo. 

Non sempre comprendo il contenuto di questa valigia, anche di quest’incertezza non posso ormai fare a meno. Se guardo la valigia mi dico con passione che il biglietto ha una direzione ben precisa: nel cuore di Dio e nel cuore degli uomini.
Andiamo si parte.