martedì 24 giugno 2014

Lo spavento che ci fa incontrare

La mia vicina di casa credo che al termine dell’estate soffrirà di ipertensione, ogni volta che si affaccia al balcone e si accorge che anch’io sono placidamente appoggiato alla ringhiera, si spaventa, accenna ad un sorriso, prova a formulare qualche improbabile saluto poi indietreggia, ma inevitabilmente ogni volta fa un salto di spavento. Sono stati inutili i tentativi di mediazione e spiegazione con il marito che fortunatamente parla in Italiano, lei è molto timida e ha le sue tradizioni e poi trovarsi difronte ad un uomo che le parla in un'altra lingua, inevitabilmente è fonte di ansia, credo comunque che altrettanto goffa è ogni mia reazione e maldestro tentativo di rassicurarla, attraverso un linguaggio decisamente maccheronico e coniugato all’infinito, come ogni italiano che si rispetti utilizza automaticamente di fronte ad uno straniero, nonostante tutto, ci sono dei meccanismi automatici e culturalmente determinati che si attivano senza volerlo. Ma al di là di questi episodi resta il fatto che il quotidiano cambia automaticamente per me ogni volta che cambiano i vicini di casa, e restando fermo nei miei 26 metri quadrati di appartamento, posso comunque viaggiare in mondi e realtà lontane migliaia di chilometri. Noi tutti siamo provocazione gli uni per gli altri, il nostro spostarci crea inevitabilmente una sorta di “ristrutturazione” nel quotidiano di altri, del loro modo di concepire la realtà, del valore e delle regole dello stare insieme. La reazione a questo, o meglio le resistenze che spesso emergono attraverso le rigidità delle appartenenze, o le sottolineature delle differenze, non fanno altro che confermare che in fondo “l’altro ci interroga, ci scomoda”.  Questo per me è il Nazareth oggi, quel luogo dove è necessario che si coniughi e si sperimenti una nuova grammatica delle relazioni, dello stare insieme, del condividere nuove regole e stili culturali della convivenza; certo quello anche qui noto maggiormente è la separazione tra le appartenenze, non manca certamente la conoscenza reciproca, il chiamarsi per nome, soprattutto tra quelli che sono qui da più anni, ma resiste allo stesso tempo la separazione, il non volersi mescolare per paura di trovarsi in situazioni pericolose, e poi in fin dei conti quando si resta tra “uguali”, si fa presto a comprendersi, a sentirsi meno nostalgici del paese d’origine, credo in modo particolare per le donne.

Occorre affinare lo sguardo, occorre frequentare il silenzio che non è mai assenza di parole, ma lo spazio riservato alle “parole degli altri”, perché spesso il non detto utilizza altri linguaggi per esprimersi, la sofferenza preferisce ritagliarsi degli spazi nascosti e lontani dagli sguardi indiscreti, per non sentire ancora più dolore; allora occorre il tempo e la pazienza di chi non ha intenzioni di stravolgere il mondo, ma ha solo il desiderio e la passione di abitarlo, per poter affiancare discretamente e rispettosamente queste realtà, e la vicinanza, la presenza, lo sguardo libero e attento, genera legami e cambiamento, ma tutto questo non fa rumore, anzi non deve farlo.
Oggi parliamo spesso di periferie, di andare verso le periferie, ma quello che mi auguro è che non si vada con lo spirito della conquista, con la pretesa di portare benessere e novità, dello stravolgere senza aver chiesto “permesso”; io credo e lo sento sempre più forte e in maniera radicale, che il passo da fare è quello di andare ad abitare nelle periferie per lasciarsi scomodare, andare sopratutto in silenzio, accogliendo davanti a sé un lungo tempo anche di “inattività”, perché sia la realtà umana e sociale stessa a provocarci o suscitarci “l’azione”, che non sarà mai solitaria ed eroica, ma comunitaria. Questo per me è lo spirito di Nazareth, la strada incompiuta iniziata da Charles de Foucauld e consegnata nelle nostre mani, sperimentata e suggerita anche dalle piccole relazioni quotidiane con i miei vicini.

 “Sono contento che ci sei tu qui”_ mi ha detto il vicino di casa dopo che ci siamo fermati più volte a parlare sul balcone, è una fiducia che nasce lentamente, fatta di piccoli passi e qualche domanda non troppo indiscreta, così lentamente anche se la moglie continua ad impaurirsi ogni volta che mi vede, gli ho potuto far vedere come funziona la lavatrice, in quali orari è più conveniente accenderla, e che il figlio tredicenne più venire a casa ad imparare un po’ d’italiano; tutto questo non fa rumore, come il quotidiano banale e ripetitivo, ma a me sta aprendo lo sguardo, il cuore e modellando giorno dopo giorno il mio progetto di vita. 


