lunedì 6 maggio 2013

Contemplare con i piedi o contemplare i piedi?


La notizia che è stato creato un ministero per l’integrazione, guidato e affidato alla competenza di un ministro donna di origine congolese, ha scatenato reazioni e commenti di contenuto talmente basso e privo di livello minimo d’intelligenza e coscienza della realtà, che ci permette di prendere consapevolezza di quanto l’attuale contesto culturale italiano sia in questo momento fuori dal quadro internazionale,  fermo ad un provincialismo incapace di cambiamento e privo di  strumenti efficaci per interagire con quella che è la dimensione multiculturale di molte nazioni; la globalizzazione, la migrazione dei popoli e delle culture, la capacità di essere interconnessi da una parte all’altra del globo con un semplice clik, ha dato il via ad un processo di meticciamento inarrestabile, essere fuori da questo meccanismo, continuare ad arroccarsi dietro alle battaglie di difesa di un  identità culturale, non è  altro che il segno di un’ incapacità nell’affrontare sia i cambiamenti che l’evoluzione naturale della storia . Leggevo e ascoltavo per radio in questi giorni come è aumentato il numero dei giovani che hanno ripreso ad emigrare fuori dall’Italia, in cerca di possibilità lavorative e di vita, anche loro si uniranno alle migliaia di giovani che nel nostro paese sono arrivati con le stesse speranze e le stesse fatiche, sia gli uni che gli altri, saranno elementi di cambiamento nei contesti che abiteranno e che abitano. Come più volte ho scritto e condiviso, il mio contesto di vita attuale è un micro cosmo interculturale, dove in uno spazio non eccessivamente grande, si intrecciano culture, lingue, tradizioni, religioni, speranze, cambiamenti, disagio sociale, malavita e…quotidianità. I bambini della scuola del quartiere, interagiscono tra loro con naturalezza, sono abituati alle diversità linguistiche, a casa la lingua dei genitori e a scuola l’italiano, molti di loro sono nati qui e questa è la realtà che conoscono e dove lentamente crescono, una realtà molto diversa da quella dei loro genitore, ma anche molto diversa da quella che abbiamo conosciuto noi nella nostra infanzia. Un giorno dal mio balcone ho osservato la naturalezza con cui una ragazza cinese scherzava con l’amica indiana, mentre tornavano a casa dopo la scuola, loro sanno vivere insieme fin tanto che noi adulti non li travolgiamo con le nostre paure, i nostri pregiudizi e le nostre rigidità culturali. Qualche anno fa una mamma africana raccontava alle maestre come nel primo viaggio in africa della propria figlia, che era nata in Italia, abbia dovuto portare con se la pasta perché la bambina non riusciva a mangiare sempre il cibo tradizionale e dopo  una settimana lì, la bambina ha esclamato:   “- ma qui sono tutti neri?”, mentre noi continuiamo a scandalizzarci e strapparci le vesti per un ministro italiano d’origine congolese, le nuove generazioni hanno già fatto il salto in avanti.

Per alcuni aspetti quest’ambiente è una frontiera, una zona di rottura e fratture, d’incontri faticosi, conflittuali e allo stesso tempo è lo spazio della novità, del cambiamento, della società che modifica se stessa e gli individui, delle culture che si mescolano, ma soprattutto è il luogo in cui le nuove generazioni, con il loro meticciamento, rendono visibile il futuro. E’ qui che il Vangelo mi spinge a mettere radici, è qui che prende forza l’indicazione che Gesù risorto da ai suoi discepoli, quando dice loro “vi precederò in Galilea”, la Galilea delle genti. E’ in luoghi e contesti come questi che sento la necessità di vivere in silenzio nelle relazioni quotidiane, per essere testimone del cambiamento  possibile, per esercitare lo sguardo e scorgere i segni dei tempi, ossia fatti, persone, incontri che indicano profeticamente la direzione che porterà benessere e pienezza di vita per tutti. In questo mese riscopro il senso anche della scelta della vita contemplativa, che è elemento essenziale della spiritualità di nazareth, contemplativi in questi contesti sociali significa essenzialmente saper guardare e riconoscere la vita, vuol dire abitare anche i conflitti e le fatiche e in essi scorgere la novità che ogni crisi genera. Essere contemplativo nel cuore del quartiere mi spinge a non semplificare la realtà, a non spiritualizzarla, il cuore a cuore con Dio diventa esperienza profonda e concreta nel momento in cui i piedi sono ben piantati per terra e le mani raggiungono liberamente l’altro lì dove è. 

Oltre al bello e alle speranze che i bambini e i ragazzi del quartiere mostrano nella loro spontaneità, vedo anche la violenza, il degrado che alcune persone vivono, le fatiche delle donne immigrate, anche questi sono luoghi da abitare nel silenzio.



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