martedì 24 dicembre 2024

La luce del primo mattino - Natale 2024

 


La “luce del primo mattino” arriva senza far rumore né annunciando sé stessa, si palesa all’insaputa di chi, immerso nel sonno ancora profondo, non può sapere ciò che accade. La “luce del primo mattino” è in solitaria che evolve e prende vigore, che agisce e rischiara. La “luce del primo mattino” non puoi afferrarla, la puoi solo trovare riflessa in tutto quello che lei non è, ma illumina; rende presente, ma non sé stessa; accarezza tutto ciò che esiste e diventando un tutt’uno, lei scivola in secondo piano. La “luce del primo mattino” è una solitudine, una mancanza, una nostalgia che cerca qualcuno su cui poter riverberare. L’incontro è il suo esistere, la “mancanza” è la sua possibilità. La “luce del primo mattino” è decisa e determinata, raggiunge ogni angolo oscuro, ogni stradina tortuosa, ogni piega che nasconde; non rivela, ma svela, toglie, libera, rende possibile lo sguardo, prende per mano e dipana la paura del buio.

Sento il bisogno di essere preso per mano da chi è come questa “luce del mattino”, ed essere anche costretto ad uscire allo scoperto, di non restare troppo comodo nella mia vita; ho profonda nostalgia delle domande scomode, dei sogni sgangherati e con tinte emotive forti, di quei sogni con orizzonti rivoluzionari anche un po’ fantasiosi, come quelli che mi furono donati in piena giovinezza, mi fu insegnato a sognare con gli altri e spesso a sognare anche per gli altri. Sento un vitale desiderio di incontrare nuovamente donne profetiche e uomini coraggiosi, che sanno coniare parole come ponti, che sanno perdersi nel rischio di un incontro, guardano gli altri negli occhi per un ascolto più profondo, sanno che lo sguardo è solo il primo passo, per essere accolti nel mistero dell’altro. E si avventurano a mani aperte.


Vorrei non aver paura dell’inquietudine che provo di fronte al vuoto culturale e di senso che si palesa nel nostro mondo, della violenza che continua a confondere e inquinare il pensiero, per distruggere ogni senso di appartenenza reciproca; vorrei rimanere lucido, stabile, serenamente in contrapposizione e decisamente resistente, verso chi invita cinicamente a riprendere in considerazione una “mentalità di guerra”, questa visione è la prima arma davvero subdola e potente. Non vorrei cadere al torpore dell’indifferenza, alla palude della distanza, al freddo di chi “basta a sé stesso”.

Mi sono preso giorni di solitudine quest’anno, mi sono avventurato nel “deserto” senza sapere cosa realmente potesse accadere, mi sono preso il rischio di “lasciar fare” a Lui, a Dio, che da sempre è per me come la “luce del mattino”. Tra le mani mi ha appoggiato “l’inquietudine”, da tener viva quando rischio di “fare a meno degli altri”, mi ha sussurrato che è più facile trovare la pace interiore e la quiete profonda, molto più difficile è trovare sé stessi nel volto dell’altro, così mi ha offerto un “sorriso” per spingermi in questa seconda avventura. Mi ha mostrato che è molto più forte e rivoluzionario com-promettersi con l’umano, sempre, sempre, sempre.


Una Parola ho ripetuto in queste settimane, nel cuore a cuore della preghiera, le ho ripetute come soffio leggero, sulle fatiche mie e di questo mondo, mi hanno nutrito, mi hanno scomodato, mi hanno forzato a mettermi in moto, te le regalo perché anche in te possano generare quella sottile, leggera e decisa “luce del mattino”:

Il Signore consolerà Sion, consolerà le sue rovine. Ritorneranno la gioia e l’allegria, il ringraziamento, il canto e la musica”.      Is 51, 3





lunedì 26 agosto 2024

Tre parole e mi scomodo

Inaspettatamente senti una carezza leggera e decisa, ti raggiunge e ti incontra nelle pieghe più nascoste della tua capacità di percepire, arriva come dono nel momento in cui smetti di pretendere e chiedere, quando non la costruisci nella tua mente, quando non la progetti a tua misura, quando smetti di volerla solo perché ne hai bisogno. C’è una gratuità che disarma, nella carezza di Dio.

Essa è profonda e smisurata intimità, che apre ad un respiro pieno, non è più un flusso di “acqua fresca”, è sorgente, è il punto esatto dove sgorga e lì, vieni posto, come un bambino adagiato nel talamo dove è stato generato. La Sua carezza ti pone al “tuo inizio” e ti ritrovi nel luogo del “tuo approdo”, in un abbraccio che è riconciliazione e armonia ritrovata: per-dono.

