domenica 19 luglio 2015

Inutile opportunità

Giornate decisamente più libere, rintanato in casa nelle ore più calde, quando non sono preso dagli impegni di lavoro, ne approfitto per leggere, per dare spazio a ciò che amo profondamente, il silenzio. Da tempo ho cercato di salvaguardare un ritmo di vita non necessariamente frenetico, provando a distinguere quelli che sono gli impegni e le responsabilità della vita quotidiana, da quello che è il bisogno di sentirmi costantemente in movimento e presente ovunque, perché credo che questo secondo aspetto sia attuale nelle nostre vite  molto più di quanto si possa credere; fermarsi e chiedere anche a chi ci circonda che abbiamo bisogno di un nostro tempo, non sempre diventa facile da esplicitare, in particolare a noi stessi; fermarsi vuol dire ascoltarsi nel profondo, vuol dire anche vivere un tempo di gratuità in cui si impara a ricevere anche la parte più “scomoda” di noi. Questa gratuità ha in se una grande provocazione, fa risuonare una domanda di fondo, che per certi versi può spaventare: sei così tanto indispensabile? Sei certo di essere utile?

Le domande nette, hanno il potere di lasciare aperti più spazi interpretativi, arrivano dritte all'obiettivo di scomodarci e ci lasciano orfani di risposte certe, aprono dei vuoti, che non intendono riempire, ma custodire; in questo caso si può restare o fuggire. Nella mia professione di educatore, e nella mia scelta di piccolo fratello, il rischio dell’essere utile ed indispensabile per il bene degli altri è un pericolo costante, tanto evidente,  quanto nascosto tra le pieghe del mio agire quotidiano, nei gesti che compio, nella pretesa che le situazioni debbano evolvere nella direzione che ho intuito e immaginato come migliore. Ma si è utili anche quando si è “inutili”. In questa seconda sfumatura si ha l’occasione di ridimensionare se stessi e riposizionarsi tra gli altri, di ritrovare un’originalità che non risiede solo in quello che si fa per gli altri, ma nella capacità di lasciare lo spazio all'originalità dell’altro. Accogliere la propria “inutilità” vuol dire apprendere prima di tutto l’ascolto profondo e nutrito di meraviglia di chi ho di fronte, riconoscendone l’originalità e l’importanza, dando valore a ciò che l’altro vive, esprime e cerca. Siamo troppo condizionati da una cultura che per secoli si è sentita al centro del mondo, il fulcro di una civiltà insuperabile, superiore per antonomasia, che per quanto si voglia criticare, beh! non siamo mai così barbari come altri popoli. E’ radicato in noi questo senso di utilità che abbiamo in tutti i modi esportato e provato a seminare negli animi di altri popoli, facendone una missione di civilizzazione. Questa a mio modo di vedere è responsabilità di tutti, credenti e laicisti, perché popolazioni che si sentono così laiche non sono poi state così tenere e non violente nelle conquiste coloniali, come anche le nostre comunità religiose ed ecclesiali hanno per anni posto il proprio modello di Chiesa come l’unico a cui uniformarsi, fortunatamente oggi la vitalità, la riscoperta del Vangelo e della sua follia arriva dal Sud del mondo, dove incominciano con maggior vigore a rifiutare il nostro modello europeo e a mettere sullo stesso piano di valore il loro cammino, la loro storia, la propria spiritualità, in quest’ottica il viaggio di Francesco in America Latina ne è l’esempio più dirompente, ma i nostri mezzi informativi hanno riportato ben poco se non l’inutile osservazione sulla croce falce e martello.


Anche Dio in questa logica diventa utile o inutile, oggi lo è sempre meno. Ed è interessante che questo stia avvenendo soprattutto nelle nostre società occidentali, letto come elemento di progresso ed evoluzione da una mentalità arcaica, tradizionalista e superstiziosa. Mi sento di affermare che in effetti Dio è inutile per il nostro contesto, soprattutto quando ci spinge a lasciare le logiche del potere e dell’individualismo, nel Vangelo mi sembra che Gesù non pone l’assoluto di Dio, anzi lo combatte perché genera l’assoluto della religione, ma pone  la ricerca di Dio come relazione, come incontro mai posseduto in pienezza, come gratuità e passione donata a prescindere, ci pone di fronte ad un Dio plurale, perché riflesso nella pluralità dell’umano, a partire dal più inutile ed è proprio questa la provocazione più grande a mio parere, per il nostro contesto culturale e sociale. Questa logica evangelica mi spinge ad essere “ateo”, ad aver coraggio di lasciar andare anche le idee e immagini di Dio che mi sono costruito per utilità e protezione, perché diventi disponibile nello spazio dell’inutilità, a saper accogliere e ricevere quello che Lui è, senza manipolarlo per mia utilità, riporto le parole di fratel Andrè Louf , monaco trappista, che mi hanno profondamente toccato ed entusiasmato: “Più di ogni altro credente il contemplativo diventa allora un esperto in ateismo. Crede? Forse…ma senza credere a lui sembra. Non ci capisce più niente, salvo una cosa: che il Dio al quale pensava di credere non era che un semplice idolo, più o meno inventato da lui, o forgiato da una cultura ancora vagamente impregnata di cristianesimo; e che il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo, è completamente altro e verrà altrove; e soprattutto che egli non deve più cercare di raggiungerlo con sforzi, ma che basta attenderlo senza stancarsi, e lasciarsi afferrare da Lui, nell'ora che a Lui piacerà”.