A quell’ora del mattino I rumori sono totalmente assenti, o quasi. La luce incomincia lentamente a crescere e così si delineano i contorni della collinetta di fronte all’eremo e pian piano anche la grande montagna che svetta più avanti, tratteggia meglio la sua forma. Sono appena le 5:00 del mattino, veramente tutto tace o forse prova a godere di un po’ di fresco, viste le giornate torride che si susseguono senza tregua, probabilmente anche gli animali preferiscono restare fermi. Approfitto di questa quiete per iniziare la giornata con il silenzio, restare in quest’abbraccio, in questo spazio che accudisce all’insaputa dei molti che ancora dormono. In questo grembo di silenzio anche i gesti sono importanti, sono quell’arcaica capacità dell’essere umano di dare senso a ciò che vive, di esprimerlo attraverso la materialità e il movimento che compie, è un linguaggio che esplicita, da forma e fa esistere ciò che sente, così passando dalla propria intimità esce e si esplicita all’esterno, diventando il modo per interagire con l’ambiente, o con chi ha davanti a sé. Il primo gesto che compio nelle prime ore dell’alba? Accendo dei piccoli lumini, che rischiarano appena la cappellina, la fragile luce che emanano non irrompe prepotentemente nel buio, anzi sembra amalgamarsi armoniosamente con esso; il lumino appeso accanto al tabernacolo ciondola ancora per un po’, fino a trovare la posizione stabile che la forza di gravità gli assegna, più che rassegnato sembra aver trovato la postura giusta per illuminare meglio. Questo gesto, un po’ rituale, dice bene il desiderio di essere da subito in intimità con Dio.
Nei primi giorni di eremitaggio, si combatte sempre con la “confusione interna”, ci si prodiga nella ricerca del silenzio, ci si organizza anche il tempo, ma la mente continua a tenerti incollato sulle voci, le situazioni e le sensazioni che ti sono restate addosso della tua quotidianità: sei qui, ma in realtà sei altrove, pensi di essere in solitudine, poi scopri che sei nel mezzo del traffico all’ora di punta. Occorre darsi tempo o, meglio ancora, occorre dare il “ben venuto” a tutto il condominio che ti abita, è la vita che hai scelto, più o meno consapevolmente, è ciò che vivi, è semplicemente il quotidiano, da non vedere o percepire come distrazione, ma come il luogo della propria umanizzazione. Niente esercizi ascetici allora, niente tecniche, nessun allenamento particolare, solo accoglienza…con una buona dose di autoironia. In quel frastuono c’è del buono e dell’interessante da scoprire e ascoltare, del resto non sono venuto in eremo per una quiete interiore, né per pacificare il cuore, sono in eremo perché possa unificare, far dialogare il mio esistere, e in questo, c’è prima di tutto il “mio stare con gli altri”, il mio modo di stare al mondo: nei rumori interni molto, se non tutto, è legato a questa dimensione relazionale che viviamo inesorabilmente. Adriana Zarri diceva: “l’eremo non è un guscio di lumaca”, con un’immagine così chiara si smonta ogni poesia o scivolata verso un romanticismo pernicioso. L’eremo è il tempo del so-stare.
Poi ad un tratto, più o meno inaspettatamente, avviene la svolta, certo da non immaginare un’illuminazione, una rivelazione, un irrompere di forze divine, è qualcosa di molto più scarno, quasi banale: molli la “pretese” e ti fidi “dell’attesa”. Si, ti fidi, ti devi proprio affidare, dargli credito, entrarci in relazione dinamica con ciò che vuol dire e comporta la parola “attesa”; l’attesa è una postura, un modo di stare nel flusso vitale degli eventi; l’attesa non è semplicemente il ricevere passivamente, il subire un destino, è piuttosto un riposizionarsi in equilibrio all’interno della relazione, tra te e la vita, tra te e gli altri, tra te e Dio: c’è una parte attiva, perché fai spazio, liberandoti del “superfluo” e dal “tossico” in cui avevi riposto fiducia e questo, tu puoi deciderti di farlo è nelle tue mani; c’è allo stesso tempo una parte passiva, quella in cui impari a ricevere senza pretendere, né condizionare, senza dettare nemmeno i tempi, come quando diciamo: “ lo voglio adesso”, “devo averlo ora”, l’attesa ti toglie anche la pretesa che tutto è nelle tue possibilità, ti impoverisce.
Il silenzio è
più intenso, la luce del giorno si rafforza e il lumino di lato al tabernacolo
è fermo, stabile in piena armonia con il resto, indica la Presenza, chi dell’attesa
ne ha fatto un grembo…allora la solitudine diventa ospitalità: delle storie che
hai vissuto, dei volti che hai incrociato, delle “rabbie” che hai condiviso o
semplicemente accolto, dei “piccoli” che ti hanno messo in crisi e ti hanno
liberato.
O Unico, perché
cercarti nei cieli, quale terra è vuota di te?
O Unico, perché
cercarti dentro una casa, non sei Tu che abiti in me?
O Unico, tu
puoi essere assente, il mio cuore veglia nel ricordo di te.
O Unico, tu
puoi separarti da me, crescerà il desiderio dell’incontro con Te.
O Unico, tu
sei l’Amante, ma io l’amato sono in Te.
O Unico tu sei
il mio Amato, sei Tu l’amore che è in me.
Con te la mia
follia è santità,
la mia
sapienza è stoltezza,
con te la mia
debolezza è forza, la mia povera vita, diventa vita divina. (dalla liturgia di Bose).
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