Il mio lavoro in questi mesi mi pone spesso a contatto con
le realtà più diverse, le quali mi chiedono tutte indistintamente di ascoltare
senza giudicare, di credere che il “contagio” e la vicinanza non è mai
pericolosa se l’altro è lo spazio della meraviglia, lavorando poi con ragazzi e
bambini mi rendo conto che la relazione per essere efficace, deve passare
attraverso canali comunicativi differenti: prima ancora delle parole, ciò che più conta
sono i gesti, gli sguardi e la presenza. E’ una grande palestra di autenticità,
quella che mi viene offerta, un tempo e uno spazio, dove come adulto, mi gioco
la piena responsabilità di costruire insieme agli altri una comunità che si fa “possibilità”
per tutti senza mai livellare o
appiattire su di un’unica misura o modello. La settimana scorsa inizio un lungo
ed appassionante progetto in una scuola media ( evito per motivi di privacy
riferimenti a nomi e luoghi), mi è stato chiesto di accompagnare nelle
differenti classi coinvolte, i processi relazionali, favorendo quelle che sono
le risorse del gruppo e dei singoli, per poter poi trasformare i conflitti in
possibilità, la comunicazione in relazioni efficaci e le differenze culturali
come dati di fatto che si possono riconoscere, valorizzare e abitare, perché questo
è “già” quello che per molti deve ancora accadere. Prima di entrare in classe
faccio un grande respiro, ascolto come mi sento e quali sono le preoccupazioni
che mi porto dietro, poi incomincio a guardare i ragazzi, osservo, ascolto il
clima della classe, mi interesso a come si muovono, fino a che alla fine,
mettendomi seduto in cerchio con loro
incomincio a sentire dentro che ne vale proprio la pena essere lì, a quel punto
cerco di trovare il mio posto nel loro cerchio invisibile, fatto di relazioni,
pensieri, alleanze che non sempre sono facili da scalfire: un estraneo, uno
fuori dal proprio recinto è sempre meglio tenere a debita distanza. In questi
primi momenti mi gioco molto dell’alleanza con loro, anche se sono degli
adolescenti, hanno il potere di mettere noi adulti completamente fuori gioco. E’
sempre molto interessante scoprire in me che l’imbarazzo o la resistenza che mi
oppongono rischia di portarmi verso l’utilizzo del potere che come adulto posso
mettere in atto, ma sarebbe una difesa contro un'altra difesa. Iniziamo l’attività
con un giro veloce di nomi, ed è la cosa più semplice che posso proporre inizialmente,
serve per allentare le tensioni, ma sovente le cose più semplici sono quelle più
importanti: un ragazzo si presenta con un nome che in realtà non è il suo, la
classe pur sapendolo mantiene talmente la parte che tutto scorre
tranquillamente, fino a che con l’aiuto di un altro adulto si scopre l’inganno,
che poi inganno non è.
Molti bambini o ragazzi cinesi hanno un nome
italiano
che utilizzano quando sono con gli altri, ma con loro è normale, lo diamo per
scontato senza mai porci nessun interrogativo, ci rende la vita più facile
quando dobbiamo chiamarli, quindi va bene, il problema in questo caso e dell’altro
che ha l’obbligo del doppio nome; questa volta la situazione è diversa, il
ragazzo in questione è di un'altra cultura ma non è cinese. Non mi scompongo
molto, anzi prendo la palla al balzo e ci lavoriamo su: mi dice che da tempo ha
scelto per se un nome italiano e che i compagni ne erano consapevoli. Mentre lo
ascolto mi sembra di percepire che quello fosse lo strumento adatto per dire “sono
di questo gruppo”, “mi chiamo come voi e quindi? Che fate?” ( sono mie
verbalizzazioni). Sono molti i ragazzi che utilizzano strategie simili pur di
non sentire il peso della diversità o dell’appartenenza ad una minoranza, che
oltre tutto, in alcuni casi, li ha obbligati a lasciare amici e luoghi
famigliari per andare in un paese altro. Tutto questo è dentro, nascosto,
elaborato in solitudine, negato, qualche volta espresso con la rabbia e l’aggressività,
allora la cosa più semplice è avere due casacche per poter continuare a
giocare, anche se questo non allevia la
fatica di abitare terre di mezzo. Abramo nella Bibbia è chiamato un nomade
errante, Israele nonostante la Terra promessa è stato sempre una minoranza e
straniero in terra straniera, Gesù rompendo gli schemi culturali e religiosi
del suo tempo, ha abitato villaggi e situazioni le più diverse e le più emarginate,
come piccolo fratello mi sento attratto dalla stessa dinamica di Dio che queste
terre di mezzo le abita, con smisurato silenzio e le vuole trasformare dicendo
con forza “ che ogni casacca, tutte le casacche sono degne”, nessuno deve
essere obbligato a rinnegare la sua, per trovare la piena cittadinanza in
questo mondo.
Non è forse questo il senso del Regno di Dio che Gesù con tanta passione ha gridato?
Non è forse questo il senso del Regno di Dio che Gesù con tanta passione ha gridato?
La doppia casacca, la mettiamo anche noi adulti per svariati motivi!!! Questo mi fa molto riflettere sul senso della nostra autenticità. Micaela
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