Ogni parola che cerchi di pronunciare per poter descrivere a te stesso ciò che quella carezza produce, senti che è insufficiente e per certi versi blocca quello che, in realtà andrebbe solo vissuto; il silenzio è il linguaggio appropriato in questa esperienza, perché ti immette nel flusso dell’incontro senza nessuna barriera, nessun paracadute, nessun vincolo, sei a “mani vuote”.  Ci si può spaventare e si tenta di riprendere subito il controllo, eppure il Suo essere non più di fronte, ma dentro tutto il tuo esistere, ti permette di comprendere chiaramente che ogni resistenza è il rifiuto più sciocco e la scusa più banale che puoi avanzare ad un dono smisurato, di cui ne hai sempre avuto nostalgia e nel tempo ne sei diventato mendicante.


Ecco perché nella Scrittura una delle parole ricorrenti a dismisura è “LODATE!”, espressione intrecciata, mescolata, sporcata e messa alla prova da fatiche, lotte, conflitti, contraddizioni e violenze, ma poi? Torna, come un intercalare di speranza, di riposizionamento alla radice, come parola generatrice che invita e coinvolge: LODATE! Si può sussultare, in un impeto di bellezza, di gioia piena, di letizia, di cambio di prospettiva, non perché te lo produci da solo, ma perché ti arriva dal TOCCO LEGGERO E DECISO DELLA CAREZZA DI DIO.

È ciò che succede all’amata o l’amato descritto nel “Cantico dei cantici” che grida e irrompe in un fiume di parole che descrivono la potenza dell’amore che ha sperimentato e ricevuto, lo narra agli altri come una lode: è bellissimo, urlerebbe.


    

Lodatelo perché è tenerezza, è fragilità che ti invita alla cura, è sguardo discreto che sa raggiungere senza giudizio, è limpidezza, accoglienza, è giustizia e grido nei più fragili, è denuncia nelle disuguaglianze, è paterno non paternalista, è madre perché il suo utero è gravido di misericordia, è fratello perché sei sangue del suo sangue, anche quando lo senti estraneo o che non ti appartiene, per Lui sei il desiderio che lo abita senza il limite di un inizio: “sei il suo desiderio.

Nella Scrittura, la carezza di Dio produce, con la stessa forza dirompente della LODE, con lo stesso vigore e potenza generatrice, la DENUCIA. La Sua carezza non è intimismo, sentimentalismo, non è il circolo delle “belle anime”, piuttosto irrompe facendo saltare i confini, ti spinge ad alzare lo sguardo e passare dalla contemplazione del tuo ombelico, agli occhi di chi ti sta accanto. La Sua carezza profonda è anche “scomoda”, nel senso etimologico che la parola racchiude in sé, ossia ti provoca fastidio, ti mette in difficoltà, immette una rottura, spezza un’armonia che era perniciosa e quindi ti mette in movimento, ti spinge ad andare fuori dal tuo “star comodo”. Fuori dal tuo comodo, trovi la realtà di vita di donne e uomini del tuo tempo, trovi i conflitti determinati e sostenuti dalle prepotenze e dai tornaconti dei pochi, vedi le disparità, le manipolazioni, le incongruenze, e non puoi più tacere. Scomodare è racchiuso anche nel “Vieni e seguimi”; chiara e senza sfumature la frase che Gesù rivolge ai primi che ha incontrato e che saranno la sua comunità di vita, per lui era palese dove si andava: nella Galilea delle genti, nella “borgia” delle contraddizioni.


In questi giorni di eremo l’occasione di fermarsi, rallentare il ritmo, permettere ai pensieri di decantare meglio in profondità, mi hanno permesso di rimettermi anche all’ascolto della storia personale di Charles de Foucauld, che per me resta quell’amico che, avendo trovato una passione per cui valeva la pena spendere tutta l’esistenza, te la trasmette e la sa instillare in profondità, appassionandoti così tanto e bene, che la stessa passione la senti ormai totalmente un “tuo vestito su misura”. Rileggendolo mi sembra che la sua vita abbia provato a mettere in armonia e in sinergia creativa proprie queste tre parole: CAREZZA, LODE E DENUNCIA. Le ha coniugate non passando attraverso progetti, strutture, mezzi efficaci e quant’altro, no: le ha fatte passare per la sua carne, nel suo corpo, nell’evolvere della sua vita, nelle relazioni concrete. Questa forma di vita scriveva a sé stesso: “vivila nel luogo più utile per il prossimo”.



lunedì 19 agosto 2024

Le sfumature di una parola

   


