lunedì 1 settembre 2014

Dove abiti in genere?

Ascoltare, ascoltare e lasciarsi penetrare in profondità dalle parole e dalla storia di qualcuno che non conoscevo assolutamente e che è lontano anche nel tempo, questo ho sperimentato in questi ultimi giorni trascorsi all’eremo di Montegiove accompagnato dal diario di Etty Hillesum, donna straordinaria e straordinariamente immersa nella sua storia e nella storia del suo tempo, morta ad Auschwitz nel 1942. Appena a casa mi sento subito accolto dalle lingue che si intrecciano e dai vicini che subito mi bussano: “ben tornato, tutto bene?” Ma fuori l’arabo della famiglia algerina si intreccia alla voce potente della nigeriana, che parla al telefono con livelli di decibel tali da sopperire la carenza di campo telefonico, sono certo che se il suo telefonino non avesse quelle indispensabili “tacche”, la sua voce comunque può arrivare nitida al suo interlocutore senza l’utilizzo della tecnologia; poi l’urdu, parlato dal balcone alla strada per dirsi come è andata la giornata, certamente non propizia per la vendita in spiaggia, visto l’improvviso acquazzone che ha lavato via l’ultima domenica di agosto. Ma anch’io scendo in strada ed è lì che mi sento chiamare da alcuni bambini, dal tono della voce e dall’atteggiamento, comprendo che devo fermarmi:  “ sai, non vengo più a scuola quest’anno, fra qualche giorno vado in Inghilterra con la mia famiglia”. Certo l’immediatezza della notizia e il sorriso del bambino sembrano sottolineare l’avventura di un cambiamento, accolto quasi come gioco, ma so che in genere non è così, i bambini tengono spesso per se ciò che non sanno decifrare come sentimento. “Tu come ti senti”- gli domando, posso permettermi questa irruzione, mi conosce da tempo, -“Ho paura, devo lasciare tutti e lì non conosco nessuno”. 

Non può scegliere, come sicuramente non possono scegliere i suoi genitori, che hanno preso questa decisione per rincorrere ancora un futuro migliore, che stenta beffardamente ad arrivare. "Sai già come si fa, puoi riuscire ancora”, l’unica cosa che sono riuscito a dire, del resto ha le sue risorse, perché dovrebbe perderle proprio ora, ma quel suo “ho paura”, mi risuona dentro in maniera autentica e forte, sento di doverlo custodire come qualcosa di molto prezioso e sottilmente doloroso. Non è il primo bambino costretto all’ennesimo sradicamento dal quartiere e forse non sarà l’ultimo, come lui tanti adulti, uomini, donne, vecchi, ormai sembra la costante di questa epoca: sradicati per violenza, per fame, per speranza, per guerre, nessuna di queste sono motivazioni che partono dal cuore, sono imposizioni. Loro, i bambini, non hanno possibilità né di fare capricci, né di decidere, e quando si oppongono portano motivazioni per nulla banali: “ a scuola vado bene ora, sono ben inserita, come posso farcela in un altro paese dove non conosco la lingua”, questo ha detto una ragazza alla propria madre, la quale mi diceva:   “ come possiamo partire ora?”. Rientro in casa, due minuti ed ecco il suono del campanello, l’indiano che abita nell’appartamento sopra al mio con un italiano stentato, mi chiede come deve fare per iscrivere i suoi figli a scuola, sono arrivati da qualche mese, ma non ha mai provveduto alla loro iscrizione, provo a fornire qualche informazione e indico l’indirizzo della direzione didattica, la sua faccia però è eloquente nel mostrare disorientamento, e mi dice:” allora, io esco dalla via, qui casa…”. Ok, risolviamo il problema, mercoledì prossimo andiamo insieme in direzione, guido io. Lo so sono banalità, sono punti di vista, sono quotidianità come molte altre, e ben venga che sia così, del resto le situazioni straordinarie sono rischiose, troppo lontane dal reale e spesso troppo roboanti per saper contenere la saggezza e la profondità di incontri immediati e semplici. Dio abita d’abitudine qui. Incomincio lentamente a sentirmi un “NOI” in questo luogo, a sentirmi del posto e non l’ultimo arrivato, ma da dove mi viene questa sensazione? Non so decifrarla, penso che dipenda da come lentamente, molto lentamente, le persone mi stanno prendendo per mano e mi stanno invitando, a modo loro, e forse anche inconsapevolmente, ad entrare in questo spazio umano. Vado in crisi, molto spesso perdo il buon umore, mi sento perso e disperso in questa mia scelta da costruire giorno dopo giorno, dove i riferimenti li devo segnare in autonomia, ben venga comunque questa precarietà, è un opportunità anche questa, ma quando sento la dimensione del “NOI”, c’è poco da dubitare: Dio abita d’abitudine nel NOI.


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