venerdì 24 dicembre 2021

Tracce di Dio


Sono uscito velocemente dall’aula, convinto che  l’unica cosa da fare  in quel momento era creare un contatto e stabilire un minimo di relazione con un ragazzo che mi era stato descritto come il più difficile; lui trascorre il tempo fuori dall’aula ad attendere che le ore scorrano velocemente,  a contare i minuti e i secondi che lo distanziano dal suono di una campanella meccanica che gracchia la fine di un tempo insopportabile, stridula e fastidiosa come tutto quello che subisci e non puoi modificare, amara e ingannevole come la liberazione che ti annuncia, ma è un doppio messaggio, come quello di tanti adulti: vai, sei libero, ma domani ti attendo e con lo stesso suono ti rimetto nel sistema. Quando la mia corsa ha raggiunto la meta, cioè trovarmi di fronte a lui, lo sguardo evitato dell’altro mi ha posto un freno, un limite, una frontiera netta, disarmante, perché su quella linea ben marcata dove l’altro delinea “tu là, io qua”, tutta la mia onnipotenza e sicurezza si è sgretolata,  sbriciolata: mentre pensavo e immaginavo di essere la risorsa viva e fresca, in realtà la freddezza dello sguardo e l’accesso negato, mi comunicava senza troppi fronzoli, che potevo essere inaffidabile come tutti gli altri, non avevo diritto a nessun privilegio, non ero né atteso, né invitato a fare qualcosa che probabilmente nutriva me, sfruttando quasi sicuramente l’esistenza dell’altro.

Quando ci si avvicina alla vita di qualcuno, si è sempre come uno strappo, una ferita, a volte si è come un graffio improvviso, anche quando arriviamo con la leggerezza e il caldo di una carezza, anche questo è un gesto intrusivo, che cambia il fluire del sentire, pensare e immaginare la realtà. 


Eppure aprirei ancora velocemente la porta dell’aula come quella mattina, appoggerei i passi su un ritmo deciso, lascerei cadere una ad una le “parole giuste” come se fossero zavorra inutile e lascerei libera la voce ironica che da dentro mi ricorda che farò qualcosa di miracoloso: un buco nell’acqua. Arriverei di nuovo fino in fondo al corridoio e questa volta attenderei.

Ho cercato me stesso nel gesto di incontrare l’altro, ho voluto riconfermare le mie capacità nell’agire a favore dell’altro, ho desiderato non disperdere il patrimonio di esperienze che tenacemente ho custodito per farlo fluire nelle mani di chi avevo davanti,  eppure?

Quel ragazzo mi ha detto che tutto questo non basta per umanizzarmi.

Ci vuole il vuoto delle parole sospese, perché fanno spazio a quelle inespresse dell’altro; ci vogliono il rischio e la paura della fragilità per poter stare nel terreno abitato degli altri, senza esserne invasori; occorre saper decifrare la potenzialità dell’impotenza, che ti lascia a mani basse e permette al vissuto fragile e faticoso di chi sta di fronte a te, di spogliarti, disarmarti e impoverirti e in questo sentire che si genera vita; occorre saper far sintesi di quanto scoperto, accolto e interiorizzato nel tempo per sussurrare all’orecchio di chi incontri, che si è mistero reciprocamente sempre.


Non conosco le parole di questo ragazzo, non ho avuto pieno accesso al suo sentire, né al suo pensiero, siamo stati dei perfetti intrusi, abbiamo sconfinato nel mistero dell’altro quanto basta e non di più, non mi è dato di vedere cosa lascerà in lui questo incontro e gli altri che abbiamo avuto, so cosa ha lasciato in me: tracce di Dio.

Buona festa dell’Incarnazione, quando Dio decise di rischiare nel cuore dell’umano





martedì 30 novembre 2021

Libero a sua insaputa.

 


Una sera qualsiasi, nel profondo deserto algerino. Nulla di speciale, le ore scorrevano senza far rumore, né lasciavano segni particolari, nemmeno il trambusto di chi prepotentemente e con inganno, entrava nella “fraternità fortino” che si era costruito, turbò il quotidiano di quel minuscolo e sconfinato angolo di deserto.

