“Conoscersi, osare, decidere” questo il titolo di un
minuscolo libricino, a firma di Luciano Manicardi, che ho trovato nella
libreria della fraternità di Bose ad Assisi, chiaramente la mia attenzione è
stata subito rapita da queste tre parole che risuonavano in maniera forte in me
con un eco profondo, insieme al piacere di aver trovato le parole giuste per
esprimere i pensieri che sono miei compagni di viaggio da un po’ di settimane.
Agisco d’istinto e quasi dò retta al mio desiderio di leggerlo all’istante, lì
in piedi, tra altri libri, marmellate e oggetti di artigianato prodotti dai
monaci; è la fretta di sempre, quella che rende inutile ogni buon proposito di
prendersi sul serio e di dare ascolto in profondità alle domande che emergono e
vengono fecondate dal proprio quotidiano, è quella fretta frutto dell’impazienza
e del non saper accettare la fatica delle parti scomode di sé, del conoscersi,
dell’osare e del decidere. La fretta non è il modo migliore per rispondere
seriamente alle questioni più profonde che il nostro vivere e le nostre scelte
inevitabilmente ci propongono, credo e ne sono sempre più certo, che vale la
pena saper restare dentro la propria fatica e non cercare necessariamente il “paradiso
perduto”, perché di perduto non c’è proprio nulla: ascoltando senza timore e in
autenticità le nostre fatiche, si scopre che in ogni crisi c’è un passo in
avanti da compiere, e una possibilità di svelarsi a sé stessi che non può che
generare vita.
Non è sempre facile per me accogliere l’evoluzione della mia
storia personale e della mia scelta, soprattutto vivendo da solo in un contesto
fortemente popolare, spesso mi trovo di fronte a situazioni di fatica, di
sofferenza che inevitabilmente mi toccano, del resto sia il mio lavoro che il
quotidiano non mi permettono assolutamente di camminare con gli occhi
completamente chiusi; certo possiamo ovunque e in ogni momento farci scivolare
tutto addosso, chiudere la porta della nostra coscienza e con motivazioni anche
serie e incontestabili, evitare che il nostro spazio personale risenta della
storia e delle situazioni degli altri. Credo che questo sia possibile e anche
lecito, ma si tratta più che altro di una questione di scelta personale, e ogni
scelta ben consapevole porta con sé mille sfumature di ricchezza e di fatica.
Io ho scelto di essere presente nei contesti quotidiani più popolari e di
povertà, perché la storia delle donne e degli uomini con cui condivido tempo,
spazio e quotidiano mi interessa, l’appartenenza a questa umanità e la
condivisione di vita trova il suo significato più profondo nella reciprocità,
scoperta come elemento fondante del mio essere creatura ed essenzialmente creatura
sociale. Probabilmente nelle ultime settimane ho fatto risuonare in me tante “parole”,
tanti “atteggiamenti”, tante “storie” appartenenti ad altri, ed esse non hanno
fatto altro che diventare specchio delle
mie parole, dei mie atteggiamenti e della mia storia. Divenendo specchio gli
uni degli altri, diventiamo anche “possibilità
e provocazione”, gli uni per gli altri. Spesso sono le persone con cui entriamo
in relazione a mettere in luce parti nascoste di noi, protette per paure che
noi stessi per primi ne prendiamo atto. Scopro nel mio caso specifico, un
elemento in più che fa da cassa di risonanza: non dover far nulla in questo
contesto. Il “fare” o l’attivismo spesso piò diventare il modo migliore e nobile
per nascondere le insicurezze, e come scrive Manicardi, “la relazione con l’altro, così come la
comunicazione, è un rischio. L’altro mi mette in crisi, in discussione, la
tentazione costante è di fuggire questo rischio con l’attivismo”. Anche se ho
scelto la vita di Nazareth che mi pone nel cuore del quotidiano in silenzio e
come presenza discreta, la nostalgia del fare ed essere riconosciuto per il
saper fare, è sempre presente e viva.
Non si tratta di rinunciare alla responsabilità di operare per
il cambiamento, al contrario più sono presente qui, più mi accorgo di quanto
sarebbe importante agire per far emergere risorse e possibilità di cambiamento,
e in questa direzione mi sto muovendo, sento di volermi compromettere, ma ciò
che scopro come questione di fondo e di senso, è il motivo per cui ci si mette
in azione: per sé, per gli altri o insieme agli altri?. Per me questa sera le
domande restano aperte, e non ho nessuna intenzione di chiuderle, così come
resta forte la provocazione del mio oggi: restare da solo qui o sperare in una
vita comune per potare avanti altre possibilità?. C’è ad ogni modo una piccola
certezza: il valore del silenzio; questo passaggio, questo tempo di crisi trova
nel silenzio la sua stanza nuziale, il luogo fisico al riparo dalle parole inutili, il tempo impercettibile dove
avviene la fecondazione di un nuovo passaggio, di una nuova decisione , di un
nuovo abbandono.
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