 Il silenzio è davvero denso, hai la percezione anche fisica che ti avvolga, e nelle prime ore della giornata, nella completa solitudine di questi giorni di eremo, accompagna e amplifica ogni piccolo rumore, dal caffè che borbotta mentre risale nella caffettiera, al cucchiaino che immergi nella zuccheriera e poi tintinna nella tazzina, ti soffermi anche ad ascoltare questo, ma più che perdere tempo e perderti, è gustare, assaporare è semplicemente “stare”. Il silenzio è solo una mano tesa, che anticipa o prepara l’ascolto, è la cura dello spazio dove desideri che avvenga un incontro, è il dettaglio necessario e l’essenziale che ti libera da orpelli e “cianfrusaglie mentali”, che potrebbero impedire un dialogo, un incontro, un ospitarsi. Siamo fatti di desiderio, quella spinta interiore che ci sposta e sbilancia oltre il nostro ristretto confine personale, siamo impastati di relazioni, incontri, attese e pretese, siamo abitati da tensioni e conflitti, da perdoni ricevuti e carezze salutari, siamo legati ad uno sguardo che ci riconosca e ci ospiti in altri vissuti, siamo anche cercatori e nomadi, in attesa di approdare in terre ospitali dove poter incrociare l’abbraccio gratuito e non quello soffocante.

    Siamo plasmati dalle relazioni e dalle dinamiche della reciprocità, allo stesso tempo siamo anche messi a rischio dai vortici e dagli invischiamenti che si possono generare nell’inevitabile interdipendenza. Il silenzio e un tempo di solitudine, è davvero quell’esodo che si dovrebbe affrontare con coraggio, è il decidersi di entrare nel deserto, di lasciarsi denudare, scarnificare, di rischiare l’essenzialità, di sentire la sete e riconoscere il pozzo dove dissetarsi. Per quarant’anni Israele fu nomade nel deserto, mormorò, imprecò, si costruì l’idea di essere libero legandola al ricordo e al rimpianto del tempo della schiavitù, preferì chiamare benessere, la dipendenza e lo sfruttamento, barattato per un piatto abbondante di cipolle. E la storia si ripete, con l’aggiunta di nuove sofisticazioni. L’idolo per la Bibbia è ciò che ti fa sentire libero, vincolandoti e stringendoti a sé. Un inganno non da poco, difficile da consapevolizzare, perché troviamo il paradiso, come direbbe Lacan, “in striscioline di godimenti”. Interessante, il Dio della Bibbia non promette striscioline di godimento, invita ad affrontare il lungo percorso del deserto, ad addentrarsi nella perdita di sé e delle sicurezze ingannevoli, camminerà con te non a posto tuo, compromettendosi lungo il cammino, rischiando anche del suo: essere messo in discussione e rifiutato.

    


Questo è anche il motivo per cui ho scelto di salire in eremo per un tempo prolungato. Non è il nido caldo, la tana per ripararsi dalle intemperie e dai pericoli, nemmeno il nascondiglio che ti salva dagli sguardi indesiderati e dalle situazioni moleste, ancor meno è “un muro di cinta”; piuttosto è “il cedimento necessario”. “la breccia nel muro”, “la mancanza di certezze”. Si viene in eremo perché senti un briciolo e uno scampolo di fiducia in Lui e sai che la fatica di entrare ed abitare sé stessi e la propria storia, è possibile farla in compagnia, ma mai verrà fatta a posto tuo.

A distanza di due settimane, incomincio ad accorgermi di come le “parole” hanno un sapore e uno spessore differente, è il frutto del silenzio e del tempo dedicato all’ascolto; ogni singola parola che leggi o pronunci nel cuore della preghiera, risuona e riverbera in profondità, diventano il luogo e il riflesso di un dialogo, senti che sono necessarie per dare forma e vita alla relazione che stai cercando e che stai vivendo. Le parole allora le ricerchi, le attendi prima di pronunciarle, le lasci decantare e le trattieni un po’ prima di lasciale andare. Esse hanno anche dell’incompiuto, perché alcune non bastano, altre sono insufficienti, altre ancora non sono adatte per dire quello che senti; ecco perché ogni singola parola ha bisogno di un corrispettivo silenzio, perché è quest’ultimo che accompagna e aggiunge quella parte di significato e di senso che altrimenti non raggiungeresti. Le parole aprono, bloccano, vincolano o lasciano andare; le parole fanno esistere, portano lo sguardo su un aspetto o lo distolgono da un altro; le parole costruisco passo dopo passo vicinanze, e posso scavare lontananze abissali; fanno fiorire o seccare di colpo. Le parole ti permettono di dare senso o di togliere importanza alla stessa identica esperienza, persona o relazione: la parola è nostra e ha in sé il “poter generare” o lo “strapotere di de-generare”. La parola serve per comunicare, ci mette nella condizione di essere prossimi e dirimpettai di altri, quindi dice chi siamo.


