Ascoltare, ascoltare e lasciarsi penetrare in profondità
dalle parole e dalla storia di qualcuno che non conoscevo assolutamente e che è
lontano anche nel tempo, questo ho sperimentato in questi ultimi giorni
trascorsi all’eremo di Montegiove accompagnato dal diario di Etty Hillesum,
donna straordinaria e straordinariamente immersa nella sua storia e nella
storia del suo tempo, morta ad Auschwitz nel 1942. Appena a casa mi sento
subito accolto dalle lingue che si intrecciano e dai vicini che subito mi bussano:
“ben tornato, tutto bene?” Ma fuori l’arabo della famiglia algerina si
intreccia alla voce potente della nigeriana, che parla al telefono con livelli
di decibel tali da sopperire la carenza di campo telefonico, sono certo che se
il suo telefonino non avesse quelle indispensabili “tacche”, la sua voce comunque
può arrivare nitida al suo interlocutore senza l’utilizzo della tecnologia; poi
l’urdu, parlato dal balcone alla strada per dirsi come è andata la giornata,
certamente non propizia per la vendita in spiaggia, visto l’improvviso
acquazzone che ha lavato via l’ultima domenica di agosto. Ma anch’io scendo in
strada ed è lì che mi sento chiamare da alcuni bambini, dal tono della voce e dall’atteggiamento,
comprendo che devo fermarmi: “ sai, non vengo più a scuola quest’anno,
fra qualche giorno vado in Inghilterra con la mia famiglia”. Certo l’immediatezza
della notizia e il sorriso del bambino sembrano sottolineare l’avventura di un
cambiamento, accolto quasi come gioco, ma so che in genere non è così, i
bambini tengono spesso per se ciò che non sanno decifrare come sentimento. “Tu
come ti senti”- gli domando, posso permettermi questa irruzione, mi conosce da
tempo, -“Ho paura, devo lasciare tutti e lì non conosco nessuno”.
Non può
scegliere, come sicuramente non possono scegliere i suoi genitori, che hanno
preso questa decisione per rincorrere ancora un futuro migliore, che stenta
beffardamente ad arrivare. "Sai già come si fa, puoi riuscire ancora”,
l’unica cosa che sono riuscito a dire, del resto ha le sue risorse, perché
dovrebbe perderle proprio ora, ma quel suo “ho paura”, mi risuona dentro in
maniera autentica e forte, sento di doverlo custodire come qualcosa di molto
prezioso e sottilmente doloroso. Non è il primo bambino costretto all’ennesimo
sradicamento dal quartiere e forse non sarà l’ultimo, come lui tanti adulti, uomini,
donne, vecchi, ormai sembra la costante di questa epoca: sradicati per
violenza, per fame, per speranza, per guerre, nessuna di queste sono
motivazioni che partono dal cuore, sono imposizioni. Loro, i bambini, non hanno
possibilità né di fare capricci, né di decidere, e quando si oppongono portano
motivazioni per nulla banali: “ a scuola vado bene ora, sono ben inserita, come
posso farcela in un altro paese dove non conosco la lingua”, questo ha detto
una ragazza alla propria madre, la quale mi diceva: “ come
possiamo partire ora?”. Rientro in casa, due minuti ed ecco il suono del
campanello, l’indiano che abita nell’appartamento sopra al mio con un italiano stentato,
mi chiede come deve fare per iscrivere i suoi figli a scuola, sono arrivati da
qualche mese, ma non ha mai provveduto alla loro iscrizione, provo a fornire
qualche informazione e indico l’indirizzo della direzione didattica, la sua
faccia però è eloquente nel mostrare disorientamento, e mi dice:” allora, io
esco dalla via, qui casa…”. Ok, risolviamo il problema, mercoledì prossimo
andiamo insieme in direzione, guido io. Lo so sono banalità, sono punti di
vista, sono quotidianità come molte altre, e ben venga che sia così, del resto
le situazioni straordinarie sono rischiose, troppo lontane dal reale e spesso
troppo roboanti per saper contenere la saggezza e la profondità di incontri
immediati e semplici. Dio abita d’abitudine qui. Incomincio lentamente a sentirmi
un “NOI” in questo luogo, a sentirmi del posto e non l’ultimo arrivato, ma da
dove mi viene questa sensazione? Non so decifrarla, penso che dipenda da come
lentamente, molto lentamente, le persone mi stanno prendendo per mano e mi
stanno invitando, a modo loro, e forse anche inconsapevolmente, ad entrare in
questo spazio umano. Vado in crisi, molto spesso perdo il buon umore, mi sento
perso e disperso in questa mia scelta da costruire giorno dopo giorno, dove i
riferimenti li devo segnare in autonomia, ben venga comunque questa precarietà,
è un opportunità anche questa, ma quando sento la dimensione del “NOI”, c’è
poco da dubitare: Dio abita d’abitudine nel NOI.
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