venerdì 8 dicembre 2023

110 ...e storie


Nel giro di due giorni mi sono trovato come in gabbia, l’impalcatura è salita rapidamente da piano terra al quinto,  un incastro dietro l’altro, il palazzo si è trovato così impacchettato, per il suo maquillage di bellezza, in questo modo almeno all’esterno possiamo sembrare in ordine, ma dentro la vita scorre come sempre, a volte movimentata tendente all’agitato, altre volte con una tranquillità assonnata.  Dal mese di aprile scorso ad oggi ancora polvere, calcinacci, pezzi di polistirolo scuro da attaccare alle pareti per isolare e proteggere dal freddo, spero non dalle relazioni e dalle storie che qui scorrono con tinte in chiaro scuro. Nel quartiere la vita scorre sulla mano del tempo, che ogni tanto si stringe e spezza equilibri, per alcuni troppo precari; la fatica del vivere irrompe improvvisa, si manifesta palesemente con atteggiamenti e fatti che vanno oltre l’ordinario, e  i titoli di giornali ci ricordano che non siamo affatto un quartiere “sicuro”, “normale”, saremmo più da normare e normalizzare. Fortunatamente chi ha la “vista buona” e sa leggere tra l’anonimato, sa spingere oltre, riconoscendo tra ciò che “non va”, le storie silenziose di tanti:  donne che si prendono cura dei propri figli in un contesto non proprio, per cultura e lingua, che vanno oltre gli stereotipi in cui molte volte sono bloccate;  uomini capaci di affrontare con dignità le sfide inaspettate e inattese di un emigrazione, che aveva per sogno il bene per sé e la propria famiglia. Chi sa guardare la vita, non scende mai nelle secche della semplificazione, ma è come un marinaio capace di navigare nelle tempeste come nella bonaccia, sapendo che davanti a sé ha sempre il mare e il mare ha orizzonti sconfinati e non definibili, ha rotte da tracciare con prudenza, lungimiranza e saggezza, ha porti che rinfrancano, non come approdi chiusi, ma aperti ancora al navigabile. Qualcuno affonda, altri restano a galla, altri ancora solcano le acque sapendo mettere a favore delle proprie vele il vento che sempre soffia.

    Per mesi, dal mio minuscolo balcone  non vedo nulla, se non un impalcatura protetta da un telo bianco, la quale mi costringe a trattenere lo sguardo, a censurare la visuale, anche la luce del giorno è filtrata: vivere in una scatola.


Eppure.

    È passato il mondo davanti la mia finestra, si sono palesate storie in un istante e in un tempo breve, come narrazione “tascabili”. Incontri avvenuti  intorno ad una tazzina di caffè offerto e il tempo scandito dal giro ritmato del cucchiaino per far sciogliere lo zucchero e renderlo meno amaro quel caffè, come meno amaro poteva essere l’ascolto delle storie di vita. Gli operai su e già per l’impalcatura, si muovono rapidamente come su un terreno solido, sembrano non tener conto dell’altezza e dell’apparente fragilità, sono metafore di uomini e donne che nella fragilità e precarietà hanno imparato a mettere il piede nel punto giusto per non cadere.  Sanno camminare sull’orlo di un precipizio senza farsi prendere dalla vertigine che potrebbe bloccare, forse hanno appreso anche a muoversi in compagnia della vertigine, ne hanno fatto una risorsa. Li sento passare anche mentre prego nella mia cappellina, uno spazio pensato e realizzato per far abitare la preghiera in questo contesto e fare di questo contesto sociale, il cuore della relazione con “l’Infinitamente Presente”. Passano e ripassano mentre sono in ascolto della Parola, Lei stessa a volte precaria, capace di provocare vertigini e manifestare abissi, Parola che coglie contraddizioni, prende per mano per condurti nel cuore della vita, che non ti costruisce attorno una protezione, ma che ti invita ad aver coraggio per smontare le impalcatura, che troppo rigorosamente si sono costruite con la funzione di proteggere e difendere.

    


In questi mesi il mondo si è affacciato sul mio balcone, mi è venuto incontro e così per un istante si è fermato per consegnarmi la vita e alla vita. È entrato fisicamente nella mia casa, non dalla porta, ma dal balcone. Gli operai si sono susseguiti con un cambio abbastanza rapido, ma non è mai mancata l’occasione di conoscerli e scoprire le loro storie. Ciò che mi ha colpito è il modo schietto e spesso confidenziale, con cui hanno raccontato di loro, delle fatiche, dei sogni infranti, della durezza del lavoro, delle famiglie distanti. Così ho scoperto chi, laureato in lingue, si trova da immigrato a poter lavorare solo in un cantiere, ma non demorde, mi chiede infatti di poter venire a casa a parlare per qualche consiglio, mi chiede addirittura di correggergli una traduzione in italiano che ha prodotto; negli occhi la determinazione e perché no, anche la caparbietà e l’orgoglio di potersi riscattare il prima possibile. Ma anche chi più semplice, ci tiene ad arrivare davanti la mia finestra tutte le mattine per formulare le poche parole che conosce in italiano: “come stai?”, “buon giorno”, “tutto bene?”, e poi quel “grazie, grazie”, ripetuto più volte solo perché un giorno ho offerto un caffè e dell’acqua fresca in piena estate. Ma c’è anche il papà italiano che si ritrova a fare questo mestiere pur avendo anche lui studi e laurea alle spalle, ma per la famiglia ha dovuto rinunciare a tutto…chissà che altro conserva dentro. E poi l’immancabile domanda anche da parte loro: _ ma tu perché vivi qui, come puoi starci?. È una fortuna non saper dare risposta e sentire dentro che si è al posto giusto.




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