martedì 24 dicembre 2024

La luce del primo mattino - Natale 2024

 


La “luce del primo mattino” arriva senza far rumore né annunciando sé stessa, si palesa all’insaputa di chi, immerso nel sonno ancora profondo, non può sapere ciò che accade. La “luce del primo mattino” è in solitaria che evolve e prende vigore, che agisce e rischiara. La “luce del primo mattino” non puoi afferrarla, la puoi solo trovare riflessa in tutto quello che lei non è, ma illumina; rende presente, ma non sé stessa; accarezza tutto ciò che esiste e diventando un tutt’uno, lei scivola in secondo piano. La “luce del primo mattino” è una solitudine, una mancanza, una nostalgia che cerca qualcuno su cui poter riverberare. L’incontro è il suo esistere, la “mancanza” è la sua possibilità. La “luce del primo mattino” è decisa e determinata, raggiunge ogni angolo oscuro, ogni stradina tortuosa, ogni piega che nasconde; non rivela, ma svela, toglie, libera, rende possibile lo sguardo, prende per mano e dipana la paura del buio.

Sento il bisogno di essere preso per mano da chi è come questa “luce del mattino”, ed essere anche costretto ad uscire allo scoperto, di non restare troppo comodo nella mia vita; ho profonda nostalgia delle domande scomode, dei sogni sgangherati e con tinte emotive forti, di quei sogni con orizzonti rivoluzionari anche un po’ fantasiosi, come quelli che mi furono donati in piena giovinezza, mi fu insegnato a sognare con gli altri e spesso a sognare anche per gli altri. Sento un vitale desiderio di incontrare nuovamente donne profetiche e uomini coraggiosi, che sanno coniare parole come ponti, che sanno perdersi nel rischio di un incontro, guardano gli altri negli occhi per un ascolto più profondo, sanno che lo sguardo è solo il primo passo, per essere accolti nel mistero dell’altro. E si avventurano a mani aperte.


Vorrei non aver paura dell’inquietudine che provo di fronte al vuoto culturale e di senso che si palesa nel nostro mondo, della violenza che continua a confondere e inquinare il pensiero, per distruggere ogni senso di appartenenza reciproca; vorrei rimanere lucido, stabile, serenamente in contrapposizione e decisamente resistente, verso chi invita cinicamente a riprendere in considerazione una “mentalità di guerra”, questa visione è la prima arma davvero subdola e potente. Non vorrei cadere al torpore dell’indifferenza, alla palude della distanza, al freddo di chi “basta a sé stesso”.

Mi sono preso giorni di solitudine quest’anno, mi sono avventurato nel “deserto” senza sapere cosa realmente potesse accadere, mi sono preso il rischio di “lasciar fare” a Lui, a Dio, che da sempre è per me come la “luce del mattino”. Tra le mani mi ha appoggiato “l’inquietudine”, da tener viva quando rischio di “fare a meno degli altri”, mi ha sussurrato che è più facile trovare la pace interiore e la quiete profonda, molto più difficile è trovare sé stessi nel volto dell’altro, così mi ha offerto un “sorriso” per spingermi in questa seconda avventura. Mi ha mostrato che è molto più forte e rivoluzionario com-promettersi con l’umano, sempre, sempre, sempre.


Una Parola ho ripetuto in queste settimane, nel cuore a cuore della preghiera, le ho ripetute come soffio leggero, sulle fatiche mie e di questo mondo, mi hanno nutrito, mi hanno scomodato, mi hanno forzato a mettermi in moto, te le regalo perché anche in te possano generare quella sottile, leggera e decisa “luce del mattino”:

Il Signore consolerà Sion, consolerà le sue rovine. Ritorneranno la gioia e l’allegria, il ringraziamento, il canto e la musica”.      Is 51, 3





lunedì 26 agosto 2024

Tre parole e mi scomodo

Inaspettatamente senti una carezza leggera e decisa, ti raggiunge e ti incontra nelle pieghe più nascoste della tua capacità di percepire, arriva come dono nel momento in cui smetti di pretendere e chiedere, quando non la costruisci nella tua mente, quando non la progetti a tua misura, quando smetti di volerla solo perché ne hai bisogno. C’è una gratuità che disarma, nella carezza di Dio.

Essa è profonda e smisurata intimità, che apre ad un respiro pieno, non è più un flusso di “acqua fresca”, è sorgente, è il punto esatto dove sgorga e lì, vieni posto, come un bambino adagiato nel talamo dove è stato generato. La Sua carezza ti pone al “tuo inizio” e ti ritrovi nel luogo del “tuo approdo”, in un abbraccio che è riconciliazione e armonia ritrovata: per-dono.

Ogni parola che cerchi di pronunciare per poter descrivere a te stesso ciò che quella carezza produce, senti che è insufficiente e per certi versi blocca quello che, in realtà andrebbe solo vissuto; il silenzio è il linguaggio appropriato in questa esperienza, perché ti immette nel flusso dell’incontro senza nessuna barriera, nessun paracadute, nessun vincolo, sei a “mani vuote”.  Ci si può spaventare e si tenta di riprendere subito il controllo, eppure il Suo essere non più di fronte, ma dentro tutto il tuo esistere, ti permette di comprendere chiaramente che ogni resistenza è il rifiuto più sciocco e la scusa più banale che puoi avanzare ad un dono smisurato, di cui ne hai sempre avuto nostalgia e nel tempo ne sei diventato mendicante.


