Lo spazio della cappellina che ho creato nel mio appartamento
è volutamente piccola ed essenziale, mi piace che anche nella sua forma,
accompagni la mia ricerca di silenzio e di intimità con Dio in questo contesto ben preciso e
caratterizzato dalle sfumature culturali e religiose le più diverse;
dall’inizio della mia esperienza con i piccoli fratelli del Vangelo ho
acquisito questa sensibilità e questa priorità, di avere cioè un luogo nella
casa che sia adibito alla preghiera; Charles de Foucauld ne faceva il centro
del suo eremitaggio e il punto di partenza per dare senso ad ogni relazione che
costruiva con i vicini, mi ha sempre colpito e provocato allo stesso tempo,
questa sua ricerca del silenzio e del cuore a cuore con Dio come fonte del suo
saper stare con gli altri, come grembo che genera l’incontro tra diversità, era
l’unico cristiano in un contesto culturale e religioso completamente differente
dal suo.
K., il ragazzo
indiano che conosco, invitandomi un giorno nel suo appartamento, mi ha mostrato
la sua stanza e mi ha detto che lì lui pregava, nella parete sopra il letto
campeggiava una grande immagine di una divinità induista, è incredibile come in
questo palazzo ci sia veramente di tutto: la mia cappellina, la preghiera
induista di K. le famiglie musulmane dei pachistani, le ragazze che vengono
fatte prostituire, il vicino travestito, i canti pentecostali ad alto volume
della famiglia nigeriana e tanto altro che probabilmente ancora non conosco; comprendo
perfettamente quando nella Bibbia si legge: “… si chiamò Babele, perché là il
Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su
tutta la terra”
Gen 11,9.
L’incontro è possibile anche con questa diversità così evidente e distante? Posso lasciarmi contaminare da mondi e realtà umane le più disparate e anche in conflitto tra loro, senza disperdermi? Istintivamente risponderei subito di “sì”, ma è rischioso in quanto posso cadere nella trappola del buonismo e dell’esotismo, ossia l’esaltazione esasperata e sovrastimata del differente da sé, che poi altro non è che un etnocentrismo al contrario, preferisco provare a starci in questo condominio babele e prima di tutto “starci in silenzio”, contemplando questa diversità abitata e voluta di Lui. Il quotidiano mi offre subito uno spunto interessante, anzi un esempio concreto, che ha un nome ben preciso: Kazumì, è una delle prime persone che ho conosciuto a Porto Sant’Elpidio è di origine giapponese e da 31 anni vive qui in Italia, ha coniugato con la fantasia e la precisione di un artigiano la sua cultura di origine con quella del paese che l’ha ospitata, il suo è stato un decentramento culturale non semplice, sperimentato in un momento storico durante il quale l’immigrazione era ancora sconosciuta in Italia, per questo, come racconta spesso, la sua diversità era visibile, troppo visibile. Con lei e forse grazie a lei e alle sue attenzioni, sono andato a visitare una famiglia egiziana, perché come mi dice spesso Kazumì, occorre sostenere, incoraggiare e incontrare concretamente le persone che vivono la fatica dell’inserimento. La delicatezza e la concretezza con cui questa donna giapponese ha incontrato, ascoltato e individuato immediatamente il vissuto della donna egiziana, è stato l’esempio più concreto di come le diversità possono generare percorsi d’incontro non banali, ma reali, di come l’uniformità non è necessaria per il dialogo e di come soprattutto il riconoscersi un po’ nella storia e nel vissuto dell’altro, questo si, permette un ritrovarsi nell’appartenenza comune: quella umana. Sono ben consapevole che esistono situazioni in cui la conflittualità è ben più difficile da vivere, il quotidiano mi mostra anche il suo lato più violento, le tinte forti del disprezzo e del pregiudizio, dell’arroganza frutto di un sentimento presunto di superiorità, atteggiamenti questi che non sono estranei a nessuna cultura e a nessuna religione, pur consapevole di questo, non voglio togliere lo sguardo però dalla delicatezza di Kazumì e dalla sua capacità di saper incontrare nel quotidiano le persone, riconoscendo sempre una qualità positiva nell’altro.
Gen 11,9.
L’incontro è possibile anche con questa diversità così evidente e distante? Posso lasciarmi contaminare da mondi e realtà umane le più disparate e anche in conflitto tra loro, senza disperdermi? Istintivamente risponderei subito di “sì”, ma è rischioso in quanto posso cadere nella trappola del buonismo e dell’esotismo, ossia l’esaltazione esasperata e sovrastimata del differente da sé, che poi altro non è che un etnocentrismo al contrario, preferisco provare a starci in questo condominio babele e prima di tutto “starci in silenzio”, contemplando questa diversità abitata e voluta di Lui. Il quotidiano mi offre subito uno spunto interessante, anzi un esempio concreto, che ha un nome ben preciso: Kazumì, è una delle prime persone che ho conosciuto a Porto Sant’Elpidio è di origine giapponese e da 31 anni vive qui in Italia, ha coniugato con la fantasia e la precisione di un artigiano la sua cultura di origine con quella del paese che l’ha ospitata, il suo è stato un decentramento culturale non semplice, sperimentato in un momento storico durante il quale l’immigrazione era ancora sconosciuta in Italia, per questo, come racconta spesso, la sua diversità era visibile, troppo visibile. Con lei e forse grazie a lei e alle sue attenzioni, sono andato a visitare una famiglia egiziana, perché come mi dice spesso Kazumì, occorre sostenere, incoraggiare e incontrare concretamente le persone che vivono la fatica dell’inserimento. La delicatezza e la concretezza con cui questa donna giapponese ha incontrato, ascoltato e individuato immediatamente il vissuto della donna egiziana, è stato l’esempio più concreto di come le diversità possono generare percorsi d’incontro non banali, ma reali, di come l’uniformità non è necessaria per il dialogo e di come soprattutto il riconoscersi un po’ nella storia e nel vissuto dell’altro, questo si, permette un ritrovarsi nell’appartenenza comune: quella umana. Sono ben consapevole che esistono situazioni in cui la conflittualità è ben più difficile da vivere, il quotidiano mi mostra anche il suo lato più violento, le tinte forti del disprezzo e del pregiudizio, dell’arroganza frutto di un sentimento presunto di superiorità, atteggiamenti questi che non sono estranei a nessuna cultura e a nessuna religione, pur consapevole di questo, non voglio togliere lo sguardo però dalla delicatezza di Kazumì e dalla sua capacità di saper incontrare nel quotidiano le persone, riconoscendo sempre una qualità positiva nell’altro.
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