Lo sapevo molto bene che passato il periodo natalizio,
sarebbe iniziato per me un tempo carico d’impegni, oltre al lavoro in comunità
d’accoglienza, iniziavano i progetti nelle scuole, gli incontri di formazione e
gli esami dell’università, che sono lì come un impegno che diventa sempre più
pesante; ogni sera guardo da lontano la mia agenda e ho una certa esitazione
nell’aprirla, consapevole del fatto che il giorno seguente è carico d’impegni.
Non mi voglio comunque lamentare, in un tempo di crisi come quello che stiamo
vivendo, mi reputo molto fortunato perché ho la possibilità di fare un lavoro
che mi piace, per cui ho speso tempo e denaro per la formazione e soprattutto
perché mi permette di essere in contatto con molte persone e realtà: il mio
lavoro si sposa benissimo con la mia scelta di vita.
Rientrando a scuola e prendendo contatto con le differenti
situazioni dei bambini, ho la possibilità di vedere da vicino le situazioni più diverse, dove si può toccare con mano
quello che la crisi produce: l’incertezza e la precarietà. Non è difficile
constatare che le famiglie fanno fatica a mantenere uno stile di vita che fino
ad ora era nelle loro possibilità, grazie ad un ingresso economico garantito
dal lavoro almeno di un genitore, oggi non è più così, mi è successo più volte
di sentir dire che il genitore di questo o quel bambino non lavora più. La
precarietà si aggiunge a precarietà. Molte famiglie non hanno mai avuto un
tenore di vita elevatissimo, i soldi che entrano sono spesso utilizzati per
mantenersi qui in Italia, per dare un futuro migliore per i propri figli e per
sostenere i parenti rimasti nel paese d’origine; non credo sia semplice reggere
una responsabilità e un peso del genere e rispondere a così tante e diverse
aspettative. Questa vita in salita ormai coinvolge tutti, le difficoltà che
stiamo vivendo non fanno distinzione di cultura o provenienza. C’è comunque una
debolezza, una fragilità, un “tallone d’Achille” che ci rende ancora più
vulnerabili e che almeno, per quanto mi riguarda, non mi fa intravedere una via
d’uscita o di speranza rispetto a quello che viviamo: è l’individualismo.
Ho l’impressione che non siamo più capaci di pensarci
“insieme”, la parola società, o comunità, ha perso valore, significato, ancor
meno l’espressione “responsabilità condivisa” ; tutto si gioca nello spazio
ristretto della propria cerchia, del proprio ambiente, anzi direi meglio del
proprio bisogno. Senza esserci resi
conto, è entrata nella nostra cultura un elemento che credo abbiamo ben
interiorizzato e integrato, ossia “il privato”; tutto è privato, le scelte sono
private, i progetti sono privati, le esperienze sono private, anzi come si dice
spesso, le esperienze sono individuali, tutto quello che una persona compie o
sceglie nella propria vita, si pensa che non abbia nessuna ricaduta o interesse
per il resto della comunità degli uomini. Quest’atteggiamento di fondo può
aprire nuove prospettive, farci trovare soluzioni comune e condivise?
Sono certo che anche noi cristiani cattolici, con il nostro
impegno a salvare l’anima abbiamo rafforzato questa mentalità, convinti di
annunciare il Vangelo ancora oggi, proponiamo spesso pratiche religiose che
portano al bene e alla salvezza dell’individuo, dimenticando completamente e
scandalosamente che l’unica Buona Notizia di Gesù è stata quella dell’avvento
del Regno di Dio, “Gesù non si dedica ad
esporre ai contadini e ai pescatori nuove norme o leggi morali, annuncia loro
una notizia: Dio è già qui e si prefigge una vita più felice per tutti,
dobbiamo cambiare il nostro sguardo e il nostro cuore. Il suo scopo non è
fornire a quegli abitanti un codice morale più perfetto, bensì aiutarli ad
intuire com’è e come agisce Dio e come saranno il mondo e la vita se tutti
agiranno come Lui” (J.A Pagola “Gesù un approccio storico”, Borla), non si
tratta quindi di assicurarsi un posto in prima fila in Paradiso, quanto
appassionarsi e responsabilizzarsi nella trasformazione della storia qui ed
ora, nell’umanità di cui siamo parte integrante e in cui Dio ha scelto di
incarnarsi. Più leggo il Vangelo più vado in crisi, più faccio risuonare nel
silenzio la Sua Parola in questo contesto sociale ben preciso, più mi accorgo
che ogni mio gesto, ogni mia scelta non ha senso se solo risponde ad un mio
bisogno: questo “nazareth” mi provoca e mi dice che qui non sono un privato
cittadino, allora la mia fede si scardina, il Vangelo si scompagina, la mia
appartenenza alla comunità cristiana non è più un nido sicuro, anche il mio
essere da solo qui mi pone qualche domanda. Sarà anche scomodo tutto questo,
eppure mi appassiona e mi da speranza, mi spinge a superare tutte le mie paure
e reticenze, mi obbliga ad uscire fuori e creare relazioni, mi invita a con-
promettermi.
A scuola incontro la bimba nigeriana del secondo piano, le
dico che non l’ho più vista nel palazzo,
lei mi guarda, mi sorride e mi risponde:_ io si, tante volte.
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