Ecco perché nella Scrittura una delle parole ricorrenti a dismisura è “LODATE!”, espressione intrecciata, mescolata, sporcata e messa alla prova da fatiche, lotte, conflitti, contraddizioni e violenze, ma poi? Torna, come un intercalare di speranza, di riposizionamento alla radice, come parola generatrice che invita e coinvolge: LODATE! Si può sussultare, in un impeto di bellezza, di gioia piena, di letizia, di cambio di prospettiva, non perché te lo produci da solo, ma perché ti arriva dal TOCCO LEGGERO E DECISO DELLA CAREZZA DI DIO.

È ciò che succede all’amata o l’amato descritto nel “Cantico dei cantici” che grida e irrompe in un fiume di parole che descrivono la potenza dell’amore che ha sperimentato e ricevuto, lo narra agli altri come una lode: è bellissimo, urlerebbe.


    

Lodatelo perché è tenerezza, è fragilità che ti invita alla cura, è sguardo discreto che sa raggiungere senza giudizio, è limpidezza, accoglienza, è giustizia e grido nei più fragili, è denuncia nelle disuguaglianze, è paterno non paternalista, è madre perché il suo utero è gravido di misericordia, è fratello perché sei sangue del suo sangue, anche quando lo senti estraneo o che non ti appartiene, per Lui sei il desiderio che lo abita senza il limite di un inizio: “sei il suo desiderio.

Nella Scrittura, la carezza di Dio produce, con la stessa forza dirompente della LODE, con lo stesso vigore e potenza generatrice, la DENUCIA. La Sua carezza non è intimismo, sentimentalismo, non è il circolo delle “belle anime”, piuttosto irrompe facendo saltare i confini, ti spinge ad alzare lo sguardo e passare dalla contemplazione del tuo ombelico, agli occhi di chi ti sta accanto. La Sua carezza profonda è anche “scomoda”, nel senso etimologico che la parola racchiude in sé, ossia ti provoca fastidio, ti mette in difficoltà, immette una rottura, spezza un’armonia che era perniciosa e quindi ti mette in movimento, ti spinge ad andare fuori dal tuo “star comodo”. Fuori dal tuo comodo, trovi la realtà di vita di donne e uomini del tuo tempo, trovi i conflitti determinati e sostenuti dalle prepotenze e dai tornaconti dei pochi, vedi le disparità, le manipolazioni, le incongruenze, e non puoi più tacere. Scomodare è racchiuso anche nel “Vieni e seguimi”; chiara e senza sfumature la frase che Gesù rivolge ai primi che ha incontrato e che saranno la sua comunità di vita, per lui era palese dove si andava: nella Galilea delle genti, nella “borgia” delle contraddizioni.


In questi giorni di eremo l’occasione di fermarsi, rallentare il ritmo, permettere ai pensieri di decantare meglio in profondità, mi hanno permesso di rimettermi anche all’ascolto della storia personale di Charles de Foucauld, che per me resta quell’amico che, avendo trovato una passione per cui valeva la pena spendere tutta l’esistenza, te la trasmette e la sa instillare in profondità, appassionandoti così tanto e bene, che la stessa passione la senti ormai totalmente un “tuo vestito su misura”. Rileggendolo mi sembra che la sua vita abbia provato a mettere in armonia e in sinergia creativa proprie queste tre parole: CAREZZA, LODE E DENUNCIA. Le ha coniugate non passando attraverso progetti, strutture, mezzi efficaci e quant’altro, no: le ha fatte passare per la sua carne, nel suo corpo, nell’evolvere della sua vita, nelle relazioni concrete. Questa forma di vita scriveva a sé stesso: “vivila nel luogo più utile per il prossimo”.



lunedì 19 agosto 2024

Le sfumature di una parola

   


 Il silenzio è davvero denso, hai la percezione anche fisica che ti avvolga, e nelle prime ore della giornata, nella completa solitudine di questi giorni di eremo, accompagna e amplifica ogni piccolo rumore, dal caffè che borbotta mentre risale nella caffettiera, al cucchiaino che immergi nella zuccheriera e poi tintinna nella tazzina, ti soffermi anche ad ascoltare questo, ma più che perdere tempo e perderti, è gustare, assaporare è semplicemente “stare”. Il silenzio è solo una mano tesa, che anticipa o prepara l’ascolto, è la cura dello spazio dove desideri che avvenga un incontro, è il dettaglio necessario e l’essenziale che ti libera da orpelli e “cianfrusaglie mentali”, che potrebbero impedire un dialogo, un incontro, un ospitarsi. Siamo fatti di desiderio, quella spinta interiore che ci sposta e sbilancia oltre il nostro ristretto confine personale, siamo impastati di relazioni, incontri, attese e pretese, siamo abitati da tensioni e conflitti, da perdoni ricevuti e carezze salutari, siamo legati ad uno sguardo che ci riconosca e ci ospiti in altri vissuti, siamo anche cercatori e nomadi, in attesa di approdare in terre ospitali dove poter incrociare l’abbraccio gratuito e non quello soffocante.

