lunedì 31 marzo 2014

Il fuori asse

Far finta di essere un esperto di macchine e soprattutto intendersi di meccanica non è stata una bella parte da interpretare, il  fatto è che mi sono lanciato ieri pomeriggio in una serie di consigli improbabili, decisamente e palesemente banali su come risolvere un problema di asse delle ruote spostato. Uscendo di casa mi sono incrociato con dei vicini indiani, sono stati loro a fermarmi e coinvolgermi nel loro dialogo, ero di fretta, così non ho posto molta attenzione alle persone stesse, un ciao veloce tanto per mostrarmi educato e socievole, ma questo non ha senso se poi il tempo di fermarsi e attardarsi con qualcuno diventa un peso, fortunatamente loro mi hanno bloccato e costretto ad uno stop, la ruota della loro macchina sembrava storta e fuori asse, vedendomi mi hanno chiesto un consiglio e questo, per chi mi conosce sa benissimo di quanto possa essere stata paradossale la situazione  creatasi. Spesso non importa l’argomento che si utilizza nella conversazione, ciò che ha valore è il tempo che si vive con l’altro, e questo comporta a mio parere un bel cambio di prospettiva, uscire dall’ottica del “tempo perso” o “guadagnato”, da quell’assurda unità di misura che risponde alla domanda “a cosa è servito”, per entrare nella dimensione della relazione gratuita, e dell’incontro dell’altro. Quando ero in Francia nel quartiere dei gitani, i piccoli fratelli mi fecero notare come per i nostri vicini fosse importante soprattutto lo stare insieme e parlare, ciò che  contava era il tempo dedicato e concesso all’ospite, non gli argomenti trattati, che spesso erano anche un po’ surreali, come le storie che mi venivano raccontate; da quell’esperienza ho lentamente appreso a mettermi in ascolto di ciò che è nel sottofondo dei nostri incontri, ad affinare lo sguardo per osservare altre priorità, ho dovuto in qualche maniera anche rendere acuta la mia percezione, per poter mettermi in sintonia con melodie che gli incontri tra persone suonano con tonalità non evidenti al primo ascolto. A distanza di più di 15 anni ho un ricordo molto vivido di Aldo, un anziano gitano che veniva in fraternità e passava ore da noi, veniva anche quando ero da solo, e senza che me ne accorgessi mi ha insegnato a “saper stare”, le sue parole non erano mai a caso, il suo sguardo anche ironico, era ricco di stima e affetto per noi, soprattutto per quelli come me, che erano all’inizio dell’esperienza della fraternità, ho ben impresso il giorno che venne in casa per invitarmi al matrimonio di suo figlio, mi disse: “dovunque andrai, se vuoi venire non devi farti problemi, ti faccio venire a prendere”. Non ero in grado di comprendere il valore di quelle parole e di quell’impegno, ero ancora lontano dalla sua cultura gitana, e quello che conoscevo era troppo in superficie, probabilmente anche lui era consapevole di questa mia ingenuità, ma non si fece problema, mi regalò quello che lui era e la storia antica di un popolo dalle tradizioni radicate e sofferte, mi fece sentire appartenente, usando delicatezza e immediatezza. La mia fu una risposta da “paio” ( un non gitano), e risposi con il mio parametro culturale: “ no non devi scomodarti, magari sarò troppo lontano da qui”. 
Oggi comprendo che lui non si scomodava assolutamente, quello era il mio filtro, il mio orizzonte culturale e personale, Aldo ci teneva a me come a tutti i piccoli fratelli, il suo gesto non era né uno scomodarsi, né un dovere, ma un appartenere alla stessa famiglia. Sono certo che Aldo è uno dei miei formatori inconsapevoli, uno dei tanti che oggi mi permette di vivere questa nuova tappa della mia vita; per vivere come piccolo fratello in questo quartiere prima di tutto è importante che mi libero di tutte quelle domande inutili e forvianti, quali appunto: “ a cosa serve”, “ cosa posso fare”, “ cosa posso portare”, liberarmi dalla dimensione “economica” delle relazioni ed entrare nella gratuità degli sguardi liberati dalle paure reciproche, dai doverismi legati al ruolo e all’immagine perfetta che voglio dare di me, e tuffarmi smisuratamente nella dimensione dell’abbandono. La scelta di Nazareth mi pone principalmente in questa dimensione, è un totale cambio di prospettiva, è una continua semplificazione del cuore, un togliere ciò che è di troppo per restare senza più imbarazzo “nudi” e quindi vulnerabili difronte agli altri, trasformando questa vulnerabilità in “terreno fertile” d’incontro. Non è quello che rappresento e mi costruisco di me come immagine perfetta che mi permetterà l’incontro vero, ma il mio avvicinarmi lento e costante alla mia precarietà, l’accoglienza di una storia che è sempre in evoluzione e mai compiuta, questo mi pone accanto alle persone con cui vivo quotidianamente e mi permetterà nel tempo, di con-dividere l’esistenza e le rispettive esperienze di vita. In quest’ottica comprendo e percepisco quello che Charles de F. ha più volte ribadito per se, ossia il nascondimento, il vivere in mezzo, l’essere “seme gettato”, per alcuni aspetti è un vero e proprio perdersi, e questo oggi disorienta, allo stesso tempo se vissuto e non semplicemente  ragionato, è un percorso di liberazione che mi porta al cuore delle relazioni stesse, al cuore della vita.


Ieri la ruota fuori asse non era il centro della conversazione, ed è stata una fortuna che non ho mai fatto il meccanico.


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