lunedì 11 febbraio 2013

Slegati da Dio


Le 6.24 del mattino, in pieno sonno e protetto dal tepore delle coperte, vengo svegliato dall’arrivo di un sms, due minuti per comprendere dove sono e soprattutto che ore sono, poi scopro che è l’insegnante della scuola materna, a tutti dice che è in corso una nevicata magnifica. So bene che oltre me ha svegliato tutte le sue colleghe, il team di lavoro è molto unito quest’anno, la complicità e l’amicizia danno vigore e spessore a quello che si sta realizzando nella scuola, la mitica scuola del nostro quartiere, così anche un sms del genere e a quell’ora, diventa il segno concreto di una relazione non solo di lavoro; sono state queste maestre le prime ad incoraggiare e sostenere il mio inserimento a Lido, con la loro creatività e praticità, hanno organizzato il mio appartamento, la loro è stata una vicinanza molto preziosa. Decido di alzarmi, ormai il sonno è stato interrotto e devo cercare di capire come si evolve la situazione, nel pomeriggio devo recarmi al lavoro, per questo la poesia lascia subito il posto all’ansia: oddio guidare con la neve. Mi faccio coraggio, del resto è sabato e una settimana così lunga e impegnativa termina, avrò modo di prendermi un po’ di riposo, tanti sono stati gli stimoli e le esperienze che si sono susseguite, gli incontri e l’ascolto di tanti vissuti; a scuola in questo momento vengo a contatto non solo con quello che gli adolescenti o i bambini vivono, ma mi permettono di vedere, osservare e ascoltare quello che avviene nel loro ambiente, così sempre di più mi convinco che noi adulti dobbiamo impegnarci in quell’alleanza educativa tra genitori, scuola, educatori, cittadini comuni, per dare ai ragazzi la possibilità di crescere nella loro autonomia.

“Autonomia”, è questa la parola che mi accompagna e impegna i miei pensieri in queste settimane, il banco di prova per tutti, mi accorgo che autonomia è anche la dimensione della fede matura, non concepisco la mia relazione con Dio come dipendenza, come legame assoluto, mi azzardo a dire anche, che faccio sempre molta fatica ad accogliere espressioni come “ che vive senza Dio è infelice”, nella mia esperienza personale ho potuto verificare come,  in alcuni momenti,  le ombre della mia storia e della mia personalità erano completamente coperte da uno spiritualismo che giustificava, modificava la realtà, è un pericolo usare Dio per darci una parvenza di sicurezza e autenticità, mentre basterebbe semplicemente imparare a chiamare per nome quello che noi siamo. Leggo nel Vangelo che Gesù non legava mai a sé nessuno, ma rimandava le persone rigenerate alla vita, nel loro ambiente, perché a loro volta generassero cambiamento, vita, testimoniassero una nuova relazione con Dio; ho ascoltato Arturo Paoli diversi anni fa in un incontro dove affermava con forza che Gesù non cerca discepoli che stanno sotto le sue gonne a dirgli insistentemente: -Gesù ti amo, sono sempre con te. Gesù ci dice, continuava Arturo Paoli, “ecco il mio Vangelo, il mio progetto del Regno, prendilo in mano e va, fallo fruttificare, rendilo vivo”, in effetti, altro che stare sotto le gonne di un potente e rassicurante Dio. “Senza sandali né bisaccia, con una sola tunica, e nemmeno una pietra propria per poter riposare” queste le uniche certezze che Gesù consegna ai discepoli, uomini e donne che siano. Chi si avventurerebbe nella precarietà? Chi si getterebbe in mezzo alla mischia dei nostri tempi, a mani vuote e cuore libero? Chi potrebbe vivere relazioni nuove, autentiche, non possessive, se prima non ha fatto esperienza di un Dio che non lega, che non fa dipendere tutto da sé, che non rende l’uomo un eterno infante, ma lo rende capace di vita?. L’autonomia che sto cercando di accogliere nella mia relazione con Dio, è fatta non di solitudine, né di quel bastare a me stesso, ma è un saper camminare con i miei piedi accanto agli altri, è guardare negli occhi degli altri senza paura, per rispecchiarmi e allo stesso tempo per vedere molto di più, oltre l’io e il tu, ma anche oltre il solo ed esclusivo “noi”. 
Ecco allora un altro aspetto del vivere da piccolo fratello, non legare nessuno a sé, né creare dipendenze, ma riconoscendo  l’originalità dell’altro, saper camminare a fianco come fratello.




3 commenti:

  1. Grazie Amedeo per quanto hai scritto, mi dai modo di leggere in modo diverso quello che mi accade intorno ultimamente...
    Avrei pensato che vivere la propria vocazione "familiare" volesse dire vivere un tempo di consolidamento di basi, di cura delle fondamenta, di assicurazione di tetti sulle proprie e altrui teste. Invece oggi mi trovo a non saper dire dove saremo tra qualche mese e cosa staremo facendo. Non si finisce mai di imparare a leggere "i segni". Grazie ancora per le tue parole.

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  2. In fraternità ho imparato che è importante costruirsi un monaco interiore, poi anche tra le baracche si apprende a vivere la contemplazione...e sopratutto si impara a vivere con gli altri, fino in fondo e senza barriere.In questi anni mi sono convinto che il "monaco interiore" è prima di tutto una buona struttura interna,che non è rigidità ma flessibilità, adattabilità, passione, se c'è questa e si coltiva, allora la precarietà si affronta in piedi, anche le fatiche e le prove inaspettate..non è magia né spiritualismo, è vita nel cuore di Dio. Grazie a te per la tua condivisione

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  3. Ciao Marco, non ti conosco ma mi sento di condividere con te quello che ci hai voluto comunicare. Circa un anno ho perso mio marito e... dopo aver visto il tuo commento su questo blog, sono andata a riprendermi un diario comune su cui lui aveva scritto: "Vivere la propria vocazione è aver capito Dio, il suo progetto d'amore, di salvezza e di gioia". Eh si è proprio così... la nostra vocazione è quella di generare VITA pur se con modalità diverse...siamo tutti nati per vivere con gli altri, siamo tutti chiamati a portare la gioia! Grazie FR

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