lunedì 23 giugno 2014

3 giorni a Narareth

Per il fine settimana che va dal 4 al 6 luglio, proponiamo una tre gironi di Nazareth per vivere insieme un tempo più lungo di condivisione e confronto. Saranno i piccoli fratelli di Spello a metterci a disposizione uno dei loro eremi, spazi semplici e in autogestione. Avremo la possibilità ancora una volta di confrontarci sulla spiritualità di Nazareth attraverso momenti di condivisione, di silenzio, di gestione del quotidiano e momenti anche di riposo.
I posti sono decisamente pochi pertanto è necessario contattarmi subito anche per meglio organizzare le giornate, fatelo attraverso l'email amedeo.angelozzi@tiscali.it oppure 339/5697137


lunedì 9 giugno 2014

Sulla porta di casa

Rientrare a casa dopo una lunga giornata passata fuori e trovare la curiosità dei nuovi vicini ad attenderti sull’uscio di casa…non ha prezzo. Da due giorni il mini appartamento accanto al mio, non diversamente mini, ha visto l’arrivo di una famiglia pachistana; è interessante vedere come nel giro di pochissime ore tutto si anima e un alloggio vuoto, di colpo diventa dimora e spazio vitale per la quotidianità di un gruppo famigliare; poche cose, qualche bagaglio per gli indumenti, trasportati in pochissimi viaggi con l’auto di un amico che non disdegna un favore così naturale, come quello del trasloco. Nel giro di tre ore eccomi di nuovo in compagnia, direi anche in “coabitazione” con un'altra cultura, un'altra lingua, una famiglia; siamo talmente vicini che in alcuni momenti sembra che sono in casa da me, del resto il “mini” balcone, in perfetta proporzione con tutto l’alloggio, è diviso semplicemente da un pannello che delimita simbolicamente un confine, ma non contempla altre funzioni come l’isolamento acustico o la delimitazione del campo visivo. Tutto questo non mi disturba, sapevo benissimo che queste sarebbero state le condizioni di vita, è chiaro che occorre un forte adattamento e una flessibilità non indifferente per saper vivere in certi contesti. Lo spazio determina anche le relazioni e viceversa, lo stile relazionale, la modalità con cui si abitano gli spazi di vita quotidiana, hanno un’ influenza sulla gestione e la forma degli spazi. In questo contesto inoltre le differenti modalità di vita, determinate dalle molteplici appartenenze culturali, segnano a volte una netta distinzione tra le abitudini, rendendo molto visibile le differenze, e contemporaneamente si è spinti dal quotidiano e dalle contingenze che esso propone, a saper interagire con chiunque.

Questa nuova famiglia di vicini, mi aveva già incrociato precedentemente e avevo tentato un minimo di comunicazione, vista la difficoltà e l’ostacolo della lingua, ora ci siamo trovati gli uni affianco all’altro: la loro curiosità è palese e manifestata esplicitamente attraverso gli sguardi, i sorrisi e come ieri sera, anche attraverso l’uscire dal loro appartamento per guardarmi rientrare in casa. Chissà cosa penseranno, quale idea si saranno fatti di me, del mio vivere solo, del mio andirivieni ogni volta con libri, zaino, valigie; apparteniamo a mondi diametralmente diversi e al momento abbiamo semplicemente il sorriso e qualche parola in italiano, per veicolare la buona educazione.  

Per queste persone come per altri, questo è un “luogo significativo”, nel senso che al momento, è l’unico luogo che hanno per portare avanti il loro progetto di vita, di famiglia, non è il massimo vivere in uno spazio ristretto in quattro, come del resto mi raccontavano alcune mamme indiane e pachistane sempre del quartiere, ma è ciò che possono ottenere in questa esperienza d’ emigrazione; per loro ha un senso, un valore a volte non scelto, imposto dalle contingenze della vita e dalle scarse risorse, altre volte rappresentano la piccola conquista di un progetto migratorio. E’ in questo luogo significativo per loro, che ho scelto di vivere, e vivere alla pari, facendomi vicino di casa, con una presenza discreta e attenta. Si tratta prima di tutto di “essere presenti” e non farsi  mai travolgere dall’attivismo,  lasciandosi contaminare dagli altri e con gli altri mettersi in cammino. Spesso noto che non è semplice comprendere questo tratto della spiritualità di Nazareth, che a prima vista sembra inutile e inefficace, per certi aspetti anche disimpegnata, ma in realtà quello che si vuol mettere in discussione è “l’attivismo”, che a mio avviso ha la stessa radice del “disimpegno” e dell’individualismo: ossia il protagonismo assoluto di un “io”, che diventa l’idolo da soddisfare con ogni mezzo e scelta. In questa esperienza mi accorgo giorno dopo giorno, come lo stare semplicemente in mezzo a questa realtà mi provoca continuamente, non mi mette il “cuore in pace”, mi suscita domande, mi mette in crisi, mi trasforma lo sguardo e la prospettiva di vita, stravolge la mia fede e quindi il mio relazionarmi con Lui, rende la mia preghiera corposa e con i piedi per terra…e tutto questo è occasione di crescita e di vita di cui oggi non posso fare a meno. Se lo stare con gli altri chiede alla mia quotidianità continui cambiamenti e aggiustamenti, la stessa cosa vale per le altre persone, vicini inclusi, è nella natura del nostro essere uomini e donne in relazione, e in questa dimensione faccio esperienza di Dio. Consapevolizzo sempre di più che la mia scelta si caratterizza come “monaco di città”, come ricerca della propria unità interiore attraverso la piena immersione nel quotidiano della gente, nelle periferie; andare in queste periferie non per portare, non per conquistare, ma per abitare, è sicuramente un viaggio verso la propria “periferia”.