Il silenzio di Dio è invece quella parola indefinita e non vincolante, che viene pronunciata come “una sottile voce leggera” (cfr. 1 Re 19, 12.), che prima ancora di intercettarti, è spazio di accoglienza incondizionata, è attesa, è grembo e presenza che allarga i confini dell’intimità. La parola che Dio sussurra nell’incontro della preghiera silenziosa e scarna non è mai violenta, anche se la sperimenti come decisa e chiara, è come una “mano” che senti di voler afferrare, perché ti conduce in profondità e ti permette di attraversare il deserto appunto, con l’unico “mezzo” possibile: la fiducia che ti ispira e la fedeltà che mai è venuta meno in questi anni.

Ecco allora che questo tempo di solitudine non è altro che entrare a fondo nel proprio vissuto quotidiano: non puoi fare a meno di rileggere le relazioni, di riconoscere le fatiche, di prendere responsabilità verso le parole che hai pronunciato o scelto codardamente di non dire,  di quelle che ti sono servite come corazze o pietre da scagliare; ma senti anche di accogliere quelle che hanno segnato in bene la tua vita, che hanno costruito amicizie e fraternità, che ti hanno liberato, fatto crescere e appassionato, le parole che non sapevi dire e che ti sono state consegnate.

 


 

martedì 13 agosto 2024

Alle prime luci del giorno

     


A quell’ora del mattino I rumori sono totalmente assenti, o quasi. La luce incomincia lentamente a crescere e così si delineano i contorni della collinetta di fronte all’eremo e pian piano anche la grande montagna che svetta più avanti, tratteggia meglio la sua forma. Sono appena le 5:00 del mattino, veramente tutto tace o forse prova a godere di un po’ di fresco, viste le giornate torride che si susseguono senza tregua, probabilmente anche gli animali preferiscono restare fermi. Approfitto di questa quiete per iniziare la giornata con il silenzio, restare in quest’abbraccio, in questo spazio che accudisce all’insaputa dei molti che ancora dormono. In questo grembo di silenzio anche i gesti sono importanti, sono quell’arcaica capacità dell’essere umano di dare senso a ciò che vive, di esprimerlo attraverso la materialità e il movimento che compie, è un linguaggio che esplicita, da forma e fa esistere ciò che sente, così passando dalla propria intimità esce e si esplicita all’esterno, diventando il modo per interagire con l’ambiente, o con chi ha davanti a sé. Il primo gesto che compio nelle prime ore dell’alba? Accendo dei piccoli lumini, che rischiarano appena la cappellina, la fragile luce che emanano non irrompe prepotentemente nel buio, anzi sembra amalgamarsi armoniosamente con esso; il lumino appeso accanto al tabernacolo ciondola ancora per un po’, fino a trovare la posizione stabile che la forza di gravità gli assegna, più che rassegnato sembra aver trovato la postura giusta per illuminare meglio. Questo gesto, un po’ rituale, dice bene il desiderio di essere da subito in intimità con Dio.

    Nei primi giorni di eremitaggio, si combatte sempre con la “confusione interna”, ci si prodiga nella ricerca del silenzio, ci si organizza anche il tempo, ma la mente continua a tenerti incollato sulle voci, le situazioni e le sensazioni che ti sono restate addosso della tua quotidianità: sei qui, ma in realtà sei altrove, pensi di essere in solitudine, poi scopri che sei nel mezzo del traffico all’ora di punta. Occorre darsi tempo o, meglio ancora, occorre dare il “ben venuto” a tutto il condominio che ti abita, è la vita che hai scelto, più o meno consapevolmente, è ciò che vivi, è semplicemente il quotidiano, da non vedere o percepire come distrazione, ma come il luogo della propria umanizzazione. Niente esercizi ascetici allora, niente tecniche, nessun allenamento particolare, solo accoglienza…con una buona dose di autoironia. In quel frastuono c’è del buono e dell’interessante da scoprire e ascoltare, del resto non sono venuto in eremo per una quiete interiore, né per pacificare il cuore, sono in eremo perché possa unificare, far dialogare il mio esistere, e in questo, c’è prima di tutto il “mio stare con gli altri”, il mio modo di stare al mondo: nei rumori interni molto, se non tutto, è legato a questa dimensione relazionale che viviamo inesorabilmente. Adriana Zarri diceva: “l’eremo non è un guscio di lumaca”, con un’immagine così chiara si smonta ogni poesia o scivolata verso un romanticismo pernicioso. L’eremo è il tempo del so-stare.


