lunedì 20 agosto 2018

Le rughe di Dio


Le temperature decisamente meno afose permettono al mio corpo di rilassarsi e ritrovare una certa serenità,  non è mancato nemmeno il classico temporale estivo, con scroscio violento e deciso, il quale mi ha costretto a ricorrere a stratagemmi particolare per evitare che entrasse acqua da sotto la porta d’ingresso, visto che verso di essa si era creata una bella cascata naturale;  poi immediatamente la calma, il silenzio e il sole che rapidamente riscalda il terreno e produce vapore per ricordare che tutto sommato è ancora estate, una calda estate. E’ un’abitudine che non voglio tralasciare quella di salire in eremo per qualche giorno durante le vacanze, mi accorgo che ormai sono almeno 15 anni che frequento questo posto. L’eremo non è il luogo dove cercare risposte, ma è l’occasione semplice e disarmante di un incontro: è lo stare, inabissandosi nel totalmente gratuito.

Ci si sta scomodi all’inizio, ci si muove continuamente, o si fanno roteare i pensieri  e le “voci” interiori con il maldestro intento di impegnarsi con la ragione a dare un senso a ciò che proprio non lo desidera avere: la solitudine con l’amato. Ci si organizza, ci si carica di libri, si guarda continuamente l’orologio e anche se per anni sai che prima o poi devi cedere e lasciarti andare al silenzio, beh! Non lo impari mai, la resistenza e il controllo vanno di pari passo con  l’ingenuità nel credere che puoi organizzare l’intimità con Dio: l’incontro lo puoi solo aspettare svuotandoti, rallentando e soprattutto e ripeto, soprattutto senza pretendere…potrebbe anche non avvenire l’incontro desiderato.
Poi c’è un punto di svolta, inaspettato e generativo: anche Lui si ritrae, si rannicchia, crea vuoto e fa spazio; si, come un artigiano paziente fa spazio, lo costruisce come dimensione,  ma non lo “arreda” non lo organizza, è un vero e proprio “spazio vuoto”. I rabbini dicevano che nella creazione Dio si è contratto e “in questo contrarsi di Dio su di sé, Dio ha fatto anche spazio al nulla, a ciò che non è Dio[1], in questo nulla è possibile dialogare, ascoltarsi, “guardarsi”.


Dio dunque si è autolimitato, ha contratto e limitato l’infinita ampiezza del suo essere per far posto alla creazione[2].

Il silenzio e la solitudine diventano immensi, si amplificano, mettono a riposo l’udito e squarciano i confini stretti della ragionevolezza per spalancare le porte ad un ascolto differente, quello dell’intimità, dove la vulnerabilità reciproca, quella tua e quella di Dio, non sono più un rischio, ma una ferita creativa.
La solitudine diventa un nuovo diluvio, un rimescolarsi, un togliere e un purificare, diventa un attesa di quiete che poi si rivela inquietudine, perché quando la tua arca si appoggia di nuovo alla terra ferma perché non più in balia delle onde, la porta si spalanca sull’umano e l’umano è relazione.  Per un attimo mi è sembrato di accarezzare le “rughe” di Dio, quelle della sua fatica, del suo ritrarsi per fare continuamente spazio, le “rughe” della sua ostinazione che lo porta a ripetere con la forza del primo giorno “ è cosa molto buona”, anche quando si è portati, a ragione, a dire il contrario sulle azioni degli uomini; le rughe di chi si lascia anche accusare delle ingiustizie di questo mondo che magari non ha nemmeno provocato; le rughe soprattutto di chi le ingiustizie se le fa arrivare dritte nel cuore. Con questo non voglio dire che Dio ha bisogno di consolazione, figuriamoci, non è un vecchio egocentrico.
Le rughe di Dio richiamano quelle di uno sguardo diretto e deciso che chiede: uomo dove sei? Dov’è tuo fratello?...e in questi tempi sono domande molto scomode, no  lasciano in pace, in quiete.












[1] E. Bianchi; “Adamo dove sei”; ed. Qiqajon; Magnano 2007; p.117
[2] Ibidem p. 118