mercoledì 16 gennaio 2013

Chi fa per sè...


Lo sapevo molto bene che passato il periodo natalizio, sarebbe iniziato per me un tempo carico d’impegni, oltre al lavoro in comunità d’accoglienza, iniziavano i progetti nelle scuole, gli incontri di formazione e gli esami dell’università, che sono lì come un impegno che diventa sempre più pesante; ogni sera guardo da lontano la mia agenda e ho una certa esitazione nell’aprirla, consapevole del fatto che il giorno seguente è carico d’impegni. Non mi voglio comunque lamentare, in un tempo di crisi come quello che stiamo vivendo, mi reputo molto fortunato perché ho la possibilità di fare un lavoro che mi piace, per cui ho speso tempo e denaro per la formazione e soprattutto perché mi permette di essere in contatto con molte persone e realtà: il mio lavoro si sposa benissimo con la mia scelta di vita.
Rientrando a scuola e prendendo contatto con le differenti situazioni dei bambini, ho la possibilità di vedere da vicino le situazioni  più diverse, dove si può toccare con mano quello che la crisi produce: l’incertezza e la precarietà. Non è difficile constatare che le famiglie fanno fatica a mantenere uno stile di vita che fino ad ora era nelle loro possibilità, grazie ad un ingresso economico garantito dal lavoro almeno di un genitore, oggi non è più così, mi è successo più volte di sentir dire che il genitore di questo o quel bambino non lavora più. La precarietà si aggiunge a precarietà. Molte famiglie non hanno mai avuto un tenore di vita elevatissimo, i soldi che entrano sono spesso utilizzati per mantenersi qui in Italia, per dare un futuro migliore per i propri figli e per sostenere i parenti rimasti nel paese d’origine; non credo sia semplice reggere una responsabilità e un peso del genere e rispondere a così tante e diverse aspettative. Questa vita in salita ormai coinvolge tutti, le difficoltà che stiamo vivendo non fanno distinzione di cultura o provenienza. C’è comunque una debolezza, una fragilità, un “tallone d’Achille” che ci rende ancora più vulnerabili e che almeno, per quanto mi riguarda, non mi fa intravedere una via d’uscita o di speranza rispetto a quello che viviamo: è l’individualismo.
Ho l’impressione che non siamo più capaci di pensarci “insieme”, la parola società, o comunità, ha perso valore, significato, ancor meno l’espressione “responsabilità condivisa” ; tutto si gioca nello spazio ristretto della propria cerchia, del proprio ambiente, anzi direi meglio del proprio bisogno.  Senza esserci resi conto, è entrata nella nostra cultura un elemento che credo abbiamo ben interiorizzato e integrato, ossia “il privato”; tutto è privato, le scelte sono private, i progetti sono privati, le esperienze sono private, anzi come si dice spesso, le esperienze sono individuali, tutto quello che una persona compie o sceglie nella propria vita, si pensa che non abbia nessuna ricaduta o interesse per il resto della comunità degli uomini. Quest’atteggiamento di fondo può aprire nuove prospettive, farci trovare soluzioni comune e condivise?
Sono certo che anche noi cristiani cattolici, con il nostro impegno a salvare l’anima abbiamo rafforzato questa mentalità, convinti di annunciare il Vangelo ancora oggi, proponiamo spesso pratiche religiose che portano al bene e alla salvezza dell’individuo, dimenticando completamente e scandalosamente che l’unica Buona Notizia di Gesù è stata quella dell’avvento del Regno di Dio, “Gesù non si dedica ad esporre ai contadini e ai pescatori nuove norme o leggi morali, annuncia loro una notizia: Dio è già qui e si prefigge una vita più felice per tutti, dobbiamo cambiare il nostro sguardo e il nostro cuore. Il suo scopo non è fornire a quegli abitanti un codice morale più perfetto, bensì aiutarli ad intuire com’è e come agisce Dio e come saranno il mondo e la vita se tutti agiranno come Lui” (J.A Pagola “Gesù un approccio storico”, Borla), non si tratta quindi di assicurarsi un posto in prima fila in Paradiso, quanto appassionarsi e responsabilizzarsi nella trasformazione della storia qui ed ora, nell’umanità di cui siamo parte integrante e in cui Dio ha scelto di incarnarsi. Più leggo il Vangelo più vado in crisi, più faccio risuonare nel silenzio la Sua Parola in questo contesto sociale ben preciso, più mi accorgo che ogni mio gesto, ogni mia scelta non ha senso se solo risponde ad un mio bisogno: questo “nazareth” mi provoca e mi dice che qui non sono un privato cittadino, allora la mia fede si scardina, il Vangelo si scompagina, la mia appartenenza alla comunità cristiana non è più un nido sicuro, anche il mio essere da solo qui mi pone qualche domanda. Sarà anche scomodo tutto questo, eppure mi appassiona e mi da speranza, mi spinge a superare tutte le mie paure e reticenze, mi obbliga ad uscire fuori e creare relazioni, mi invita a con- promettermi.

A scuola incontro la bimba nigeriana del secondo piano, le dico che non l’ho più  vista nel palazzo, lei mi guarda, mi sorride e mi risponde:_ io si, tante volte. 









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