Primavera sul mio balcone |
Uno di loro mi dice che mi ha incontrato a scuola appena arrivato in Italia, mi racconta di come cercava di capire quello che gli dicevo dai gesti e dalle facce che facevo, le quattro parole d’italiano che conosceva le cercava tra le mille che pronunciavo per afferrare il discorso, mi rivela che ha chiesto informazioni su di me anche ad altri, perché non riusciva a ricordarsi dove mi aveva visto. Il suo racconto l’ho vissuto come una forma di accoglienza, quando poi gli ho detto semplicemente che avevo scelto di venire qui, mi ha risposto con un’esclamazione: “ Hai scelto!”, come a dire qui non si sceglie di venire, ci si ritrova per forza quando non si ha alternativa, del resto è un quartiere che ha un marchio e rischi di stampartelo addosso. Ascolto e mi rendo conto che devo ancora fare tanto silenzio, che nonostante i cinque mesi trascorsi qui, ho ancora necessità di essere accompagnato da questa gente per entrare veramente nel cuore di questa realtà, che non è strana, diversa, rara, è semplicemente realtà umana, che le istituzioni e gli eventi hanno ghettizzato e messo ai margini. Mentre parlo con loro, tra me penso che qui non è solo far west, è anche altro, molto altro e non si può semplificare, la complessità è la caratteristica del nostro vivere sociale e le generalizzazioni sono solo degli abbagli che per un breve istante danno l’impressione che si è afferrata la realtà, ma è solo illusione. IL ragazzo del quinto piano Ku. (metto solo le iniziali) mi invita a casa sua e con naturalezza mi mostra le foto della sua famiglia, della sua giovane promessa sposa e della sua religione induista; di colpo sono in un altro mondo, più ascolto e più mi sembra di sentire dentro il senso della mia scelta di piccolo fratello. Il far west è fatto anche di ponti.
Nessun commento:
Posta un commento