
Ci si può accogliere semplicemente, guardarsi negli occhi e
liberare il desiderio di avvicinarsi con rispetto, una stretta di mano che
diventa il superamento di confini, abbassa le diffidenze e così sperimentare
nella stretta una sorta d’abbraccio
profondo, l’espressione di un fidarsi reciproco. Ciò che più mi colpisce è
quell’essere sempre anticipato nel chiedere “come stai?”, chi torna sfinito da
lunghe ore di lavoro, che conosce poco riposo settimanale, logorato lentamente
dal freddo e dall’umidità, piegato da gesti ripetuti all’infinito ma
soprattutto svuotati da un ambiente che ti considera “forza lavoro” prima che
uomo, chi vive questa fatica, ha il diritto che qualcuno gli chieda almeno:
“come stai?”. Invece nel mio quotidiano è esattamente l’opposto: sono sempre
loro ad anticiparmi. Mi immergo in questo potere delle relazioni, lasciandomi
modellare da ciò che avviene, intensificato, concretizzato da gesti semplici,
che trovano significato nell’ambiente in cui avvengono, perché il contesto
ambientale è una cassa di risonanza, lo
spazio dei significati. La diffidenza, il distinguersi e il separarsi per
appartenenze, non mancano certo nel mio
quartiere, in completo attrito con chi invece prova a guardare negli occhi, ad
avvicinare, salutare ed incontrare. C’è di tutto e il contrario di tutto qui.
Per me c’è principalmente la possibilità di addentrarmi nelle zolle più aride
di questa terra che appare incolta, secca e incapace di generare. Il primo
sentimento che mi abita e che spesso prevale in me è quello dell’impotenza, che
nell’epoca dei super eroi non è sempre facile da accogliere, eppure è quel
processo di spogliazione che ti libera; lentamente giorno dopo giorno sento che
questa realtà mi spoglia: mentre procedo nel camminare, una mano o uno sguardo,
una parola come un incontro inaspettato, mi tolgono lentamente un abito di
troppo, ci si alleggerisce, o meglio si viene alleggeriti. Solo con la
leggerezza si può camminare in punta di piedi nel quotidiano ferito che
incontro, sono necessarie mani vuote per “toccare”. Mai come in questo momento
ho necessità e desiderio del silenzio di Dio, come se fosse una mano
estremamente delicata e decisa che si avvicina alla mia e mi accompagna in
profondità nel solchi aridi di esistenze spezzate. Non tutto si riesce a
narrare, molto va custodito. Dio mi ha preso per mano e guardandomi negli occhi
mi ha fatto innamorare della bellezza
del “passo indietro”…è un passo di danza che mi ha aperto lo sguardo in avanti
verso le relazioni.
Il mio amico indiano rientra quasi contemporaneamente a me
dal suo lavoro, con la piccola differenza che lui esce alle 5:00, la prima cosa
che fa è telefonarmi per accertarsi che sono a casa, ha preso per me al suo
lavoro una confezione d’insalata già pronta, sa che mi piace e che mangio
soprattutto verdura, è il suo gesto di attenzione, la praticità con cui narra
la nostra amicizia e quando mi dice che non gli piace l’ambiente del nostro
palazzo ci tiene a dirmi che però ci sono io. Io ho scelto di stare qui, lui no.