Poi ad un tratto, più o meno inaspettatamente, avviene la svolta, certo da non immaginare un’illuminazione, una rivelazione, un irrompere di forze divine, è qualcosa di molto più scarno, quasi banale: molli la “pretese” e ti fidi “dell’attesa”. Si, ti fidi, ti devi proprio affidare, dargli credito, entrarci in relazione dinamica con ciò che vuol dire e comporta la parola “attesa”; l’attesa è una postura, un modo di stare nel flusso vitale degli eventi; l’attesa non è semplicemente il ricevere passivamente, il subire un destino, è piuttosto un riposizionarsi in equilibrio all’interno della relazione, tra te e la vita, tra te e gli altri, tra te e Dio: c’è una parte attiva, perché fai spazio, liberandoti del “superfluo” e dal “tossico” in cui avevi riposto fiducia e questo, tu puoi deciderti di farlo è nelle tue mani; c’è allo stesso tempo una parte passiva, quella in cui impari a ricevere senza pretendere, né condizionare, senza dettare nemmeno i tempi, come quando diciamo: “ lo voglio adesso”, “devo averlo ora”, l’attesa ti toglie anche la pretesa che tutto è nelle tue possibilità, ti impoverisce.

Il silenzio è più intenso, la luce del giorno si rafforza e il lumino di lato al tabernacolo è fermo, stabile in piena armonia con il resto, indica la Presenza, chi dell’attesa ne ha fatto un grembo…allora la solitudine diventa ospitalità: delle storie che hai vissuto, dei volti che hai incrociato, delle “rabbie” che hai condiviso o semplicemente accolto, dei “piccoli” che ti hanno messo in crisi e ti hanno liberato.

O Unico, perché cercarti nei cieli, quale terra è vuota di te?

O Unico, perché cercarti dentro una casa, non sei Tu che abiti in me?

O Unico, tu puoi essere assente, il mio cuore veglia nel ricordo di te.

O Unico, tu puoi separarti da me, crescerà il desiderio dell’incontro con Te.

O Unico, tu sei l’Amante, ma io l’amato sono in Te.

O Unico tu sei il mio Amato, sei Tu l’amore che è in me.

Con te la mia follia è santità,

la mia sapienza è stoltezza,

con te la mia debolezza è forza, la mia povera vita, diventa vita divina.   (dalla liturgia di Bose).



mercoledì 7 agosto 2024

Il nome dei "piccoli"

  


 Vorrei incontrare qualcuno, non stia dalla parte di chi ha palesemente ragione agli occhi del pensiero comune, di chi si ritrova in una posizione scomoda; vorrei incrociare quelli e quelle che sono non solo minoritari, ma assolutamente dimenticati dal resto del mondo, perché la loro difesa non apporta nessun tornaconto appetitoso. Vorrei incrociare chi non dice: _ah! No, questo non puoi farlo, perché IO…Ma senza pensarci molto e con sincerità spudorata, ti guarda negli occhi e ti dice: _ Come mai fai così? Come mai pensi in questa maniera? Senza per questo metterci la ben minima traccia di contrapposizione ed ostilità.

    Vorrei che mi toccasse il cuore la freschezza di chi sa rallegrarsi delle feste, dei segni e delle credenze degli altri, senza per questo aver il minimo bisogno di assomigliarsi. Vorrei contemplare silenziosamente lo sguardo di chi resta in silenzio perché consapevole che non ha tutte le risposte, e così rimanerne di colpo a secco non li smarrisce, ma li radica nella loro vulnerabilità, nella fiducia che hanno nella “mancanza”.

    Vorrei ancora semplicemente avvicinarmi, per iniziare a camminar loro acconto, a quelli che non si attardano sempre ad indagare “le colpe”, ma sanno restare in movimento, come cercatori attenti, per comprendere i “processi”.

    Come sarebbe bello raggiungere per “origliare” un po’, il cuore di quelle persone che non ritrattano la parola data, anche quando si accorgono che ci perderanno, hanno il cuore troppo impegnato e preso sul valore della relazione, per questo dimenticano il “calcolo”.


    Vorrei tanto perdermi nell’ascolto della libertà e del coraggio di chi ha imparato a dire le proprie ragioni senza rivendicare o proteggersi; chi sceglie il confronto, piuttosto che la violenza di un mutismo; chi sa dire un addio; chi sa prendere atto di una rottura, ma non sente per questo il bisogno di “spezzare” l’altro o l’altra, perché non se ne fa nulla della difesa ad oltranza e ancor meno di costruirsi la trappola del credersi giusto.

