“Disperdersi”: non è poi così pericoloso vivere questa dimensione nella propria vita, e non è nemmeno così negativa come parola, può spaventare certo, ma stuzzica e richiama il coraggio dell’abbandono, non c’è dubbio. Il mio compagno di viaggio, silenzioso e discreto, è in questi ultimi 25 anni Charles de Foucuald, che nonostante le sue strutture mentali di fondo, fatte di cultura francese, rigore militare, passione per la ricerca del nuovo e dell’inconosciuto, calcolatore e instancabile lavoratore nelle sue avventure, proprio lui ha fatto della sua vita un continuo “disperdersi”. Potrei dire che per questo, è molto attuale fratel Carlo, oggi infatti tutto sembra liquefatto, le relazioni, le scelte, gli impegni, anche l’assunzione di una responsabilità è relativa ed ha un'unica misura per la sua sopravvivenza: “fin quando mi va”.
Il disperdersi di Charles de Foucauld ha però tutt’altro
sapore e spessore, si nutre di ricerca, ascolto, appartenenza, passione e soprattutto
non è frutto di un capriccio personale
ma la conseguenza di un' intensa
relazione con Gesù; Charles de Foucuald attinge a piene mani nelle parole del Vangelo, lette e rilette, assaporate come frutti succosi di
vita presente e non come lettere arcaiche e impolverate o sbiadite dal tempo; lui
così lontano da ogni aspetto religioso, completamente digiuno da sermoni
petulanti e vincolanti, lui così razionale e concreto, si accorge della
presenza di un Dio, che non manifesta la sua onnipotenza, ma sceglie il rischio
di “disperdersi” nell’umano, raggiungendo l’ultimo posto, non per falsa
modestia, ma perché da quella posizione si coglie meglio l’essenziale della
vita degli uomini, la si può cogliere dal di dentro, non per sentito dire, ma
per averlo sentito in sé.
No, non è per me assolutamente naturale,
accogliere questa sfida, e non mi suona per nulla armonico o dolce raggiungere
l’ultimo posto, eppure se rileggo e soprattutto ascolto il desiderio che ancora
oggi mi abita con energia, mi accorgo che anche per me la dimensione del “disperdersi”
è la cifra essenziale, non tanto della mia storia personale, ma del mio
rapporto con Dio. Non mi percepisco e non mi sento assolutamente “solitario”
nella mia scelta di vita, e tutto quello che ho sperimentato e continuo a
sperimentare, ha senso solo se inserito in una relazione. Probabilmente è proprio
per questo motivo che disperdersi vuol dire entrare di più nella
dimensione umana, penetrare a fondo nelle situazioni, non restare indifferenti
alle storie e ai vissuti degli altri. Quando ci si lascia toccare dalla “vita”,
non in superficie, non per il bisogno di
sentirsi realizzati, non per riempire il vuoto della solitudine, allora va da se impegnarsi con gli altri, compromettersi, mettersi in cammino con un senso profondo di appartenenza
reciproca. E’ un po’ come nella
relazione d’amore: ci si lascia disperdere nell’altro per ritrovarsi coniugati
al plurale, e per evitare che sia un’invischiante simbiosi, abbiamo bisogno di
essere ben presenti a noi stessi.
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