sabato 25 gennaio 2014

Un bambino vi renderà adulti

Come un brano musicale che mescola ritmi lenti ad altri più veloci e incalzanti, ecco che arrivano i mesi dell’anno in cui gli impegni nelle scuole richiedono un buon livello di energia e resistenza ma non solo fisica, in quanto sempre più spesso vengo contattato per poter intervenire sulle relazioni che i ragazzi vivono all’interno dei propri contesti quotidiani, sia scolastici che extra. Noi adulti in queste situazioni, focalizziamo tutta la nostra preoccupazione, le nostre ansie, le nostre incertezze sui ragazzi, come se all’improvviso abbiamo scoperto che oggi gli adolescenti o i fanciulli non sono più così ingenui e spensierati come lo erano una volta; di colpo ci troviamo come adulti ad affrontare disagi, atteggiamenti fuori le righe, ribellioni che ci sembrano fuori misura e inediti. Certo la nostra società è cambiata e lo fa costantemente e ad una velocità che lascia in ognuno e nella collettività, quella sensazione che tutto ci sfugge di mano, che ormai nulla si può controllare, al massimo si può solo subire; chi lavora nelle scuole e nel mondo giovanile sente che arriva forte una domanda di senso da parte dei giovani, ma direi la domanda di essere accolti e ascoltati, riconosciuti nella sfida della propria crescita. Come si può trovare fiducia in sé stessi e nelle relazioni, se non si sperimenta il dialogo con chi francamente e liberamente resta in piedi davanti a te e non si spaventa della tua fragilità, come si può riconoscere nelle proprie crisi il naturale passaggio verso un orizzonte di senso e di maturità, se non incontriamo mai sul nostro cammino adulti che hanno già sperimentato la stessa fatica e per questo sanno accoglierci, vibrare con noi e spronarci ad avere uno sguardo più lungo e non fisso sul proprio ombelico? Mi chiedo se i ragazzi e fanciulli di oggi non sono orfani di questi adulti, se non trovano sempre con maggior frequenza accanto a se adolescenti camuffati da adulti, impauriti e disorientati quanto loro, titubanti a chiamare le cose con il loro nome, intenti spesso a dare un immagine di sé accettabile dai canoni in voga, più che ad accogliere le proprie fragilità dopo averle riconosciute. Nelle relazioni ci sono sempre delle reciprocità, si è specchio gli uni degli altri, e ho appreso a mie spese quanto è necessario accogliere il riflesso di me che passa attraverso l’altro, la parte di me che non accetto ma che nel conflitto si evidenzia con colori e forme ben definite e vivaci, solo stupidamente posso dire di non vederle; alla stessa maniera allora le difficoltà, le fatiche, la ribellione e spesso anche la violenza degli adolescenti, penso non sono altro che il riflesso di quella parte di noi adulti che non abbiamo più accolto, quella responsabilità che abbiamo da tempo lasciato da parte e non assunto, semplicemente perché “ci costa fatica”.

Lasciarmi pormi le domande dall’altro, lasciarmi guardare, toccare, scomodare, mettere in crisi, lasciare che l’altro, anche se adolescente o  fanciullo, mi metta a nudo, renda precario il mio pensiero e faccia tremare le mura di difesa del castello di sabbia che mi sono costruito, questo credo sia la responsabilità da assumerci oggi come adulti, responsabilità che possa trasformare la fatica del nostro tempo in recupero della vita e del ben-essere insieme. Dialogando e confrontandomi con alcune amiche che sono insegnanti, ho scoperto la potenza creatrice che può generare questa senso della responsabilità, di fronte a delle situazioni di forte disagio di alcuni alunni, di fronte alla maniera maldestra e confusa, spesso anche nascosta che gli adolescenti usano per chiedere aiuto, queste insegnanti, ma prima ancora queste donne, hanno scelto di avventurarsi oltre ciò che vedevano, e di scendere nelle profondità di una caverna, dove si era rifugiato il disorientamento di un adolescente e lì sussurrare: “sono qui e non ho paura, in questo tuo luogo segreto posso starci, non scappo”, in questo atteggiamento reale e non costruito, sentito e non dettato dal ruolo, incarnato e non scimmiottato, ho visto in questa amiche la struttura di un adulto di senso. C’è solo una maniera per compiere questa “discesa”, averla sperimentata in sé,  aver sentito quella ventata di aria fresca che irrompe nelle stanze serrate dalla nostra paura, quando facciamo verità in noi, quando, lasciando lo sforzo del “dover essere”,  accogliamo semplicemente quello che siamo.  

Quando dico la verità mi sento libero. Mentre prima quando dicevo le bugie, sentivo che facevo qualcosa di male e stavo male, allora ho deciso che era meglio dire la verità”, sono le parole che ieri  un bambino di quarta elementare ha detto, mentre insieme si cercava di risolvere una questione di contrasto tra loro; “la verità vi renderà liberi” scrivono i Vangeli, e questo è anche l’invito di Dio che silenziosamente è già sceso ed abita nelle grotte segrete della nostra persona e come “vento leggero” sussurra anche a noi “sono qui”. 