    
Sono questi i “piccoli” che il Vangelo mette al centro, lì pone davanti senza dar loro un nome…questi devi cercali.



domenica 4 agosto 2024

Nel deserto nulla resta nascosto


 Ho deciso, ormai da tempo , di immergermi nel silenzio profondo e nella solitudine con Dio di un mese. Da anni cercavo di mettere insieme i giorni, di intrecciare impegni e liberare giornate perché potessi avere la possibilità di staccare dal quotidiano e avere questo tempo prolungato di solitudine. Non ho un motivo preciso, o chissà quale scopo particolare, è piuttosto un esigenza che lentamente ha preso forma, un' attrazione senza pretese, o semplicemente l'evoluzione naturale del mio cammino. Fermarsi e ritagliarsi uno spazio per il cuore a cuore con Dio è un dono e una possibilità che ci si può concedere, anzi è un rischio che si può correre. L'occasione per mettersi in movimento non è mancata, sono passati 25 anni dalla mia prima alleanza con Dio, nella forma di vita di Nazareth, questa vita da piccolo fratello che passo passo ho lentamente imparato ad accogliere, scorgendo e lasciando fluire il desiderio di solitudine con Dio. Senza averne troppa consapevolezza, questa alleanza ha ormai tracciato un discreto cammino. Il tempo trascorso non mi invita a guardare indietro per tracciare delle sintesi o fissare delle certezze, gli anni sono stati intensi e sempre attraversati dal profondo desiderio di giocarmi una vita completamente contaminata dal Vangelo: questo Gesù di Nazareth non è mai stato indifferente per me, né mi è mai apparso banale, mi ha intrigato quella sua passione per l'uomo a partire sempre dal più piccolo, quel suo rompere gli schemi, ma mai spezzare le esistenze. Non è certamente Lui che mi ha invitato a scegliere la spiritualità di Nazareth, ancor meno mi ha chiesto di essere piccolo fratello, è stata quella irresistibile e bizzarra attrazione verso le sue parole e quell'averlo sentito tremendamente e concretamente "il mio di fronte", che mi ha interpellato. La mia scelta di vita è il modo concreto, la carne visibile, la modalità definita in cui sento di vivere e dare quotidianamente forma al mio rapporto con Lui e così come ogni forma di relazione trasforma, modella, genera il modo di essere al mondo, così quando dico di voler essere un "piccolo fratello", non desidero dire altro che il mio modo di stare al mondo e nelle relazioni. E' ancora tutto un cantiere, un costante modellamento, è un tentativo, un provare e riprovare, non importa, è la dinamicità di una relazione. 

Sono arrivato in eremo questa mattina, un po' frastornato, così desiderio e paura si abbracciano, resistenza e curiosità si stuzzicano a vicenda come due bambini che giocano a rincorrersi per vedere chi ha più forza nel gioco. L'eremo è silenzioso, immobile, qualche tela di ragno va rimossa, la polvere non manca. I libri trovano il loro posto, le finestre si aprono ed entra aria fresca, la luce del sole toglie l'umidità e l'odore di chiuso. Ma il primo gesto che compio è mettere in custodia il Pane. Nel deserto si apprende l'arte dell'essenziale e in questo tempo di deserto il Pane è quell'essenziale che mi pone davanti a due realtà: la totale gratuità di Dio e la dimensione del "noi", perché quel Pane mi è stato dato, consegnato dopo la celebrazione Eucaristica da una comunità che si è ritrovata insieme. Senza queste due dimensioni chiare, il deserto e la solitudine, per quanto mi riguarda potrebbe, diventare solo la contemplazione del proprio ombelico, di questo, non né sento assolutamente la necessità sinceramente. Non mi interessa cercare la felicità, la pace interiore, l'armonia profonda con l'universo, il distacco da ciò che mi mette in agitazione, mi interessa piuttosto andare a fondo, rischiare l'incontro, farsi accompagnare dove non andrei mai per paura, controllo e codarderia; Il deserto non nasconde nulla e nulla addolcisce, ti offre il silenzio come una mano tesa che non strattona, ma comunica fiducia e prepara al momento dell'Incontro.





lunedì 22 luglio 2024

"NON TRATTENERMI"

         


    È un viaggio non sempre facile quello che ognuno di noi compie, alla ricerca di un “sé” che si senta finalmente a casa; vaghiamo per avvistare un approdo sicuro, un porto calmo, o semplicemente delle braccia accoglienti. Nasciamo dentro un “noi” e la sua nostalgia muove la rotta, quel “ noi” che ci fa da luogo caldo, che ci mette al riparo dal freddo della solitudine o peggio dall’idea che possiamo bastare a noi stessi. È il desiderio profondo di quel ritrovarci dentro un intreccio di relazioni, che muove e genera vita al nostro continuo evolvere, come nomadi.

“Siamo figli di un pastore errante” ci ricorda per questo la Sacra Scrittura, di quell’Abramo che con lo sguardo rivolto alle stelle, dove Dio lo aveva invitato a scorgere la moltitudine che avrebbe generato, si fidò del  desiderio instillato da quella relazione, contemplò la sfida della vita nomade, rinunciò ad uno “sguardo” ridotto e piegato su  sé stesso e al proprio piccolo territorio, per scorgere che la vita è sconfinamento.