La narrazione di quel che è successo quella sera del 1 dicembre 1916 a Tamanrasset in Algeria, vuole a tutti i costi provare a dare senso ad una fine che in realtà è passata pressoché inosservata, fagocitata  da ben altre turbolenze che quella popolazione stava vivendo;  uno straniero che muore dopo il tentativo di rapina, che vuoi che importi, anche se quello straniero voleva a tutti i costi essere considerato come fratello, stranezze da occidentali.

Audace, caparbio, mai sottomesso alle regole, capace di grande vivacità intellettuale, senza misura nel vivere l’amicizia, attratto dalle sfide e dalle continue novità, abile nel muoversi tra le convenzioni culturali del proprio tempo e allo stesso momento, efficace e libero nel romperle, per andare dove indicava la curiosità e la sfida. Credo che Charles de Foucauld sia stato anche questo e lo è stato fino all’ultimo secondo della sua esistenza, è stato capace di essere dentro le sue contraddizioni con lo spirito di chi spinge la curiosità sempre oltre, tanto da rendere mai banale ogni sua scelta. Ha cercato la piccolezza, perchè affascinato da Gesù di Nazareth, ma la passione con cui ha vissuto, non è stata affatto piccola. Ci vuole audacia per entrare in profondità nella propria esistenza, ci vuole coraggio e profonda libertà per non cedere alla banalità del “già dato” e gettare il proprio sé oltre lo scontato. Occorre essere anche un po’ spregiudicati e folli, per saper lasciare ciò che nella vita ormai ha perso di senso e con decisione gettarlo via, perché si fa spazio al nuovo; ci vuole un’apertura di animo, di spirito e d’intelligenza per lasciarsi stravolgere da un incontro, per farsi cambiare dal volto dell’altro. Anche questo è stato Charles de Foucauld.


E’ andato nel deserto per generare relazioni.

Si è avventurato nel profondo della solitudine per costruire fraternità.

Si è riconosciuto e radicato nell’essere discepolo del Vangelo ed ha abitato con delicatezza e profondo rispetto la fede di altri.

Si è nutrito delle categorie culturali del suo secolo ma non ne è rimasto imbrigliato.

Charles de Foucauld per me è un uomo libero a sua insaputa; ha vissuto, ha vissuto molto, non ha avuto mezze misure in nulla, né negli slanci, né nelle sue contraddizioni e incongruenze; non era piegato in se stesso, ma era rivolto verso l’umano.


Non ha costruito per sé  un nido sicuro, un progetto stabile, una strada dritta, una regola perfetta, al contrario: ha coltivato l’incertezza per essere flessibile e capace di frequentare ogni “domanda”, da vero e profondo monaco quale aveva scelto di essere; giorno dopo giorno si è preoccupato di demolire pezzo pezzo la propria rigidità, la propria indifferenza, la propria pigrizia, la propria autosufficienza, per non perdere nulla dell’abbraccio ricevuto da Dio e quindi per essere come Lui completamente abbordabile dalle donne e dagli uomini che tenacemente incontrava. Lui profondo calcolatore e organizzatore, esploratore ben attrezzato e astuto, abile e preparato, ha scelto di vivere la vertigine dell’abbandono totale, della fiducia senza misura e del rischio dell’intimità con Dio e con gli uomini.

Fratel Charles è stato sicuramente un uomo oltre il suo tempo, anzi fuori tempo, come ogni vita inconsapevolmente e involontariamente profetica, non ci indica nessun modello, non definisce nessuna conquista,  ci grida con la sua vita che ne vale la pena appassionarsi al Vangelo e a quell’uomo di Nazareth.



sabato 3 aprile 2021

Domani all'alba ci metteremo a correre

 


Fermarsi e sedersi” è la scelta rivoluzionaria di questo tempo. “Guardare” mettendo in discussione ciò che si guarda. “Lasciarsi guardare” anche quando questo ci frantuma e disperde. Fare alleanza tra “non sapere” e “ accogliere l’inaspettato”.