venerdì 10 gennaio 2014

Per fortuna la crisi c'è

Conoscersi, osare, decidere” questo il titolo di un minuscolo libricino, a firma di Luciano Manicardi, che ho trovato nella libreria della fraternità di Bose ad Assisi, chiaramente la mia attenzione è stata subito rapita da queste tre parole che risuonavano in maniera forte in me con un eco profondo, insieme al piacere di aver trovato le parole giuste per esprimere i pensieri che sono miei compagni di viaggio da un po’ di settimane. Agisco d’istinto e quasi dò retta al mio desiderio di leggerlo all’istante, lì in piedi, tra altri libri, marmellate e oggetti di artigianato prodotti dai monaci; è la fretta di sempre, quella che rende inutile ogni buon proposito di prendersi sul serio e di dare ascolto in profondità alle domande che emergono e vengono fecondate dal proprio quotidiano, è quella fretta frutto dell’impazienza e del non saper accettare la fatica delle parti scomode di sé, del conoscersi, dell’osare e del decidere. La fretta non è il modo migliore per rispondere seriamente alle questioni più profonde che il nostro vivere e le nostre scelte inevitabilmente ci propongono, credo e ne sono sempre più certo, che vale la pena saper restare dentro la propria fatica e non cercare necessariamente il “paradiso perduto”, perché di perduto non c’è proprio nulla: ascoltando senza timore e in autenticità le nostre fatiche, si scopre che in ogni crisi c’è un passo in avanti da compiere, e una possibilità di svelarsi a sé stessi che non può che generare vita.

Non è sempre facile per me accogliere l’evoluzione della mia storia personale e della mia scelta, soprattutto vivendo da solo in un contesto fortemente popolare, spesso mi trovo di fronte a situazioni di fatica, di sofferenza che inevitabilmente mi toccano, del resto sia il mio lavoro che il quotidiano non mi permettono assolutamente di camminare con gli occhi completamente chiusi; certo possiamo ovunque e in ogni momento farci scivolare tutto addosso, chiudere la porta della nostra coscienza e con motivazioni anche serie e incontestabili, evitare che il nostro spazio personale risenta della storia e delle situazioni degli altri. Credo che questo sia possibile e anche lecito, ma si tratta più che altro di una questione di scelta personale, e ogni scelta ben consapevole porta con sé mille sfumature di ricchezza e di fatica. Io ho scelto di essere presente nei contesti quotidiani più popolari e di povertà, perché la storia delle donne e degli uomini con cui condivido tempo, spazio e quotidiano mi interessa, l’appartenenza a questa umanità e la condivisione di vita trova il suo significato più profondo nella reciprocità, scoperta come elemento fondante del mio essere creatura ed essenzialmente creatura sociale. Probabilmente nelle ultime settimane ho fatto risuonare in me tante “parole”, tanti “atteggiamenti”, tante “storie” appartenenti ad altri, ed esse non hanno fatto altro che  diventare specchio delle mie parole, dei mie atteggiamenti e della mia storia. Divenendo specchio gli uni degli altri, diventiamo  anche “possibilità e provocazione”, gli uni per gli altri. Spesso sono le persone con cui entriamo in relazione a mettere in luce parti nascoste di noi, protette per paure che noi stessi per primi ne prendiamo atto. Scopro nel mio caso specifico, un elemento in più che fa da cassa di risonanza: non dover far nulla in questo contesto. Il “fare” o l’attivismo spesso piò diventare il modo migliore e nobile per nascondere le insicurezze, e come scrive Manicardi,  “la relazione con l’altro, così come la comunicazione, è un rischio. L’altro mi mette in crisi, in discussione, la tentazione costante è di fuggire questo rischio con l’attivismo”. Anche se ho scelto la vita di Nazareth che mi pone nel cuore del quotidiano in silenzio e come presenza discreta, la nostalgia del fare ed essere riconosciuto per il saper fare, è sempre presente e viva.

Non si tratta di rinunciare alla responsabilità di operare per il cambiamento, al contrario più sono presente qui, più mi accorgo di quanto sarebbe importante agire per far emergere risorse e possibilità di cambiamento, e in questa direzione mi sto muovendo, sento di volermi compromettere, ma ciò che scopro come questione di fondo e di senso, è il motivo per cui ci si mette in azione: per sé, per gli altri o insieme agli altri?. Per me questa sera le domande restano aperte, e non ho nessuna intenzione di chiuderle, così come resta forte la provocazione del mio oggi: restare da solo qui o sperare in una vita comune per potare avanti altre possibilità?. C’è ad ogni modo una piccola certezza: il valore del silenzio; questo passaggio, questo tempo di crisi trova nel silenzio la sua stanza nuziale, il luogo fisico al riparo dalle  parole inutili, il tempo impercettibile dove avviene la fecondazione di un nuovo passaggio, di una nuova decisione , di un nuovo abbandono.



giovedì 2 gennaio 2014

Spazi di fraternità

Costruire relazioni nuove, appartenenze fondate sulla responsabilità reciproca e sul senso di comunità, questa la sfida che ancora oggi il Vangelo ci propone, lasciando a noi la creatività nel ricercare nuove modalità l'attuazione del messaggio del Regno. Si tratta della sfida di "abitare i luoghi" del vivere sociale, le periferie, come anche i contesti del lavoro, del tempo libero, ma anche delle nostre comunità ecclesiali o altre forme aggregative tanto in crisi oggi.
Con Massimiliano Colombi cercheremo di riflettere su come affrontare questa sfida e riflettere su una dimensione della spiritualità di nazareth così importante come il vivere la quotidianità e la scelta delle periferie.
Spazi di Fraternità è uno spazio appunto d'incontro e di condivisione per dar senso e sapore a quelle che sono le nostre scelte.
Per informazioni potete contattarmi all'indirizzo e-mail amedeo.angelozzi@tiscali.it