Sono queste le suggestioni e i pensieri che affiorano in questo tempo dedicato a scorgere le tracce di venticinque anni di vita in alleanza con Dio nello stile di Nazareth, me ne sono accorto per caso eppure il tempo è trascorso; sono stato preso dalla meraviglia, dall’incredulità e da una profonda gratitudine.  E’ tempo di guardare ancora alla strada da compiere, senza indugiare troppo nella retorica dei ricordi. Il tratto, che fino ad oggi ho percorso, mi consegna una piccola mappa, dove non sono segnati i luoghi o definite le strade, quanto  piuttosto è una mappa delle piccole scoperte, delle “parole” consegnate, degli sguardi intrecciati, delle occasioni perse, delle sterzate improvvise. E’ una “mappa” che si deve necessariamente ascoltare e in silenzio. E l’ascolto, a volte, ferisce e cura allo stesso tempo.


Oltre ad Abramo c’è anche una donna che oggi si fa compagna di questo errare, è Maria Maddalena. Il suo sguardo è piegato  verso il basso, è irretito da un sepolcro; trattiene per amore, ma in realtà blocca, toglie vita, aria e respiro. Cerca, ma non trova; scorge, ma è miope il suo vedere; vuole ancora incontrare, ma  è in balia del  “possedere” , per questo probabilmente non riconosce, non sa dare un nome, a chi interloquisce con lei.

“Non trattenermi”, questa richiesta improvvisa risuona nell’intimo di Maddalena quando sente pronunciare il suo nome. L’amore smisuratamente gratuito, lo sguardo che sa scendere e raggiungerti in profondità, sa dare un  nome; non lo balbetta e non procede per  tentativi: ti raggiunge immediatamente e ti riconsegna alla vita piena. Solo il Risorto può tanto e così in profondità.


Emerge lentamente e con decisione il bisogno di fermarmi, nella fretta non si può cogliere nulla, al massimo si sorvola, si resta molto in superficie, ma fermarmi non è sinonimo di isolarmi, non vuol dire recedere, né tagliare e ancor meno prendere le distanze. E’ l’invito deciso a sostare nelle relazioni, è il lasciarsi raggiungere, toccare, spogliarsi, accarezzare, tutti verbi che indicano che è salutare smettere di essere l’artefice unico di ciò che accade.

 







sabato 30 marzo 2024

Pasqua 2024


Appena sotto casa, trafilato e un po’ in affanno per aver camminato molto, incrocio lo sguardo di un vicino di casa, non lo conosco direttamente, ma ho preso l’abitudine di guardare negli occhi e salutare sempre e chiunque, è un semplice “incrocio” certo,  ma per un istante potrebbe essere anche un “incontro”, pur se fugace e superficiale. Non pretendo di cambiare il mondo con un saluto gentile, né esagerare con il romanticismo, vorrei semplicemente recuperare un minimo di umanità, di alzare lo sguardo da terra e sorridere, augurare di cuore una buona giornata. Le reazioni sono comunque le più diverse, vanno dallo stupore,

al :_“ma chi ti conosce!” stampato chiaramente sul volto, al totale disorientamento, perché ormai anche un saluto è una violazione della privacy e volendo, dietro quella gentilezza, potrebbe nascondersi l’ultima proposta conveniente di luce e gas, loro addirittura, quelli del call center, ti chiamano per nome e con tono sicuro ti definiscono “Signor Angelozzi”, a cui rispondi a mezza bocca e mai con “si, sono io”, perché hai paura che in automatico attivi un contratto. Anche dietro ad un saluto più gentile, ci siamo abituati a scorgere un inganno e la diffidenza ci rintana nelle nostre roccaforti egotiche.


Provate, per pura curiosità, a salutare chiunque incontrate, con gentilezza e apertura di sguardo, farete sperimentare un brivido, uno spavento, e li lascerete per un po’ in compagnia di una domanda: ma lo conosco? Mi conosce?.

Nel tempo di Quaresima che è tempo di silenzio e “ritorno”, di ascolto e” mani aperte”, ho cercato di essere raggiunto in profondità dalla carezza di Dio, o almeno ci ho provato; permettere che qualcuno ci accarezzi è necessario lasciarsi raggiungere, è necessario abbandonarsi al rischio della fiducia, alla vertigine dell’inconosciuto; per ricevere una carezza, credo sia essenziale anche aver accolto la propria precarietà, ecco, per tutto questo mi dico che ho provato a farmi raggiungere dalla carezza di Dio.  Allora la si attende, preparando un terreno fertile e dissodato.

