Sono diverse settimane che mi serpeggia dentro uno strano
senso di solitudine, quella dal sapore amaro, dalla sensazione di mancanza, dal
colere un po’ grigiastro, non mi è mai successo di sentirla così viva e di
percepirla appartenente al mio quotidiano. Da quando ho scoperto e scelto la
vita di Nazareth non ho mai smesso di cercare e ritagliare per me momenti di
deserto, di solitudine, salvaguardando il più possibile quell’ascolto interiore
che mi ha permesso di andare fino in fondo nella mia vita, di cogliere le
sfumature delle scelte che di volta in volta desideravo assumere; addentrarsi
nel deserto interiore non è mai troppo facile, soprattutto quando si ha poca
consapevolezza di sé, e quando ci si è ritagliati addosso un immagine tutto
sommato accettabile, anche se non pienamente aderente alla propria realtà,
mettersi in cammino in questo deserto può sembrare un atto di coraggio, un
avventura pericolosa, una sfida alla propria vulnerabilità, sicuramente è tutto
questo, ma per me principalmente è sempre stata la scelta di “non barare con me
stesso”, a volte e in certi passaggi della mia vita il prezzo è stato molto
alto, ma ne è valsa la pena, sempre.
Camminare sulla sabbia rende il passo appesantito, avanzare
richiede il doppio della forza per contrastare quello sprofondare continuo, man
mano che si avanza il corpo si getta sempre più in avanti, quasi che gettando
il proprio peso più in là i passi si liberano meglio dall’invischiamento dei
granelli; l’esperienza del procedere sulla sabbia credo che descriva bene l’esperienza
stessa del deserto interiore. Sarà anche una fatica immane, un procedere con un
dispendio di energia eccessiva, potrebbe anche rallentare la conquista della
meta, non importa, camminare nel proprio deserto interiore ti porta al cuore
delle tue melodie intime, stonate o armoniche che siano e questo, è l’ascolto
che ripaga ogni fatica.
Questi ritagli di solitudine sono stati sempre più centrali
nel mio cammino, essenziali in quanto esperienza di intimità profonda, sempre possibile,
come sempre possibile è stata la certezza di cogliere la mia solitudine abitata
da tempo e con estrema delicatezza e forza, da Lui.
Non pretendere, ma
accogliere; non forzare, ma lasciar fluire; non condizionare, ma fidarsi; non
manipolare, ma abbandonarsi: un continuo cambio di prospettiva, questo ha generato
il Suo abitarmi.
Perdendo di vista questo modo di abitare la storia umana ho trovato le tinte scure della solitudine disabitata…il mio io ha tolto il posto ad un Tu.