venerdì 31 agosto 2018
lunedì 20 agosto 2018
Le rughe di Dio
Le temperature decisamente meno
afose permettono al mio corpo di rilassarsi e ritrovare una certa
serenità, non è mancato nemmeno il
classico temporale estivo, con scroscio violento e deciso, il quale mi ha
costretto a ricorrere a stratagemmi particolare per evitare che entrasse acqua
da sotto la porta d’ingresso, visto che verso di essa si era creata una bella
cascata naturale; poi immediatamente la
calma, il silenzio e il sole che rapidamente riscalda il terreno e produce
vapore per ricordare che tutto sommato è ancora estate, una calda estate. E’
un’abitudine che non voglio tralasciare quella di salire in eremo per qualche
giorno durante le vacanze, mi accorgo che ormai sono almeno 15 anni che
frequento questo posto. L’eremo non è il luogo dove cercare risposte, ma è l’occasione
semplice e disarmante di un incontro: è lo stare, inabissandosi nel totalmente
gratuito.
Ci si sta scomodi all’inizio, ci
si muove continuamente, o si fanno roteare i pensieri e le “voci” interiori con il maldestro
intento di impegnarsi con la ragione a dare un senso a ciò che proprio non lo
desidera avere: la solitudine con l’amato. Ci si organizza, ci si carica di
libri, si guarda continuamente l’orologio e anche se per anni sai che prima o
poi devi cedere e lasciarti andare al silenzio, beh! Non lo impari mai, la
resistenza e il controllo vanno di pari passo con l’ingenuità nel credere che puoi organizzare
l’intimità con Dio: l’incontro lo puoi solo aspettare svuotandoti, rallentando e
soprattutto e ripeto, soprattutto senza pretendere…potrebbe anche non avvenire
l’incontro desiderato.
Poi c’è un punto di svolta,
inaspettato e generativo: anche Lui si ritrae, si rannicchia, crea vuoto e fa
spazio; si, come un artigiano paziente fa spazio, lo costruisce come
dimensione, ma non lo “arreda” non lo
organizza, è un vero e proprio “spazio vuoto”. I rabbini dicevano che nella
creazione Dio si è contratto e “in questo contrarsi di Dio su di sé, Dio ha
fatto anche spazio al nulla, a ciò che non è Dio”[1],
in questo nulla è possibile dialogare, ascoltarsi, “guardarsi”.
“Dio dunque si è autolimitato, ha
contratto e limitato l’infinita ampiezza del suo essere per far posto alla
creazione”[2].
Il silenzio e la solitudine
diventano immensi, si amplificano, mettono a riposo l’udito e squarciano i
confini stretti della ragionevolezza per spalancare le porte ad un ascolto
differente, quello dell’intimità, dove la vulnerabilità reciproca, quella tua e
quella di Dio, non sono più un rischio, ma una ferita creativa.
La solitudine diventa un nuovo
diluvio, un rimescolarsi, un togliere e un purificare, diventa un attesa di
quiete che poi si rivela inquietudine, perché quando la tua arca si appoggia di
nuovo alla terra ferma perché non più in balia delle onde, la porta si spalanca
sull’umano e l’umano è relazione. Per un
attimo mi è sembrato di accarezzare le “rughe” di Dio, quelle della sua fatica,
del suo ritrarsi per fare continuamente spazio, le “rughe” della sua
ostinazione che lo porta a ripetere con la forza del primo giorno “ è cosa
molto buona”, anche quando si è portati, a ragione, a dire il contrario sulle
azioni degli uomini; le rughe di chi si lascia anche accusare delle ingiustizie
di questo mondo che magari non ha nemmeno provocato; le rughe soprattutto di
chi le ingiustizie se le fa arrivare dritte nel cuore. Con questo non voglio
dire che Dio ha bisogno di consolazione, figuriamoci, non è un vecchio egocentrico.
Le rughe di Dio richiamano quelle
di uno sguardo diretto e deciso che chiede: uomo dove sei? Dov’è tuo
fratello?...e in questi tempi sono domande molto scomode, no lasciano in pace, in quiete.
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