Giornate decisamente più libere, rintanato in casa nelle ore
più calde, quando non sono preso dagli impegni di lavoro, ne approfitto per
leggere, per dare spazio a ciò che amo profondamente, il silenzio. Da tempo ho
cercato di salvaguardare un ritmo di vita non necessariamente frenetico,
provando a distinguere quelli che sono gli impegni e le responsabilità della
vita quotidiana, da quello che è il bisogno di sentirmi costantemente in
movimento e presente ovunque, perché credo che questo secondo aspetto sia attuale
nelle nostre vite molto più di quanto si
possa credere; fermarsi e chiedere anche a chi ci circonda che abbiamo bisogno
di un nostro tempo, non sempre diventa facile da esplicitare, in particolare a
noi stessi; fermarsi vuol dire ascoltarsi nel profondo, vuol dire anche vivere
un tempo di gratuità in cui si impara a ricevere anche la parte più “scomoda”
di noi. Questa gratuità ha in se una grande provocazione, fa risuonare una
domanda di fondo, che per certi versi può spaventare: sei così tanto
indispensabile? Sei certo di essere utile?
Le domande nette, hanno il potere di lasciare aperti più
spazi interpretativi, arrivano dritte all'obiettivo di scomodarci e ci lasciano
orfani di risposte certe, aprono dei vuoti, che non intendono riempire, ma
custodire; in questo caso si può restare o fuggire. Nella mia professione di
educatore, e nella mia scelta di piccolo fratello, il rischio dell’essere utile
ed indispensabile per il bene degli altri è un pericolo costante, tanto evidente,
quanto nascosto tra le pieghe del mio
agire quotidiano, nei gesti che compio, nella pretesa che le situazioni debbano
evolvere nella direzione che ho intuito e immaginato come migliore. Ma si è
utili anche quando si è “inutili”. In questa seconda sfumatura si ha l’occasione
di ridimensionare se stessi e riposizionarsi tra gli altri, di ritrovare un’originalità
che non risiede solo in quello che si fa per gli altri, ma nella capacità di
lasciare lo spazio all'originalità dell’altro. Accogliere la propria “inutilità”
vuol dire apprendere prima di tutto l’ascolto profondo e nutrito di meraviglia
di chi ho di fronte, riconoscendone l’originalità e l’importanza, dando valore
a ciò che l’altro vive, esprime e cerca. Siamo troppo condizionati da una
cultura che per secoli si è sentita al centro del mondo, il fulcro di una
civiltà insuperabile, superiore per antonomasia, che per quanto si voglia
criticare, beh! non siamo mai così barbari come altri popoli. E’ radicato in
noi questo senso di utilità che abbiamo in tutti i modi esportato e provato a
seminare negli animi di altri popoli, facendone una missione di civilizzazione.
Questa a mio modo di vedere è responsabilità di tutti, credenti e laicisti, perché
popolazioni che si sentono così laiche non sono poi state così tenere e non
violente nelle conquiste coloniali, come anche le nostre comunità religiose ed
ecclesiali hanno per anni posto il proprio modello di Chiesa come l’unico a cui
uniformarsi, fortunatamente oggi la vitalità, la riscoperta del Vangelo e della
sua follia arriva dal Sud del mondo, dove incominciano con maggior vigore a
rifiutare il nostro modello europeo e a mettere sullo stesso piano di valore il
loro cammino, la loro storia, la propria spiritualità, in quest’ottica il viaggio
di Francesco in America Latina ne è l’esempio più dirompente, ma i nostri mezzi
informativi hanno riportato ben poco se non l’inutile osservazione sulla croce
falce e martello.
Anche Dio in questa logica diventa utile o inutile, oggi lo
è sempre meno. Ed è interessante che questo stia avvenendo soprattutto nelle
nostre società occidentali, letto come elemento di progresso ed evoluzione da
una mentalità arcaica, tradizionalista e superstiziosa. Mi sento di affermare
che in effetti Dio è inutile per il nostro contesto, soprattutto quando ci
spinge a lasciare le logiche del potere e dell’individualismo, nel Vangelo mi
sembra che Gesù non pone l’assoluto di Dio, anzi lo combatte perché genera l’assoluto
della religione, ma pone la ricerca di
Dio come relazione, come incontro mai posseduto in pienezza, come gratuità e
passione donata a prescindere, ci pone di fronte ad un Dio plurale, perché riflesso
nella pluralità dell’umano, a partire dal più inutile ed è proprio questa la
provocazione più grande a mio parere, per il nostro contesto culturale e
sociale. Questa logica evangelica mi spinge ad essere “ateo”, ad aver coraggio
di lasciar andare anche le idee e immagini di Dio che mi sono costruito per
utilità e protezione, perché diventi disponibile nello spazio dell’inutilità, a
saper accogliere e ricevere quello che Lui è, senza manipolarlo per mia utilità,
riporto le parole di fratel Andrè Louf , monaco trappista, che mi hanno
profondamente toccato ed entusiasmato: “Più di ogni altro credente il contemplativo diventa allora un esperto in ateismo. Crede? Forse…ma senza credere a lui sembra. Non ci capisce più niente, salvo una cosa: che il Dio al quale pensava di credere non era che un semplice idolo, più o meno inventato da lui, o forgiato da una cultura ancora vagamente impregnata di cristianesimo; e che il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo, è completamente altro e verrà altrove; e soprattutto che egli non deve più cercare di raggiungerlo con sforzi, ma che basta attenderlo senza stancarsi, e lasciarsi afferrare da Lui, nell'ora che a Lui piacerà”.