lunedì 9 giugno 2014

Sulla porta di casa

Rientrare a casa dopo una lunga giornata passata fuori e trovare la curiosità dei nuovi vicini ad attenderti sull’uscio di casa…non ha prezzo. Da due giorni il mini appartamento accanto al mio, non diversamente mini, ha visto l’arrivo di una famiglia pachistana; è interessante vedere come nel giro di pochissime ore tutto si anima e un alloggio vuoto, di colpo diventa dimora e spazio vitale per la quotidianità di un gruppo famigliare; poche cose, qualche bagaglio per gli indumenti, trasportati in pochissimi viaggi con l’auto di un amico che non disdegna un favore così naturale, come quello del trasloco. Nel giro di tre ore eccomi di nuovo in compagnia, direi anche in “coabitazione” con un'altra cultura, un'altra lingua, una famiglia; siamo talmente vicini che in alcuni momenti sembra che sono in casa da me, del resto il “mini” balcone, in perfetta proporzione con tutto l’alloggio, è diviso semplicemente da un pannello che delimita simbolicamente un confine, ma non contempla altre funzioni come l’isolamento acustico o la delimitazione del campo visivo. Tutto questo non mi disturba, sapevo benissimo che queste sarebbero state le condizioni di vita, è chiaro che occorre un forte adattamento e una flessibilità non indifferente per saper vivere in certi contesti. Lo spazio determina anche le relazioni e viceversa, lo stile relazionale, la modalità con cui si abitano gli spazi di vita quotidiana, hanno un’ influenza sulla gestione e la forma degli spazi. In questo contesto inoltre le differenti modalità di vita, determinate dalle molteplici appartenenze culturali, segnano a volte una netta distinzione tra le abitudini, rendendo molto visibile le differenze, e contemporaneamente si è spinti dal quotidiano e dalle contingenze che esso propone, a saper interagire con chiunque.

Questa nuova famiglia di vicini, mi aveva già incrociato precedentemente e avevo tentato un minimo di comunicazione, vista la difficoltà e l’ostacolo della lingua, ora ci siamo trovati gli uni affianco all’altro: la loro curiosità è palese e manifestata esplicitamente attraverso gli sguardi, i sorrisi e come ieri sera, anche attraverso l’uscire dal loro appartamento per guardarmi rientrare in casa. Chissà cosa penseranno, quale idea si saranno fatti di me, del mio vivere solo, del mio andirivieni ogni volta con libri, zaino, valigie; apparteniamo a mondi diametralmente diversi e al momento abbiamo semplicemente il sorriso e qualche parola in italiano, per veicolare la buona educazione.  

Per queste persone come per altri, questo è un “luogo significativo”, nel senso che al momento, è l’unico luogo che hanno per portare avanti il loro progetto di vita, di famiglia, non è il massimo vivere in uno spazio ristretto in quattro, come del resto mi raccontavano alcune mamme indiane e pachistane sempre del quartiere, ma è ciò che possono ottenere in questa esperienza d’ emigrazione; per loro ha un senso, un valore a volte non scelto, imposto dalle contingenze della vita e dalle scarse risorse, altre volte rappresentano la piccola conquista di un progetto migratorio. E’ in questo luogo significativo per loro, che ho scelto di vivere, e vivere alla pari, facendomi vicino di casa, con una presenza discreta e attenta. Si tratta prima di tutto di “essere presenti” e non farsi  mai travolgere dall’attivismo,  lasciandosi contaminare dagli altri e con gli altri mettersi in cammino. Spesso noto che non è semplice comprendere questo tratto della spiritualità di Nazareth, che a prima vista sembra inutile e inefficace, per certi aspetti anche disimpegnata, ma in realtà quello che si vuol mettere in discussione è “l’attivismo”, che a mio avviso ha la stessa radice del “disimpegno” e dell’individualismo: ossia il protagonismo assoluto di un “io”, che diventa l’idolo da soddisfare con ogni mezzo e scelta. In questa esperienza mi accorgo giorno dopo giorno, come lo stare semplicemente in mezzo a questa realtà mi provoca continuamente, non mi mette il “cuore in pace”, mi suscita domande, mi mette in crisi, mi trasforma lo sguardo e la prospettiva di vita, stravolge la mia fede e quindi il mio relazionarmi con Lui, rende la mia preghiera corposa e con i piedi per terra…e tutto questo è occasione di crescita e di vita di cui oggi non posso fare a meno. Se lo stare con gli altri chiede alla mia quotidianità continui cambiamenti e aggiustamenti, la stessa cosa vale per le altre persone, vicini inclusi, è nella natura del nostro essere uomini e donne in relazione, e in questa dimensione faccio esperienza di Dio. Consapevolizzo sempre di più che la mia scelta si caratterizza come “monaco di città”, come ricerca della propria unità interiore attraverso la piena immersione nel quotidiano della gente, nelle periferie; andare in queste periferie non per portare, non per conquistare, ma per abitare, è sicuramente un viaggio verso la propria “periferia”. 


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