C’è un particolare nella narrazione dei Vangeli al momento della sepoltura che mi hanno fatto compagnia in questi giorni, sono pochissime parole, una pennellata veloce, quasi un passaggio che rischia di non essere colto. Una nota di colore? Un tratto poetico? O semplicemente l’essenziale da cogliere per scardinare e rileggere l’esperienza?

C’era là Maria di Magdala e l’altra Maria, sedute di fronte al sepolcro” Mt 27, 61.

Le donne che avevano accompagnato Gesù dalla Galilea, contemplarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù  Lc 23, 55.

Quest’anno vorrei restare dentro a questo particolare, inosservato e di passaggio narrativo, come un angolo nascosto, poco visibile alla massa , ma riservato e conosciuto a chi desidera uno spazio di intimità scomoda. Vorrei avere il coraggio in questo tempo così particolare e che scardina, di non farmi prendere dalla frenesia del fare  e della fuga in avanti, ma mollare tutto e sedermi. Mettermi in ascolto con gli occhi, lasciando che le paure abbiano spazio, le domande voce, l’incertezza e il non comprendere potessero essere accolte come possibilità e non sempre classificate come confusione.

In quell’angolo riservato di osservazione, solo chi si lascia sconvolgere e non fugge, può restare e attendere il dinamismo di Dio, solo lo sguardo “contemplativo” ancorato alla realtà più scomoda, ci permette di entrare e stare lì dove la vita sembra completamente perdere di senso. Non si tratta di cercare certezze assolute, ma di saper vivere dentro l’incerto che evolve e genera vita, dentro un fluire della vita che non possiamo pretendere di comprendere fino in fondo, e che ciò che abbiamo visto, compreso  e cercato, ha spesso la libertà di meravigliarci e indicarci un altrove inaspettato.


A quelle donne vorrei chiedere come hanno avuto il coraggio di fermarsi e non fuggire, come hanno saputo abitare il dolore, lo sconcerto, la sconfitta e il crollo di un sogno, la delusione e la disillusione. Mi piacerebbe raggiungerle in quell’angolo protetto e strategico che si sono ricavate, al riparo dalla folla e dalla massa per proteggere la loro individualità e libertà. Raccontare loro che quel Gesù ha un po’ destabilizzato anche me, mi ha coinvolto e entusiasmato molte volte, mi ha fatto assaporare la passione per l’umano e consegnato un incontro con l’Assoluto, che potevo un po’ sintetizzare con il suono di Padre, ma mi ha anche lasciato perplesso,  l’ho sentito illusione, errore, distante ed inesistente.  Eppure  oggi non posso fare a meno di raggiunge quelle donne  e stare con loro di fronte al luogo dove l’hanno chiuso, perché ad essere sincero con me stesso, la Sua voce, la Sua parola, il Suo essere presente, mi abita inspiegabilmente, concretamente.

Ecco perché sono qui, perché prendo del coraggio da queste donne, la cui identità è chiara, sappiamo i loro nomi, e la loro tenacia è frutto di una relazione e di un saper abitare la vita in tutte le sue sfumature.


Sto un po’ con loro, anche se leggo nei loro occhi il dolore di vedere concretamente che il loro sogno è chiuso nel sepolcro. Aspettiamo, perché abbiamo sperimentato che Dio ci prenderà per mano e ci condurrà nell’inaspettato, l’ha fatto altre volte lo farà ancora.

