Rientrare a casa dopo una lunga giornata passata fuori e trovare
la curiosità dei nuovi vicini ad attenderti sull’uscio di casa…non ha prezzo.
Da due giorni il mini appartamento accanto al mio, non diversamente mini, ha
visto l’arrivo di una famiglia pachistana; è interessante vedere come nel giro
di pochissime ore tutto si anima e un alloggio vuoto, di colpo diventa dimora e
spazio vitale per la quotidianità di un gruppo famigliare; poche cose, qualche
bagaglio per gli indumenti, trasportati in pochissimi viaggi con l’auto di un
amico che non disdegna un favore così naturale, come quello del trasloco. Nel
giro di tre ore eccomi di nuovo in compagnia, direi anche in “coabitazione” con
un'altra cultura, un'altra lingua, una famiglia; siamo talmente vicini che in
alcuni momenti sembra che sono in casa da me, del resto il “mini” balcone, in
perfetta proporzione con tutto l’alloggio, è diviso semplicemente da un
pannello che delimita simbolicamente un confine, ma non contempla altre
funzioni come l’isolamento acustico o la delimitazione del campo visivo. Tutto
questo non mi disturba, sapevo benissimo che queste sarebbero state le
condizioni di vita, è chiaro che occorre un forte adattamento e una
flessibilità non indifferente per saper vivere in certi contesti. Lo spazio
determina anche le relazioni e viceversa, lo stile relazionale, la modalità con
cui si abitano gli spazi di vita quotidiana, hanno un’ influenza sulla gestione
e la forma degli spazi. In questo contesto inoltre le differenti modalità di
vita, determinate dalle molteplici appartenenze culturali, segnano a volte una
netta distinzione tra le abitudini, rendendo molto visibile le differenze, e
contemporaneamente si è spinti dal quotidiano e dalle contingenze che esso
propone, a saper interagire con chiunque.
Questa nuova famiglia di vicini, mi aveva già incrociato
precedentemente e avevo tentato un minimo di comunicazione, vista la difficoltà
e l’ostacolo della lingua, ora ci siamo trovati gli uni affianco all’altro: la
loro curiosità è palese e manifestata esplicitamente attraverso gli sguardi, i
sorrisi e come ieri sera, anche attraverso l’uscire dal loro appartamento per
guardarmi rientrare in casa. Chissà cosa penseranno, quale idea si saranno
fatti di me, del mio vivere solo, del mio andirivieni ogni volta con libri,
zaino, valigie; apparteniamo a mondi diametralmente diversi e al momento
abbiamo semplicemente il sorriso e qualche parola in italiano, per veicolare la
buona educazione.
Per queste persone
come per altri, questo è un “luogo significativo”, nel senso che al momento, è
l’unico luogo che hanno per portare avanti il loro progetto di vita, di
famiglia, non è il massimo vivere in uno spazio ristretto in quattro, come del
resto mi raccontavano alcune mamme indiane e pachistane sempre del quartiere,
ma è ciò che possono ottenere in questa esperienza d’ emigrazione; per loro ha
un senso, un valore a volte non scelto, imposto dalle contingenze della vita e
dalle scarse risorse, altre volte rappresentano la piccola conquista di un
progetto migratorio. E’ in questo luogo significativo per loro, che ho scelto
di vivere, e vivere alla pari, facendomi vicino di casa, con una presenza
discreta e attenta. Si tratta prima di tutto di “essere presenti” e non farsi mai travolgere dall’attivismo, lasciandosi contaminare dagli altri e con gli
altri mettersi in cammino. Spesso noto che non è semplice comprendere questo
tratto della spiritualità di Nazareth, che a prima vista sembra inutile e
inefficace, per certi aspetti anche disimpegnata, ma in realtà quello che si
vuol mettere in discussione è “l’attivismo”, che a mio avviso ha la stessa
radice del “disimpegno” e dell’individualismo: ossia il protagonismo assoluto
di un “io”, che diventa l’idolo da soddisfare con ogni mezzo e scelta. In
questa esperienza mi accorgo giorno dopo giorno, come lo stare semplicemente in
mezzo a questa realtà mi provoca continuamente, non mi mette il “cuore in pace”,
mi suscita domande, mi mette in crisi, mi trasforma lo sguardo e la prospettiva
di vita, stravolge la mia fede e quindi il mio relazionarmi con Lui, rende la
mia preghiera corposa e con i piedi per terra…e tutto questo è occasione di
crescita e di vita di cui oggi non posso fare a meno. Se lo stare con gli altri
chiede alla mia quotidianità continui cambiamenti e aggiustamenti, la stessa
cosa vale per le altre persone, vicini inclusi, è nella natura del nostro
essere uomini e donne in relazione, e in questa dimensione faccio esperienza di
Dio. Consapevolizzo sempre di più che la mia scelta si caratterizza come “monaco
di città”, come ricerca della propria unità interiore attraverso la piena
immersione nel quotidiano della gente, nelle periferie; andare in queste periferie
non per portare, non per conquistare, ma per abitare, è sicuramente un viaggio
verso la propria “periferia”.
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