    Siamo plasmati dalle relazioni e dalle dinamiche della reciprocità, allo stesso tempo siamo anche messi a rischio dai vortici e dagli invischiamenti che si possono generare nell’inevitabile interdipendenza. Il silenzio e un tempo di solitudine, è davvero quell’esodo che si dovrebbe affrontare con coraggio, è il decidersi di entrare nel deserto, di lasciarsi denudare, scarnificare, di rischiare l’essenzialità, di sentire la sete e riconoscere il pozzo dove dissetarsi. Per quarant’anni Israele fu nomade nel deserto, mormorò, imprecò, si costruì l’idea di essere libero legandola al ricordo e al rimpianto del tempo della schiavitù, preferì chiamare benessere, la dipendenza e lo sfruttamento, barattato per un piatto abbondante di cipolle. E la storia si ripete, con l’aggiunta di nuove sofisticazioni. L’idolo per la Bibbia è ciò che ti fa sentire libero, vincolandoti e stringendoti a sé. Un inganno non da poco, difficile da consapevolizzare, perché troviamo il paradiso, come direbbe Lacan, “in striscioline di godimenti”. Interessante, il Dio della Bibbia non promette striscioline di godimento, invita ad affrontare il lungo percorso del deserto, ad addentrarsi nella perdita di sé e delle sicurezze ingannevoli, camminerà con te non a posto tuo, compromettendosi lungo il cammino, rischiando anche del suo: essere messo in discussione e rifiutato.

    


Questo è anche il motivo per cui ho scelto di salire in eremo per un tempo prolungato. Non è il nido caldo, la tana per ripararsi dalle intemperie e dai pericoli, nemmeno il nascondiglio che ti salva dagli sguardi indesiderati e dalle situazioni moleste, ancor meno è “un muro di cinta”; piuttosto è “il cedimento necessario”. “la breccia nel muro”, “la mancanza di certezze”. Si viene in eremo perché senti un briciolo e uno scampolo di fiducia in Lui e sai che la fatica di entrare ed abitare sé stessi e la propria storia, è possibile farla in compagnia, ma mai verrà fatta a posto tuo.

A distanza di due settimane, incomincio ad accorgermi di come le “parole” hanno un sapore e uno spessore differente, è il frutto del silenzio e del tempo dedicato all’ascolto; ogni singola parola che leggi o pronunci nel cuore della preghiera, risuona e riverbera in profondità, diventano il luogo e il riflesso di un dialogo, senti che sono necessarie per dare forma e vita alla relazione che stai cercando e che stai vivendo. Le parole allora le ricerchi, le attendi prima di pronunciarle, le lasci decantare e le trattieni un po’ prima di lasciale andare. Esse hanno anche dell’incompiuto, perché alcune non bastano, altre sono insufficienti, altre ancora non sono adatte per dire quello che senti; ecco perché ogni singola parola ha bisogno di un corrispettivo silenzio, perché è quest’ultimo che accompagna e aggiunge quella parte di significato e di senso che altrimenti non raggiungeresti. Le parole aprono, bloccano, vincolano o lasciano andare; le parole fanno esistere, portano lo sguardo su un aspetto o lo distolgono da un altro; le parole costruisco passo dopo passo vicinanze, e posso scavare lontananze abissali; fanno fiorire o seccare di colpo. Le parole ti permettono di dare senso o di togliere importanza alla stessa identica esperienza, persona o relazione: la parola è nostra e ha in sé il “poter generare” o lo “strapotere di de-generare”. La parola serve per comunicare, ci mette nella condizione di essere prossimi e dirimpettai di altri, quindi dice chi siamo.


Il silenzio di Dio è invece quella parola indefinita e non vincolante, che viene pronunciata come “una sottile voce leggera” (cfr. 1 Re 19, 12.), che prima ancora di intercettarti, è spazio di accoglienza incondizionata, è attesa, è grembo e presenza che allarga i confini dell’intimità. La parola che Dio sussurra nell’incontro della preghiera silenziosa e scarna non è mai violenta, anche se la sperimenti come decisa e chiara, è come una “mano” che senti di voler afferrare, perché ti conduce in profondità e ti permette di attraversare il deserto appunto, con l’unico “mezzo” possibile: la fiducia che ti ispira e la fedeltà che mai è venuta meno in questi anni.

Ecco allora che questo tempo di solitudine non è altro che entrare a fondo nel proprio vissuto quotidiano: non puoi fare a meno di rileggere le relazioni, di riconoscere le fatiche, di prendere responsabilità verso le parole che hai pronunciato o scelto codardamente di non dire,  di quelle che ti sono servite come corazze o pietre da scagliare; ma senti anche di accogliere quelle che hanno segnato in bene la tua vita, che hanno costruito amicizie e fraternità, che ti hanno liberato, fatto crescere e appassionato, le parole che non sapevi dire e che ti sono state consegnate.