Ora siamo rintanati, ma chissà, domani all’alba ci metteremo a correre.




venerdì 19 febbraio 2021

Lo scomodo mattutino

 


Ore 5:00 del mattino, un suono di sveglia accuratamente scelto perché sia una carezza leggera e non un urlo improvviso, mi invita a mettermi in piedi, senza la fretta di chi deve rincorrere l’impossibile, ma con il gusto di chi, gettando lo sguardo fuori la finestra, cerca di scorgere l’arrivo dell’inatteso e dell’imprevedibile. Disturbo la quiete del buio spezzando la sua monotonia e la sua staticità, con una piccola luce, circoscritta e decisa nella sua determinazione, che illumina uno spazio ristretto del mio tavolo, la sua decisione contrasta con la pesantezza del buio, entrambi si stuzzicano e si provocano, si parlano e si accolgono, lo stesso gioco che avviene tra la pigra abitudine di adattarsi e la passione dirompente di un desiderio e di un sogno che chiede alleanza, perché anche un desiderio da solo sa di non avere energia sufficiente per camminare e andare lontano. Poi si attiva lentamente un piccolo rituale, quasi sempre lo stesso, una sorta di liturgia che fa spazio a ciò che deve avvenire: un piccolo quaderno di appunti, alcuni libri, e soprattutto il Libro: la Parola.  So che nel silenzio più assoluto, la Parola spezza l’attesa, scomoda il già stabilito, si mette a braccetto con il desiderio di gustare il senso di questo esistere;  sveglia e stuzzica la domanda, ti provoca e poi ti aspetta altrove, in quell’altrove che la luce del giorno, che man mano cresce, ti invita ad incrociarlo nello srotolarsi del nuovo quotidiano.


La tradizione monastica questa liturgia da sempre la chiama: lectio divina, un ascolto che si fa carezza, un dialogo che si imbastisce di domande, una relazione, che nutrita della freschezza del mattino, si fa presto di nuovo silenzio e intimità profonda, da non confondere con intimismo. Si il primo gesto che apre il mio risveglio è il dialogo, l’attesa dell’Amico, come amava dire Arturo Paoli. Se per un certo aspetto la lectio è nutrimento profondo e intenso, alla stessa maniera e con la stessa intensità, è provocazione e invito a decentrarsi, a farsi ospite nell’ospitare. E’ una prima colazione ipercalorica per certi versi, una sana alimentazione lontana dall’ingozzamento, è scegliere ciò che rende umani: la relazione, perché l’ascolto della Parola è relazione. Mi meraviglia come questa frequentazione mattutina lentamente, toglie, pota, semplifica, scomoda, mette in luce resistenze e vecchi schemi, spesso è un sorriso ironico e una presa in giro benevola come un invito all’auto-ironia, ma è alla stessa maniera, abbraccio e spinta decisa ad osare, apre questioni, smonta strutture mentali e soprattutto è un invito deciso a fare scelte, ad assumersi la propria responsabilità in questo tempo e in questo vivere comune. La luce del giorno si è fatta più decisa, il sole spennella il palazzo di fronte al mio di arancio e con la stessa decisione anche la Parola mi regala una pennellata di colore decisa, che pone la sua forza in una domanda: ora guarda il tuo di-fronte. Mai e poi mai l’incontro con l’Amico è uno sterile intimismo, mai un nido caldo e protetto, la sua delicatezza è tutta in quella mano che ti sfiora, ti raggiunge e ti mette in cammino verso gli altri e con gli altri, con l’invito chiaro a generare vita e riconsegnare ad ognuno la dignità, il rispetto e la giustizia a partire da chi fa più fatica, da chi è stato impoverito dall’egoismo di altri.


La mia casa al mattino così presto è veramente un eremo, il silenzio e la solitudine sono in abbondanza, ma dopo l’ascolto della Parola di colpo tutto il dato di realtà irrompe e sai, vedi e senti che 36 metri quadrati sono nel cuore di un quartiere, di un umanità; qui stai, qui abiti, qui sei ospite ed ospiti, qui le donne e gli uomini che lentamente ho imparato a conoscere, sono la possibilità per dire e costruire insieme chi siamo e per costruire altro, in questo tempo di parole ostili, di banalità urlate come saggezza e di nichilismo spacciato per libertà.

Domani mattina mi alzerò ancora presto…e appena ti sentirò presente Signore ti dirò: grazie perché anche oggi sei venuto a scomodarmi.