domenica 12 maggio 2013

Una lingua per giocare e una per litigare


Pomeriggio assolato, splendido, i colori risaltano, i palazzi non certo frutto di ricerche architettoniche particolarmente ispirate al bello, sembrano quasi assumere un aspetto più colorato, ma al solito sono i bambini e le persone che escono come formichine nei giardini pubblici, a rendere l’ambiente sicuramente più piacevole e vivace. Mentre cerco la motivazione per studiare o forse sarebbe più esatto dire, mentre mi forzo nello studio in vista di un prossimo esame, sono colpito dalle voci fragorose dei bambini sotto casa, stranamente tutti parlano italiano, non resisto è sicuramente un buon motivo per interrompere lo studio di Leopardi e verificare se quei bambini li conosco. Nel piccolo cortile antistante, un nutrito gruppo di bambini di famiglie cinesi, lo hanno invaso o occupato abusivamente scavalcando la recinsione, li conosco quasi tutti, sono un gruppo misto di maschietti e femmine, improvvisano e organizzano una partita di pallone, tutti parlano un buon italiano ed il gioco si svolge con le regole concordate in italiano. Come i ogni gioco sano che si rispetti arriva anche il momento della contrapposizione e del conflitto, il più piccolo  viene escluso o manipolato per ottenere una facile vittoria, immancabile è il piano del mal capitato, ed ecco che cambia la lingua della comunicazione, i sentimenti più forti, viscerali, le emozioni della rabbia e della tristezza, come anche la ribellione per un ingiustizia subita, vengono immediatamente espressi nella propria lingua madre: il cinese.
Quando le emozioni che proviamo sono forti, quando è l’istinto che prevale sui nostri comportamenti, quando sentiamo che dobbiamo difenderci, allora i tanti modi per esprimere quello che sentiamo è ben sintetizzato  nell’unico idioma che non incontra nessuno sforzo nell ‘uscire dalla nostra bocca, è la lingua madre. Le espressioni linguistiche che con maggior efficacia esprimono la nostra identità, che sanno dare voce alla nostra intimità, che sembrano nate con noi, sono le espressione della lingua che ci è stata trasmessa da nostra madre. Quando ero in  Francia e ho avuto dei colloqui con un psicologo per meglio rielaborare l’esperienza che stavo facendo in fraternità e superare alcuni momenti di difficoltà che stavo vivendo, ricordo molto bene come per esprimere gli aspetti più intimi di me, incominciavo inconsapevolmente  a parlare in dialetto e mi accorgevo del cambio della lingua solo dall’espressione smarrita dello psicologo, che fino a quel momento mi aveva sentito parlare in francese.
Osservando ancora dal mio piccolo balcone, scorgo nel grande prato vicino casa che altri bambini hanno invaso lo spazio e il pallone li ha aggregati immediatamente, anche in questo caso li conosco quasi tutti, sono albanesi, nigeriani, ivoriani e pachistani, li sento ridere e scherzare in italiano, un buon italiano. Osservo tutto questo e resto in silenzio perché come adulto ho desiderio di nutrirmi di questa ricchezza,di lasciarmi contagiare da questa realtà,  che supera enormemente il nostro mondo di adulti. Ieri pomeriggio il comune ha organizzato una festa interculturale, al solito musica e cibo che vengono messi uno al fianco dell’altro, con l’illusione di operare per l’intercultura, ma in realtà noi adulti non siamo così capaci e flessibili a lasciare le nostre rigidità e i nostri etnocentrismi , per questo  tutto resta “fianco a fianco”, ma nulla si compenetra; conosco diverse persone, molte sono del quartiere, il mio amico pachistano mi ha invitato a partecipare, lui cerca veramente di mettersi al servizio di tutti, e con un italiano compromesso  dall’emozione, dice una frase a mio parere la più provocatoria di tutta l’iniziativa: i nostri figli sono qui, tutti insieme, noi dobbiamo aiutarli a vivere insieme sempre; so di questa sua convinzione perché ne abbiamo parlato spesso, ma poi basta poco per verificare che è autentico, poco sotto suo figlio è seduto e parla con estrema confidenza con un suo amico cinese, anche loro parlano correttamente italiano, scherzano in italiano e appena si accorgono di me mi salutano e dai loro sorriso percepisco che sono contenti di vedermi li, ci tengono a ricordarmi i laboratori che hanno fatto con me  a scuola, entrambi sono in Italia da quando erano molto piccoli per questo il loro italiano non ha nemmeno un inflessione dialettale o accento straniero.

Mentre i grandi sgomitavano per presentare al meglio la loro cultura ed è comprensibilissimo, i più giovani nella loro spontaneità e naturalezza mostravano silenziosamente, ma efficacemente che il cambiamento è già in atto.

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