Ferie lunghissime quest’anno, tempo dedicato soprattutto
allo studio, quindi libri, pagine che
sfoglio continuamente, fogliettini di appunti ovunque, ma fortunatamente la mia casa è piccolissima,
26 metri quadrati e questo mi agevola nella concentrazione, ho sempre amato le
piccole abitazioni; ma non c’è solo questo perché nella vita quotidiana c’è
sempre l’imprevisto, se all’imprevisto lasciamo la porta aperta. Spesso per me questo vuol dire, incontri
inaspettati, relazioni che si approfondiscono senza nessun tipo di
pianificazione, ”possibilità” che si presentano per vivere più a fondo nel mio
contesto, ed è con quest’atteggiamento di fondo che vivo questo tempo estivo,
dove con la complicità il caldo e delle giornate vissute all’aperto, ho avuto
qualche occasione in più per lasciarmi contaminare, coinvolgere e interrogare
dagli incontri. La dimensione dell’abbandono è fortissima nella mia vita di
fede, nel mio vivere e intrecciarmi con Dio, l’abbandono è sempre frutto di una
fiducia smisurata, di un intimità che non è mai intimismo, che non si vive
sempre ma sempre è possibile sperimentarla, soprattutto sento che l’abbandono
non è un punto d’arrivo, ma lo spazio, la dimensione, l’orizzonte di senso che
permette il viaggio e la ricerca, quella di Dio, che non è “mai abbastanza”
come diceva Carretto. La mia esperienza e la mia storia mi dicono comunque che
tutto questo non è mai staccato dall’incontro con l’altro, non c’è un prima o
un dopo, prima Dio poi gli uomini o viceversa, ma una contemporaneità, un “accadere
allo stesso tempo” con mille sfumature diverse
che danno la percezione di essere immersi in una pianezza di vita; per questo
sento necessario vivere, o meglio provare a vivere la dimensione ”
dell’abbandono fiducioso” anche nella
relazione con gli altri, così anche qui, come con Dio, non è mai un arrivo, ma
un camminare, uno svelarsi, un entrare in conflitto, un accogliere il
cambiamento, un ridare la giusta proporzione al mio sentire, alla mia persona e
alla mia visione della vita. Nel concreto questo si traduce prima di tutto nel “saper
stare” nell’ambiente che mi accoglie e di cui mi sento parte; nell’ aprire la mia casa sia per scambiare due
chiacchiere ma anche per provare ad insegnare l’italiano in maniera informale
ad un vicino che mi chiede questo favore; nello scambio di parole con la vicina
di casa che non nomina mai il suo lavoro, mentre mi fa mille domande sul mio; nell’ accogliere i saluti e garantire rispetto
e accoglienza, nella chiarezza degli atteggiamenti che non confonde ciò che è
malavita, sfruttamento con il malessere, la povertà e l’essere vittima e in
questo non scendere mai a compromesso, essere per contro lucidi ed attenti;
nell’entrare in relazione con quelle forze positive che possono generare vita e
cambiamento in quest’ambiente, cercando quindi di coinvolgermi con altri che in
questo quartiere provano ad essere creativi e attivi, affiancandomi a loro,
coinvolgendomi, con- promettendomi: in tutto questo l’abbandono a Dio a agli
uomini non solo è possibile, in tutto questo è soprattutto tangibile.
Intrecciarsi con gli altri |
C’è un elemento che potrebbe apparire fuori contesto, ma che
lega e rende possibile quanto espresso fin qui: è il silenzio, che è la modalità per raggiungere il punto dove si
genera il senso della mia vita e allo
stesso tempo è il “grembo” che si rende
gravido della passione di Dio e che mi spinge ad uscire verso la novità. Senza
l’esperienza e la frequentazione del silenzio penso sia difficile per me tenere
i piedi per terra, ben chiaro che l’esperienza di deserto e solitudine va
comunque sempre liberata dalle ambiguità che potrebbe generare.
Il silenzio
anch’esso, è il luogo dell’esperienza e non della conquista, in esso non si
possiede nulla, non si afferra, ma ci si inoltra, ci si spinge in avanti, ci si
avventura, ci si appassiona al cammino più che alla meta. In questi giorni sono
stato in Eremo ad Amandola, un posto che amo particolarmente e che vi consiglio
di frequentare, qui non per fuggire ma per abbandonarmi.
amedeo.angelozzi@tiscali.it |
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