Il silenzio è davvero denso, hai la percezione anche fisica che ti avvolga, e nelle prime ore della giornata, nella completa solitudine di questi giorni di eremo, accompagna e amplifica ogni piccolo rumore, dal caffè che borbotta mentre risale nella caffettiera, al cucchiaino che immergi nella zuccheriera e poi tintinna nella tazzina, ti soffermi anche ad ascoltare questo, ma più che perdere tempo e perderti, è gustare, assaporare è semplicemente “stare”. Il silenzio è solo una mano tesa, che anticipa o prepara l’ascolto, è la cura dello spazio dove desideri che avvenga un incontro, è il dettaglio necessario e l’essenziale che ti libera da orpelli e “cianfrusaglie mentali”, che potrebbero impedire un dialogo, un incontro, un ospitarsi. Siamo fatti di desiderio, quella spinta interiore che ci sposta e sbilancia oltre il nostro ristretto confine personale, siamo impastati di relazioni, incontri, attese e pretese, siamo abitati da tensioni e conflitti, da perdoni ricevuti e carezze salutari, siamo legati ad uno sguardo che ci riconosca e ci ospiti in altri vissuti, siamo anche cercatori e nomadi, in attesa di approdare in terre ospitali dove poter incrociare l’abbraccio gratuito e non quello soffocante.
Siamo plasmati dalle relazioni e dalle dinamiche della reciprocità, allo stesso tempo siamo anche messi a rischio dai vortici e dagli invischiamenti che si possono generare nell’inevitabile interdipendenza. Il silenzio e un tempo di solitudine, è davvero quell’esodo che si dovrebbe affrontare con coraggio, è il decidersi di entrare nel deserto, di lasciarsi denudare, scarnificare, di rischiare l’essenzialità, di sentire la sete e riconoscere il pozzo dove dissetarsi. Per quarant’anni Israele fu nomade nel deserto, mormorò, imprecò, si costruì l’idea di essere libero legandola al ricordo e al rimpianto del tempo della schiavitù, preferì chiamare benessere, la dipendenza e lo sfruttamento, barattato per un piatto abbondante di cipolle. E la storia si ripete, con l’aggiunta di nuove sofisticazioni. L’idolo per la Bibbia è ciò che ti fa sentire libero, vincolandoti e stringendoti a sé. Un inganno non da poco, difficile da consapevolizzare, perché troviamo il paradiso, come direbbe Lacan, “in striscioline di godimenti”. Interessante, il Dio della Bibbia non promette striscioline di godimento, invita ad affrontare il lungo percorso del deserto, ad addentrarsi nella perdita di sé e delle sicurezze ingannevoli, camminerà con te non a posto tuo, compromettendosi lungo il cammino, rischiando anche del suo: essere messo in discussione e rifiutato.
Questo è anche il motivo per cui ho scelto di salire in eremo per un tempo prolungato. Non è il nido caldo, la tana per ripararsi dalle intemperie e dai pericoli, nemmeno il nascondiglio che ti salva dagli sguardi indesiderati e dalle situazioni moleste, ancor meno è “un muro di cinta”; piuttosto è “il cedimento necessario”. “la breccia nel muro”, “la mancanza di certezze”. Si viene in eremo perché senti un briciolo e uno scampolo di fiducia in Lui e sai che la fatica di entrare ed abitare sé stessi e la propria storia, è possibile farla in compagnia, ma mai verrà fatta a posto tuo.
A distanza di due settimane, incomincio ad accorgermi di come le “parole” hanno un sapore e uno spessore differente, è il frutto del silenzio e del tempo dedicato all’ascolto; ogni singola parola che leggi o pronunci nel cuore della preghiera, risuona e riverbera in profondità, diventano il luogo e il riflesso di un dialogo, senti che sono necessarie per dare forma e vita alla relazione che stai cercando e che stai vivendo. Le parole allora le ricerchi, le attendi prima di pronunciarle, le lasci decantare e le trattieni un po’ prima di lasciale andare. Esse hanno anche dell’incompiuto, perché alcune non bastano, altre sono insufficienti, altre ancora non sono adatte per dire quello che senti; ecco perché ogni singola parola ha bisogno di un corrispettivo silenzio, perché è quest’ultimo che accompagna e aggiunge quella parte di significato e di senso che altrimenti non raggiungeresti. Le parole aprono, bloccano, vincolano o lasciano andare; le parole fanno esistere, portano lo sguardo su un aspetto o lo distolgono da un altro; le parole costruisco passo dopo passo vicinanze, e posso scavare lontananze abissali; fanno fiorire o seccare di colpo. Le parole ti permettono di dare senso o di togliere importanza alla stessa identica esperienza, persona o relazione: la parola è nostra e ha in sé il “poter generare” o lo “strapotere di de-generare”. La parola serve per comunicare, ci mette nella condizione di essere prossimi e dirimpettai di altri, quindi dice chi siamo.
Il silenzio di
Dio è invece quella parola indefinita e non vincolante, che viene pronunciata
come “una sottile voce leggera” (cfr. 1 Re 19, 12.), che prima ancora di
intercettarti, è spazio di accoglienza incondizionata, è attesa, è grembo e
presenza che allarga i confini dell’intimità. La parola che Dio sussurra
nell’incontro della preghiera silenziosa e scarna non è mai violenta, anche se
la sperimenti come decisa e chiara, è come una “mano” che senti di voler
afferrare, perché ti conduce in profondità e ti permette di attraversare il
deserto appunto, con l’unico “mezzo” possibile: la fiducia che ti ispira e la
fedeltà che mai è venuta meno in questi anni.
Ecco allora
che questo tempo di solitudine non è altro che entrare a fondo nel proprio
vissuto quotidiano: non puoi fare a meno di rileggere le relazioni, di riconoscere
le fatiche, di prendere responsabilità verso le parole che hai pronunciato o
scelto codardamente di non dire, di
quelle che ti sono servite come corazze o pietre da scagliare; ma senti anche di
accogliere quelle che hanno segnato in bene la tua vita, che hanno costruito
amicizie e fraternità, che ti hanno liberato, fatto crescere e appassionato, le
parole che non sapevi dire e che ti sono state consegnate.
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