In questo tempo ho riscoperto la preghiera del pellegrino russo, la preghiera del cuore; l’ho vissuta in particolare camminando, il movimento del corpo apre al movimento del cuore, perché non basti mai a sé stesso, non cerchi solo un nido caldo e solitario, custodito e protetto, ma sia fecondo all’incontro, alla relazione, sia terreno accogliente, zolla dissodata per la semina. La preghiera del cuore e ritrovarsi “abitato dal Suo incontrami”.


Ero dentro questa preghiera quando sotto casa ho incrociato il vicino di casa, anche lui sembrava ripetere qualcosa a bassa voce, poi mi sono accorto che stava utilizzando il misbahah, assomiglia ad un rosario per ripetere i nomi di Dio nell’Islam: ci siamo incrociati e incontrati nella stessa esperienza di fede, forse anche con prospettive e sensibilità differenti, non importa. L’ho guardato negli occhi e ho augurato buona giornata, in cambio ho ricevuto una parola precisa: PACE.

Gesù Risorto si faceva presente nella vita dei suoi discepoli prima di tutto con la parola PACE.




sabato 6 gennaio 2024

Siamo echi di chi ci ha sognato

     


E’ tempo di ri-mettersi in cammino, così il movimento necessario da compiere è quello di saper abitare il proprio cuore, non per contemplare se stessi, ma per essere disponibili e attenti a ricevere quella “parola che viene dall’altrove”. Quando lei arriva, quel dimorare stabile in sé stessi non è semplicemente una quiete, non è rifugio o nido caldo, diventa paradossalmente il luogo della partenza e l’inizio del rischio. La “parola che viene dall’altrove” è ciò che non puoi calcolare né ben definire, non corrisponde necessariamente alle tue attese o aspettative, è la parola di altri, per questo è meraviglia, è sconosciuta, imprevedibile, inaspettata, è destabilizzante e allo stesso tempo generativa, perché segna e indica un orizzonte non più manipolato da te: ti conduce in un altrove, dove potrai finalmente trovare casa e riconoscere il tuo volto.

Per mettermi in cammino sento estremante necessario ricevere questa “parola”, che non è mia, ma la ricevo.

                Posso guardare le mie mani, osservare i miei piedi, riuscire a guardare più o meno consapevolmente la forma del mio corpo, ciò che non posso assolutamente fare è mettermi di fronte al mio volto e conoscerlo; il volto è la parte di me che è quotidianamente assente dai miei occhi e quindi non è alla portata del mio controllo. Ho bisogno dell’altro per consapevolizzare il mio sguardo e l’identità del mio viso oppure devo ricorrere a mezzi specifici, come il riflesso in uno specchio.

Ciò che sento e percepisco di me non sempre corrisponde a ciò che gli altri mi rimandano “guardandomi in viso” e molte volte mi sembra che anche lo specchio inganni.


Dobbiamo allora correre il rischio, di lasciarci guardare e di “riceverci” attraverso gli sguardi, i gesti e le parole dell’altro; occorre ascoltarsi, certo; essere consapevoli di noi stessi, sicuramente; non lasciarci condizionare e ingabbiare dall’ambiente esterno e culturale, senza dubbio;  ma  se non assaporassimo l’impotenza e la vulnerabilità che è insita nella scelta di riceversi dall’altro, il rischio è quello di bastare a noi stessi e di definirci come il “senso” e il “perimetro” migliore del nostro esistere, e chiunque può comprende che questo è davvero poco, oltre ad essere semplicemente narcisistico.

È in questo orizzonte e in questa dinamica del “riceversi dall’altro”, che sento emergere, come da una sorgente profonda e già presente in me, il desiderio costante di abitarmi come luogo “già abitato”, lo spazio visitato da una Parola,  la quotidianità fecondata dall’essere ospite e ospitante nello stesso momento. In questa stanza silenziosa, intima e dai confini incerti, non cerco l’ eco alla mia voce, non riverbero me stesso, non ho l’obiettivo di bastarmi, al contrario, mi lascio raggiungere, interrogare, destabilizzare, mi lascio abitare non da un “me” pacificato, non saprei che farcene sinceramente,  ma da un “noi” in cammino.


La Sua presenza è costante, il Suo raggiungermi è molto spesso “l’avermi atteso e preceduto”, è una delicatezza smisurata la fedeltà con cui Lo ritrovo nella mia storia, Lui è una carezza e un abbraccio mai chiuso, mai sufficiente, non è il “fine ultimo”, è piuttosto un eterno inizio; è apertura, è domanda, è eco di altre voci, per questo Lui è quella “Parola venuta dall’altrove”: dall’umano che ha sognato e consegnato a noi perché ne completassimo il capolavoro.